Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi! » (Gv 20, 19‑31)
Pace è il nome della Risurrezione.
Cristo, quando appare ai suoi amici, usa il termine Shalom, che era saluto familiare per ogni israelita, un'espressione augurale.
La pace era dono di Yhwh e, più che un vocabolo, era un concetto religioso.
Lo stato di pace, in una persona, indicava una condizione di benessere, con un'accentuazione in senso materiale, realizzabile soltanto attraverso un'intima comunione con Yhwh.
Il risorto, dunque, augura la pace.
E si tratta, beninteso, della sua pace.
Fermiamoci a considerare questa pace che dobbiamo possedere in noi stessi, per poterla irradiare sugli altri e diventare così – per usare il linguaggio delle Beatitudini ‑ « operatori di pace ».
Come per la gioia, anche per la pace si può dire che ne esistano in commercio due tipi.
Quella nostra e quella che ci danno gli altri.
La prima ha caratteristiche di inalterabilità. L'altra è all'insegna della precarietà e provvisorietà.
Mi spiego con un esempio. Ho assistito personalmente a questa scenetta.
Paolo è un simpatico bambino. Un giorno decide di costruire, nel proprio cortile, una capanna. Convoca i compagni di gioco e tutti s'impegnano a collaborare all'impresa. Chi porta i pali, chi una tenda, chi una sedia, chi una stuoia, chi un vaso, chi uno specchio.
La faccenda regge per alcune settimane. Un pomeriggio i ragazzi bisticciano con Paolo. « Se non ci fosse il mio cortile... », si fa forte lui. «Ma noi abbiamo messo tutto il resto», protestano gli altri. Al termine dell'acceso litigio, ognuno ritira ciò che aveva offerto per la costruzione della capanna. Ognuno recupera precipitosamente e riporta a casa il proprio pezzo. Tutto si sfascia in un attimo. E Paolo rimane col suo cortile vuoto e una scopa!
Ecco. Il problema sta tutto qui. Con quali materiali abbiamo costruito la nostra pace?
Quando qualcuno, in confessionale, si lamenta:
‑ Padre, mi hanno fatto perdere la pace...
Io rispondo:
‑ Se gliel'hanno portata via gli altri, è perché la pace non era sua. Gli altri si sono limitati a riprendersi ciò che avevano prestato... Erano nel loro diritto.
Troppe volte la nostra pace è costruita con materiali che non ci appartengono. Qualcuno ci dà un briciolo di stima, un altro ci offre un po' di simpatia, altri ancora un pizzico di apprezzamento per il nostro lavoro, una dichiarazione di accordo con le nostre idee, un complimento, un elogio.
E noi stiamo in pace nella nostra capanna. Tutto fila alla perfezione.
Non abbiamo il coraggio di riconoscere che quella costruzione è tenuta insieme da materiali d'accatto.
Che la nostra pace dipende, in realtà, da ciò che hanno messo gli altri.
Poi, un giorno, succede un piccolo o grosso incidente. Qualcuno ritira il suo pezzo (uno sgarbo, un'incomprensione, un'osservazione ingiusta, un'indelicatezza, una malignità, un'interpretazione malevola di una nostra azione). E la nostra pace si sfascia.
Naturale. Non era nostra.
Abbiamo perso, semplicemente, ciò che non ci apparteneva.
La pace che non è nostra dura finché tutto va bene.
La pace nostra, invece, dura anche quando tutto va a rotoli.
« Non ho più la pace... »
Non l'hai mai posseduta veramente.
Quella che avevi era esposta alle intemperie, alle variazioni meteorologiche, ai capricci altrui, agli umori mutevoli delle persone che ti stanno accanto.
Perché la pace sia nostra, occorre riceverla in dono dal Cristo. Lui ci dà la sua pace. E non se la riprende più. Ci appartiene.
Teniamo presente, però, secondo l'invito di uno studioso ‑ P. Ricca ‑ le caratteristiche fondamentali di questa sua pace che può diventare nostra, se l’amiamo, se la accettiamo.
È una spada che taglia, divide, spezza certi legami. Per cui la sua pace rappresenta la crisi, e forse la fine della nostra pace.
È una pace militante. «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Non possiamo separare questo fuoco dalla sua pace. Non si tratta dunque di una pace tiepida, ma di una pace che brucia, lascia il segno sulla carne. La pace evangelica chiama al combattimento più che al riposo. Non è un punto di partenza, ma di arrivo.
È una pace diversa. Esclude la paura, scaturisce dalla logica dell'andare oltre, dalla capacità di andare controcorrente.
È, infine, una pace crocifissa. Colui che è la nostra pace, è anche Colui che è stato tradito, arrestato, consegnato, giudicato, condannato a morte, crocifisso. Ossia, la sua è una pace rifiutata. Non è la pace trionfante, come la « pax romana ».
Se questa pace ancor oggi viene annunciata, proclamata, vissuta, ciò è dovuto al fatto che Dio ha risuscitato il Crocifisso. Perciò è ancora presente e operante in mezzo a noi.
La pace che ci dona il Cristo si colloca al centro, nelle profondità del nostro essere, non si appiccica semplicemente alla pelle, col rischio di vederla sparire alla minima bava di vento contrario.
Lui è la nostra pace.
Accogliere la pace di Cristo significa accogliere
In tal caso, soltanto noi possiamo perdere questa pace. Sbarazzandoci dell'Ospite. Oppure, che è lo stesso, costringendolo a coabitazioni sgradevoli.
La pace, più che una conquista, è una scelta.
Complimenti per il blog da www.cattoliciromani.com
pace,parola così abusata da essere svuotata di significato.Finchè resta una parola....ma la pace è uno stato di grazia che va conquistato,sofferto,amato e anche pregato.C'è pace senza Cristo?