Occasione o tentazione?... ancora sul discernimento
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Il prossimo è sempre lontano
In fondo, dobbiamo essere grati al «dottore della Legge» che ha posto sul tappeto la questione più impegnativa.
Non domanda, come ci saremmo aspettati: «Chi è Dio? »
Evidentemente, nel mondo dell'invisibile, lui si sente perfettamente a suo agio, si ritiene già al sicuro. Dio lo «possiede» (Tempio, funzioni, preghiere, pagamento delle decime, pratiche, osservanza scrupolosa della Legge). Dio non fa problema per lui. E’ in ottimi rapporti col cielo.
Il prossimo, invece, quello sì fa problema.
Proprio il prossimo che si vede, si sente, si tocca, si incontra, puzza, ci pianta i gomiti nello stomaco, è più difficile da amare che non Dio che pure è invisibile.
Più difficile «trovare» il prossimo che non Dio.
È la grossa questione che impegna da secoli la teologia di Israele, dilacerata tra:
‑ un universalismo astratto (amare tutti)
‑ e un particolarismo esclusivista, selettivo, discriminatorio (ama i tuoi correligionari, i buoni, i giusti, quelli della tua razza, della tua fede, delle tue idee, del tuo partito ... ).
Si intuisce che «amare tutti» può portare a non amare veramente nessuno.
E amare una categoria, un gruppo, escludendo aprioristicamente gli altri, significa non amare affatto.
Ma fissiamo le due posizioni. Quella del legalista e quella del Cristo.
Lo scriba:
- Pretende una definizione di «prossimo»: sicura, precisa, definitiva, in modo da sentirsi a posto in coscienza.
‑ Pone una domanda circa l'oggetto dell'amore (chi devo trattare come prossimo?).
Pensa primariamente a sé: devo garantirmi la «vita eterna». Possibilmente con il minimo sforzo e il massimo di certezza. Per cui: fin dove devo arrivare? Fin dove sono obbligato? Dove e quando finisce il mio dovere?
Gesù:
‑ Evita di fornire una definizione di prossimo. Perché la definizione lascia sempre fuori qualcosa o qualcuno. Mentre il Cristo intende lasciare aperta
‑ Fa capire che il prossimo non è un oggetto, ma l'incontro tra due soggetti. Non si tratta di trovare il prossimo già bell’ e fatto, e scaricarci sopra un po' di pietà o elemosina, ma di «farci prossimo», ossia avvicinare. Perché il prossimo è sempre lontano. Lontano dalla strada dei nostri interessi, simpatie, gusti, idee, programmi.
Il prossimo è distante: scostante. antipatico, cattivo, prepotente, indiscreto, immeritevole.
Il prossimo non ci viene incontro. Non favorisce il contatto. Non si rende amabile. Anzi, sembra fare di tutto per renderci estremamente arduo il comandamento dell'amore.
Il prossimo è lontano. Difficile da vedere, da accettare, da sopportare.
Il prossimo diventa prossimo, ossia vicino, quando ci avviciniamo noi.
Prossimo è colui che «rendo vicino» io, non stando al mio posto.
È lui allora che ci sente «prossimi», «vicini ».
In altre parole: non siamo noi che scegliamo il prossimo. Ma è il prossimo che ci sceglie, ci provoca.
Il prossimo va oltre i nostri libri, le definizioni, le classificazioni, i nostri gusti, le nostre simpatie.
C'è una resistenza terribile da vincere, per accostarsi al prossimo.
Amare vuol dire, precisamente, abolire le distanze. E sono distanze interiori, più che espresse in chilometri.
Per avvicinarsi, occorre uscir fuori da se stessi. Spaccare il guscio del proprio egoismo, andare contro al nostro benessere privato, venir fuori dai nostri progetti, dai nostri schemi, dal tepore di una religiosità confortevole e gratificante.
Soltanto così è possibile incontrare l'altro.
E l'incontro ‑ attraverso l'esempio che offre il Samaritano ‑ avviene tra due uomini. Non c'è più samaritano e giudeo, ortodosso ed eretico, ma due uomini che l'incontro casuale ha spogliato delle loro maschere, del loro ruolo, della loro razza. Soltanto due uomini.
Il Samaritano non domanda chi è l'altro, di che religione, di che partito. Davanti a lui c'è semplicemente un povero che si trova in stato di necessità. L'avvicinamento è determinato da questo semplice connotato: un uomo. Senza aggettivi, senza titoli. Meglio, l'unico titolo è il bisogno.
Non pensare a te, alle tue esigenze. Pensa a chi è nel bisogno. Mettiti al suo posto. Collocati nella sua prospettiva.
Chiediti: che cosa esige da me, che cosa si aspetta, che cosa vorrebbe avere uno che si trova in quella situazione?
Allora ti renderai conto che il precetto dell'amore non tollera limiti restrittivi e securizzanti.
Non dire: «Fin dove sono obbligato?» Ma: «Che cosa si aspetta da me quel poveraccio?»
Se ti metti dal tuo punto di vista, ti creerai delle barriere dì protezione.
Se ti metti dal punto di vista dell'altro, ti si spalancherà davanti un orizzonte senza limiti.
Si tratta, a pensarci bene, di una vera « rivoluzione copernicana » nel campo della carità.
Infatti, la lezione centrale della parabola consiste nell'insegnarci la prospettiva giusta.
Una prospettiva che in base al racconto «provocatorio» del Cristo, rappresenta un autentico capovolgimento delle posizioni.
«Chi è il mio prossimo? »
«Chi è stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?»
Non è una sottile questione linguistica.
Ma un rovesciamento radicale di prospettiva.
Cristo invita a guardare, a giudicare, a definire, partendo da «colui che è incappato nei briganti».
Il dottore della Legge parte da sé, dalla propria coscienza, dalla propria esigenza di salvezza («che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»).
Gesù lo scaraventa brutalmente in disparte. Il suo problema non è quello principale. Il problema principale è quello del ferito. Risolvendo quello, viene risolto anche il problema dello scriba.
Il centro non è l'intellettuale che pone
«... Va' e anche tu fa' lo stesso».
Trattandosi di amore, é significativo che Cristo usi due verbi che indicano rispettivamente movimento («va'») e azione («fa'»).
Lo scriba, che interroga Gesù, all'inizio dimostra soltanto di voler «sapere ».
Alla fine, si ritrova con qualcosa da fare.
Ossia, il Cristo esige da lui, da noi, un sapere «diverso».
Un sapere per amare.
(A. Pronzato)
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Rallegratevi con Gerusalemme, voi che avete partecipato al suo lutto
Mi colpiva tanto l’inizio della prima lettura:
Rallegratevi con Gerusalemme,
esultate per essa quanti l’amate.
Sfavillate di gioia con essa,
voi tutti che avete partecipato al suo lutto (Is 66,10)
L’invito è chiaramente un invito alla gioia, all’esultanza, a non rimanere prigionieri delle nostre tristezze, anzi è addirittura un “comando”, un imperativo: Dio non ci vuole tristi perché ci ha creati per la pienezza della felicità.
Nello stesso tempo però
Paradossalmente gioia e dolore, ancora una volta vanno a braccetto, camminano insieme.
Non possiamo godere della gioia di Gerusalemme se non l’amiamo, se non siamo in comunione con lei... Penso alla Chiesa, alle nostre parrocchie, alle nostre comunità religiose....
Quanto sappiamo rimanere nell’amore anche quando le cose non sono come le vorremmo?
E questo “partecipare al suo lutto”: avere il coraggio anche noi di scendere nella morte con lei per godere della vita che ci verrà certamente ridonata, che ci viene sempre, di nuovo, ridonata.
In fondo questo è stato il cammino di Gesù che ha amato la sua Gerusalemme (quella storica del suo tempo, ma anche quella di oggi... noi ) e ha partecipato davvero al suo lutto fino a morire Lui stesso: non potremo evitare che sia anche il nostro cammino se vogliamo stare con Lui....
sr. Ombretta
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Fino a quando mi ingannerai?
dal Diario di s. Faustina Kowalska:
Varsavia, I.VIII.1925
Fin dall'età di sette anni avvertii la suprema chiamata di Dio, la grazia della vocazione alla vita religiosa. A sette anni intesi per la prima volta la voce di Dio nella mia anima, cioè la chiamata ad una vita più perfetta, ma non sempre ubbidii alla voce della grazia. Non incontrai nessuno che mi chiarisse queste cose.
Diciottesimo anno di vita; insistente richiesta ai genitori del permesso di entrare in convento; rifiuto categorico dei genitori.
Dopo tale rifiuto mi diedi alle vanità della vita, non rivolgendo alcuna attenzione alla voce della grazia, sebbene l'anima mia non trovasse soddisfazione in nulla. Il richiamo continuo della grazia era per me un gran tormento, però cercavo di soffocarlo con i passatempi. Evitavo d'incontrarmi con Dio intimamente e con tutta l'anima mi rivolgevo verso le creature.
Ma fu la grazia di Dio ad avere il sopravvento nella mia anima.
Una volta ero andata ad un ballo con una delle mie sorelle.
Quando tutti si divertivano moltissimo, l'anima mia cominciò a provare intimi tormenti.
Al momento in cui cominciai a ballare, scorsi improvvisamente Gesù accanto a me, Gesù flagellato, spogliato delle vesti, tutto coperto di ferite, che mi disse queste parole: «Quanto tempo ancora ti dovrò sopportare? Fino a quando mi ingannerai?». All'istante si spense l'allegro suono della musica; scomparve dalla mia vista la compagnia in cui mi trovavo.
Rimanemmo soli Gesù e io.
Mi sedetti accanto alla mia cara sorella, facendo passare per un mal di testa quanto era accaduto dentro di me. Poco dopo abbandonai la compagnia e la sorella senza farmi scorgere e andai nella cattedrale di S. Stanislao Kostka. Era quasi buio. Nella cattedrale c'erano poche persone. Senza badare affatto a quanto accadeva intorno, mi prostrai, le braccia stese, davanti al SS.mo Sacramento e chiesi al Signore che si degnasse di farmi conoscere ciò che dovevo fare.
Udii allora queste parole: «Parti immediatamente per Varsavia; là entrerai in convento». Mi alzai dalla preghiera, andai a casa e sbrigai le cose indispensabili. Come potei, misi al corrente mia sorella di quello che era avvenuto nella mia anima, le chiesi di salutare i genitori e così, con un solo vestito, senza nient'altro, arrivai a Varsavia.
Quando scesi dal treno e vidi che ciascuno andava per la sua strada, fui presa dalla paura: che fare? ove rivolgermi, dal momento che non conoscevo nessuno? E dissi alla Madre di Dio: «Maria, fammi strada, guidami Tu!».
Immediatamente udii dentro di me queste parole: di andare fuori dalla città in un villaggio, dove avrei trovato un alloggio sicuro per
Il giorno dopo di buon mattino feci ritorno in città ed entrai nella prima chiesa che mi si parò dinanzi.
Qui mi misi a pregare, per conoscere che cosa volesse ancora Iddio da me.
Le SS. Messe si susseguivano una dietro l'altra. Durante una di queste, mi sentii dire: «Va' da questo sacerdote e spiegagli ogni cosa; egli ti dirà quello che dovrai fare».
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Figli
Genesi 48,8-20 8 Poi Israele vide i figli di Giuseppe e disse: "Chi sono questi?". 9 Giuseppe disse al padre: "Sono i figli che Dio mi ha dati qui". Riprese: "Portameli perché io li benedica!". 10 Ora gli occhi di Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere. Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò. 11 Israele disse a Giuseppe: "Io non pensavo più di vedere la tua faccia ed ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!". 12 Allora Giuseppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. 13 Poi li prese tutti e due, Efraim con la sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra di Israele, e li avvicinò a lui. 14 Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito. 15 E così benedisse Giuseppe: "Il Dio, davanti al quale hanno camminato i miei padri Abramo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi, 16 l' angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi giovinetti! Sia ricordato in essi il mio nome e il nome dei miei padri Abramo e Isacco e si moltiplichino in gran numero in mezzo alla terra!". 17 Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di Efraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di Efraim e porla sul capo di Manasse. 18 Disse al padre: "Non così, padre mio: è questo il primogenito, posa la destra sul suo capo!". 19 Ma il padre ricusò e disse: "Lo so, figlio mio, lo so: anch' egli diventerà un popolo, anch' egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni". 20 E li benedisse in quel giorno: "Di voi si servirà Israele per benedire, dicendo: Dio ti renda come Efraim e come Manasse!". Così pose Efraim prima di Manasse.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo, ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.
Puoi dar loro tutto il tuo amore, non le tue idee.
Perché essi hanno le proprie idee.
Tu puoi dare dimora al loro corpo, non alla loro anima.
Perché la loro anima abita nella casa dall'avvenire
dove a te non è dato entrare, neppure col sogno.
Puoi cercare di somigliare a loro, ma non volere
che essi somiglino a te.
Perché la vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri.
Tu sei l'arco che lancia i figli verso il domani.
Anonimo
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L'ultima messa di padre Ragheed
L'hanno ucciso a Mosul, assieme a tre suoi suddiaconi. In un Iraq martoriato, era uomo e cristiano di fede limpida e coraggiosa. Ecco un suo ritratto, scritto da chi lo conosceva bene
di Sandro Magister
ROMA, 5 giugno 2007 – L'hanno ucciso la domenica dopo Pentecoste dopo che aveva celebrato messa nella chiesa della sua parrocchia dedicata allo Spirito Santo, a Mosul.
Hanno ucciso padre Ragheed Ganni, sacerdote cattolico caldeo, assieme ai tre suddiaconi che erano con lui, Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, Gassan Isam Bidawed. Gli assalitori hanno allontanato la moglie di quest'ultimo e hanno abbattuto i quattro a sangue freddo. Poi hanno collocato attorno ai loro corpi delle auto cariche d'esplosivo perché nessuno osasse avvicinarsi. Solo a tarda sera la polizia di Mosul è riuscita a disinnescare gli ordigni e a raccogliere i corpi.
La Chiesa caldea li ha subito pianti come martiri. Da Roma Benedetto XVI ha pregato. Padre Ragheed era uno dei testimoni di vita cristiana più limpidi e coraggiosi, in un paese dei più martoriati.
Era nato a Mosul 35 anni fa. Laureato in ingegneria all’università locale nel 1993, dal 1996 al 2003 ha studiato teologia a Roma all’Angelicum, l'Università Pontificia San Tommaso d'Aquino, conseguendo la licenza in teologia ecumenica. Oltre all'arabo, parlava correntemente italiano, francese e inglese. Era corrispondente dell'agenzia internazionale "Asia News", del Pontificio Istituto Missioni Estere.
Il giorno dopo il suo martirio "Asia News" ha pubblicato di lui questo ritratto:
"L’Eucaristia ci ridona la vita che i terroristi cercano di toglierci"
“Senza domenica, senza l’Eucaristia i cristiani in Iraq non possono vivere”: padre Ragheed raccontava così la speranza della sua comunità abituata ogni giorno a vedere in faccia la morte, quella stessa morte che ieri pomeriggio ha affrontato lui, di ritorno dalla messa.
Dopo aver nutrito i suoi fedeli con il corpo e il sangue di Cristo, ha donato anche il proprio sangue, la sua vita per l’unità dell’Iraq e per il futuro della sua Chiesa.
Con piena consapevolezza questo giovane sacerdote aveva scelto di rimanere a fianco dei suoi fedeli, nella sua parrocchia dedicata allo Spirito Santo, a Mosul, giudicata la città più pericolosa dell’Iraq, dopo Baghdad. Il motivo è semplice: senza di lui, senza il pastore, il gregge si sarebbe smarrito. Nella barbarie dei kamikaze e delle bombe almeno una cosa era certa e dava la forza di resistere: “Cristo – diceva Ragheed – con il suo amore senza fine sfida il male, ci tiene uniti, e attraverso l’Eucaristia ci ridona la vita che i terroristi cercano di toglierci”.
È morto ieri, massacrato da una violenza cieca. Ucciso di ritorno dalla chiesa, dove la gente, anche se sempre meno, sempre più disperata e impaurita, continuava però a riunirsi come poteva.
“I giovani – raccontava Ragheed alcuni giorni fa – organizzano la sorveglianza dopo i diversi attentati già subiti dalla parrocchia, i rapimenti e le minacce ininterrotte ai religiosi. I sacerdoti dicono messa tra le rovine causate dalle bombe. Le mamme, preoccupate, vedono i figli sfidare i pericoli e andare al catechismo con entusiasmo. I vecchi vengono ad affidare a Dio le famiglie in fuga dall'Iraq, il paese che loro invece non vogliono lasciare, saldamente radicati nelle case costruite con il sudore di anni. Impensabile abbandonarle”.
Ragheed era come loro, come un padre forte che vuole proteggere i suoi figli: “Quello di non disperare è un nostro dovere. Dio ascolterà le nostre suppliche per la pace in Iraq”.
Nel 2003 dopo gli studi a Roma decise di tornare nel suo paese, “perché lì è il mio posto”. Tornò anche per partecipare alla ricostruzione della sua patria, alla ricostruzione di una “società libera”. Parlava dell’Iraq pieno di speranza, con il suo sorriso accattivante: “È caduto Saddam, abbiamo eletto un governo, abbiamo votato una Costituzione!”. Organizzava corsi di teologia per i laici a Mosul; lavorava con i giovani; consolava le famiglie disagiate. In questo ultimo mese stava operando per far curare a Roma un bambino con gravi problemi alla vista.
La sua è la testimonianza di una fede vissuta con entusiasmo. Obiettivo di ripetute minacce e attentati fin dal 2004, ha visto soffrire parenti e scomparire amici, eppure ha continuato fino all’ultimo a ricordare che anche quel dolore, quella carneficina, quell’anarchia della violenza, aveva un senso: andava offerta.
Dopo un attacco alla sua parrocchia, la scorsa domenica delle Palme, 1° aprile, diceva: “Ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a Gerusalemme, sapendo che la conseguenza del Suo amore per gli uomini sarà la Croce. Così noi, mentre i proiettili trafiggevano i vetri della chiesa, abbiamo offerto la nostra sofferenza come segno d’amore a Gesù”.
Raccontava ancora poche settimane fa: “Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo ma non smetteremo di celebrare messa. Lo faremo anche sotto terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l’aiuto della Grazia divina”.
E tra le difficoltà quotidiane lui stesso si stupiva di riuscire così a comprendere in modo più profondo “il grande valore della domenica, giorno dell'incontro con Gesù Risorto, giorno dell'unità e dell'amore fra di noi, del sostegno e dell'aiuto”.
Poi le autobombe si sono moltiplicate; i rapimenti di sacerdoti a Baghdad e Mosul si sono fatti sempre più frequenti; i sunniti hanno iniziato a chiedere una tassa ai cristiani che vogliono rimanere nelle loro case, pena la loro confisca da parte dei miliziani. Continua a mancare elettricità, acqua, la comunicazione telefonica è difficile. Ragheed comincia ad essere stanco, il suo entusiasmo si indebolisce. Fino a che, nella sua ultima mail ad "AsiaNews", il 28 maggio scorso, ammette: “Stiamo per crollare”. E racconta dell’ultima bomba caduta nella chiesa del Santo Spirito, proprio dopo le celebrazioni del giorno di Pentecoste, il 27 maggio; della “guerra” scoppiata una settimana prima, con 7 autobombe e 10 ordigni in poche ore; del coprifuoco che per tre giorni “ci ha tenuti imprigionati nelle nostre case”, senza poter celebrare la festa dell’Ascensione, il 20 maggio.
Si chiedeva quale sentiero avesse imboccato il suo paese: “In un Iraq settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa?”.
Ma poi a confermare la forza della sua fede, provata ma salda: “Posso sbagliarmi, ma una cosa, una sola cosa, ho la certezza che sia vera, sempre: che lo Spirito Santo continuerà ad illuminare alcune persone perché lavorino per il bene dell’umanità, in questo mondo così pieno di male”.
Caro Ragheed, con il cuore che grida di dolore, tu ci lasci questa tua speranza e certezza. Colpendo te hanno voluto annientare la speranza di tutti i cristiani in Iraq. Invece, con il tuo martirio, tu nutri e doni nuova vita alla tua comunità, alla Chiesa irachena e a quella universale. Grazie, Ragheed!
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