La sofferenza (parte II)

martedì 9 ottobre 2007 alle 14:15

[...] Possiamo ritornare di nuovo alla prima domanda per spiegare la dimensione del dolore e della sofferenza presente nel mondo?


Credo che dobbiamo anzitutto rinunciare a spiegare l’inspiegabile. Il male è un enigma, la sofferenza è un enigma irriducibile che resiste alle nostre sapienze e tentativi di spiegazione e razionalizzazione. Di più. Non esiste l’astratta sofferenza o l’astratto dolore: esiste solo la sofferenza di una persona precisa; esiste il dolore che devasta il corpo e la mente di un uomo e di una donna. Esiste l’uomo sofferente che, nella sua unicità irripetibile, dà un volto tutto particolare alla sofferenza e al dolore. In quest’ottica possiamo dire che la sofferenza non ha un senso - prestabilito, già fissato, già determinato -, ma che un senso lo può ricevere dalla persona che la sta vivendo. Il senso della sofferenza è un evento, non un dato. E questo è vero da un punto di vista antropologico e psicologico come da un punto di vista spirituale e cristiano.

Sappiamo come le grandi sofferenze - un lutto, la nascita di un figlio portatore di handicap, l’insorgere di una grave malattia, un incidente che costringe all’immobilità -, mettano in atto un lungo percorso psicologico con cui la persona reagisce a ciò che sta capitando alla propria vita per giungere faticosamente a darvi un senso. Un cammino che conosce molte tappe - shock, negazione, collera, trattativa, depressione, accettazione, pace -, e nessuna sicurezza che esso sia compiuto per intero e senza ritorni indietro. Ma anche dal punto di vista cristiano la sofferenza mette in crisi l’immagine di Dio che si aveva prima e può scatenare una vera e propria crisi di fede.

Ma può anche essere l’occasione per spezzare immagini di Dio artefatte, consolatorie, rassicuranti, e ritrovare la verità e la nudità della propria fede. Il senso cristiano della sofferenza avviene nell’incontro tra lo Spirito di Dio e la particolare umanità del sofferente, e ovviamente dell’ambiente umano che lo circonda. È un evento pneumatico, cioè spirituale.

Su questo tema cosa occorre ricordare ad un giovane?
Poche ed essenziali cose: e anzitutto che la sofferenza fa parte della vita ed è inevitabile incontrarla. Volerla rimuovere, evitare, non risolve il problema. Occorre allora dire la propria sofferenza: trovare una persona a cui si possa confidare la sofferenza che ci turba e sconvolge. “Parlare la sofferenza” è il primo passo per elaborarla e non lasciarsene abbattere. Verbalizzare, mettere in parole il proprio dolore e trovare chi accolga questa sofferta espressione, queste difficili parole, può aiutare il sofferente stesso ad accogliere la propria sofferenza e ad accogliersi nella propria sofferenza: se un altro mi accoglie, anch’io posso accogliermi. Della sofferenza, infatti, non ci si deve vergognare.

I modelli esistenziali diffusi dalla pubblicità e dai rotocalchi sono menzogneri nel loro presentare persone sempre belle, vigorose, in salute, ed eternamente sorridenti. La realtà è infinitamente diversa…
Nella realtà il giovane si trova a vivere sofferenze che non sa come portare e crisi che non sa come gestire. Ogni crisi è un momento di passaggio che può avere un esito positivo o negativo. Ma la crisi è essenziale alla vita, la quale procede e avanza appunto attraverso crisi. Spesso le crisi, col peso di sofferenza che comportano, sono l’occasione di ritrovare verità, di spezzare le corazze delle sicurezze acquisite e in cui ci si stava cristallizzando, sono il faticoso prezzo da pagare per entrare sempre più pienamente nella vita.

Non si dimentichi che la prima sofferenza e la prima e radicale crisi è sempre alle nostre spalle ed è la nostra nascita. Avvenuta nel dolore della madre e culminata nella traumatica uscita alla luce del bambino che grida, essa è la dolorosa e necessaria sofferenza per entrare nella vita. Da allora ogni progresso nella vita, ogni scelta, ogni decisione, comporta un peso di fatica, dolore, sofferenza.

Non si abbia paura della fatica! Nulla è a basso prezzo nell’esistenza, nulla è dovuto. Anche l’amore è un lavoro, una fatica, che comporta sofferenza. Ha scritto il poeta Rainer Maria Rilke:

“Non c’è nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro a giornata. I giovani però non sono preparati a questa difficoltà dell’amore. Di questa relazione estrema e complessa le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così. L’amore è una cosa difficile… Prendere sul serio l’amore, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco, un divertimento. Ma chi ama deve cercare di comportarsi come se fosse di fronte a un grande compito: spesso restare solo, rientrare in se stesso, concentrarsi; deve lavorare; deve diventare qualcosa!”.


La sofferenza è come lo scalpello dello scultore che colpisce il masso di marmo per farne emergere la figura finita, la statua. I colpi della sofferenza, accettati e assunti, plasmano la nostra umanità nella saldezza e nella verità. (Carlo Silvano)

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