Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,27-39).
commento di A. Pronzato:
Ammettiamolo. La parabola del pastore e del gregge non è molto in sintonia con la nostra mentalità moderna.
Colpa anche di certa iconografia sacra che ci ha propinato quella stucchevole immagine del «buon pastore»: un Gesù dolciastro, con i lineamenti di un biondo efebo, capelli ricci, agghindato a dovere, occhi azzurri, e l'immancabile pecorella adagiata sulle soffici spalle.
E poi, via, anche noi proviamo una certa ripugnanza nel riconoscercí parte di un gregge, sia pure del gregge pilotato da Cristo.
Istintivamente pensiamo alla scena dei famosi pecoroni di Panurge.
Oppure rispolveriamo la celebre battuta di E. Le Roy che paragona i fedeli agli agnelli della Candelora: «Si benedicono e poi si tosano».
Comunque, il gregge richiama il pericolo di un conformismo gregario, di un livellamento. La persona scompare, si lascia assorbire, viene inghiottita dalla collettività, fino a smarrire la propria identità.
Nietzsche denunciava: «La comunità rende comuni».
E potremmo citare anche un'espressione di Cechov: «Una volta nel gregge, è inutile che abbai, scodinzola».
Oppure un aforísma finlandese: «Quando una pecora bela. tutto il gregge ha sete».
Ma questo triste fenomeno è reso possibile soltanto dal fatto che certe persone accettano di perdersi nell'anonimato, di lasciarsi assorbire in una massa indífferenziata, di dissolversi nel più piatto conformismo, di camminare a testa bassa.
Non è certo questo lo stile del gregge voluto dal Cristo.
Secondo il piano di Dio, la comunità costituita dal suo popolo rappresenta sia il superamento dell'individualismo (per essere se stessi occorre vivere‑con), sia il superamento del conformismo gregario (per vivere‑con occorre conservare la propria unicità).
L'apporto che il singolo reca al «gregge» dev'essere un apporto personale, dinamico, intelligente. Il che è proprio l'opposto di un dissolvimento nella collettività.
«Non si tratta di seguire, più o meno passivamente, il movimento generale; un certo conformismo nasconde un'indifferenza, una pigrizia o una pusillanimità che ledono effettivamente la comunità. Infatti questa è ricca soltanto dell'apporto dei suoi membri. Essa viene impoverita quando io non metto a suo servizio la totalità delle mie risorse. E, nello stesso tempo, io impoverisco me stesso.
Il cielo non è un sonno ipnotico collettivo di una folla anonima in cui ognuno sarebbe fuori di sé. E neppure un pasto cui si partecipa sistemati in piccoli tavoli dove ci si mantiene a distanza gli uni dagli altri. No. E’ un concerto dove ciascuno ha la propria voce personale, insostituibile. E dove le voci accordate si richiamano, si completano e si sostengono a vicenda» (A. Motte).
La sinfonia ha bisogno della mia nota personale. Se la rifiuto, rimango solo, povero, con la mia nota che risulta immancabilmente stonata.
Se la mia nota è priva del timbro inconfondibile della sua unicità, la sinfonia si riduce a una monotona filastrocca.
In tutti e due i casi la condanna è inevitabile: ci si impoverisce nell'atto stesso di impoverire gli altri.
Cristo è pastore, il vero pastore, in quanto rappresenta l'opposto del «mercenario». Infatti lui dà la sua vita per le pecore. Non le sfrutta. Non le strumentalizza. Non le domina. Piuttosto le serve.
Da lui noi siamo «conosciuti per nome», ciascuno di noi è importante, unico ai suoi occhi, rispettato e amato nel suo itinerario irripetibile.
Lui non vuole che assumiamo atteggiamenti passivi. Esige ci comportiamo da persone libere, creative.
La sua cura del gregge non è livellatrice, ma personalizzante.
[... continua al prossimo post.].