Un deserto affollato in attesa dell'Aurora

domenica 7 dicembre 2008 alle 14:22

... Apparve Giovanni il battezzatore nel deserto a predicare un battesimo di conversione per il perdono dei peccati...


(Mc 1, 1-8)

Il vangelo, ossia l'annuncio gioioso, comincia con la predicazione di Giovanni il battezzatore.
Quando Dio agisce nella storia, quando Dio si accinge a intervenire nelle vicende umane, appare sulla scena un uomo.
Giovanni è il punto di contatto, la cerniera tra l'Antico e il Nuovo Testamento.

Il riferimento a Isaia (« Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri ») sottolinea lo svolgersi progressivo - continuità e rottura - del piano di Dio. Giovanni svolge la funzione di precursore, ossia di colui che precede, in quanto testimone del passato.
La strada del Signore che sta per venire è ostruita.
Occorre sbloccarla, togliendo l'impedimento costituito dal peccato del popolo. Troppi « sentieri » portano lontano, o da nessuna parte. Bisogna « raddrizzarli », in riferimento al Dio che si fa vicino all'uomo.

Il contesto in cui « proclama » Giovanni è il deserto. Topograficamente dovrebbe trattarsi del deserto di Giuda. Ma più che scoprire un luogo determinato, qui siamo chiamati a leggere un simbolo. Ossia, il deserto come luogo della vicinanza, dell'intimità con Dio. E’ nel deserto che Dio ha parlato al suo popolo. Nel deserto si sono celebrate le nozze tra Dio e il popolo eletto.
È naturale che il tempo della salvezza venga inaugurato ancora nel deserto.
Che cosa « proclama » Giovanni? Qual è il contenuto della sua predicazione? Essenzialmente un battesimo di conversione.


Occorre togliere al termine conversione l'incrostazione moralistica che vi si è sovrapposta, per restituirgli il significato originale di cambiamento di mentalità, inversione di rotta.
E’ l'esigenza di un riorientamento della propria esistenza, di cui la condotta esterna è semplicemente conseguenza ed espressione concreta.


Soprattutto occorre « convertire », mutare i pensieri, riscattarli dalla dispersione, per orientarli in direzione di Colui che, solo, può dare significato alla nostra esistenza.
Questa conversione o ravvedimento rappresenta la condizione per essere accolti e perdonati da Dio.
Evidentemente c'è dell'esagerazione nel fatto che « tutti » escano per accorrere presso Giovanni. Lo stesso Marco, successivamente, obbligherà a ridimensionare la portata dell'espressione.
Viene sottolineata la realtà che il messaggio di Giovanni riguarda tutti, e non una categoria ristretta di persone. La salvezza viene offerta a tutti, non è monopolio di una élite.
Marco, con quel « tutti » mette essenzialmente in evidenza la forza e il successo della predicazione, che attiva un movimento, suscita un interesse, provoca un « esodo » inarrestabile.
Dopo averci offerto una panoramica sull'ambiente e sull'accorrere delle folle, adesso l'evangelista stacca un primo piano della figura del battezzatore.


Giovanni viene descritto, a rapidi tratti, nel suo stile austero. L'abbigliamento è costituito da un mantello di peli di cammello e da una cintura di pelle (che, in realtà, dev'essere una specie di perizoma arrotolato ai fianchi, e quindi sta sotto e non sopra il mantello).
Il riferimento ai profeti, e specialmente ad Elia, appare piuttosto evidente.
Il cibo è costituito dalle cavallette, che i beduini poveri mangiavano abitualmente, anche abbrustolite o saltate (ancora oggi certe popolazioni arabe mangiano la locusta, dopo averle tolto la testa, le ali e la parte posteriore). Il miele può essere quello deposto dalle api nelle fenditure delle rocce, oppure quello vegetale, prodotto dall'essudazione di certe piante, per esempio le tamerici.

Giovanni si preoccupa di precisare che « il più forte » viene dopo di lui, o dietro di lui. Normalmente chi sta dietro è il discepolo, o il servo. Qui il battezzatore avverte che non bisogna lasciarsi ingannare da questo momentaneo invertirsi delle parti: lui che sta davanti è soltanto il servo, anzi non è neppure degno di mettersi in ginocchio a prestare il servizio più umile, nei confronti di Colui che segue.
Insomma, Giovanni, come profeta, crea un'attesa, invita all'attenzione sul personaggio più grande. Non concentra l'interesse sulla propria persona; rimanda a un Altro.
« Io vi ho battezzato con acqua ; Lui vi battezzerà con Spirito Santo ».
Possiamo tradurre più efficacemente: « Io vi ho immersi nell'acqua. Lui vi immergerà nello Spirito Santo».

Ma fermiamoci ancora sull'ambiente esterno.
Strano deserto, questo. Un deserto dove risuonano delle voci e delle grida, popolato di presenze, caratterizzato da un andirivieni incessante.
Giovanni non predica sulle piazze, ma nel deserto.
Per raggiungere gli ascoltatori, fugge dalla città. E si fa raggiungere dalla gente nel deserto. Lui non va verso gli altri, sono gli altri che accorrono presso di lui.
Non si cerca un pubblico, si fa cercare.
Occorre, forse, recuperare questo senso del deserto come luogo dell'incontro, come spazio della comunione. Ritrovare il coraggio della solitudine, della vicinanza con Dio, come possibilità privilegiata di avvicinare gli altri.
« Dal momento che avrai imparato a fare a meno degli uomini, gli uomini si accorgeranno che non potranno più fare a meno di te » ammoniva un monaco antico.
Nel silenzio le parole vengono ripulite dall'abitudine e ritrovano il loro splendore e la loro forza originaria.


Oserei dire che la Chiesa deve scegliere il deserto come luogo della predicazione.
Non per fuggire dal mondo, per evadere da una realtà scomoda, ma per ridare al proprio messaggio quell'intensità e quella profondità, quella risonanza, che sono i segni inconfondibili di una parola che viene da lontano e mette in moto qualcosa.
Nel deserto l'annuncio trova la strada per arrivare al cuore dell'uomo.
Soprattutto se chi lo reca - come Giovanni - evita accuratamente di concentrare l'attenzione e l'ammirazione su di sé, non vuole stupire, non è preoccupato della propria grandezza, non fa questione di prestigio o interesse o successo personali, ma rimanda a un Altro.
Precursore è colui che corre avanti. E’ un uomo che, rivestito di debolezza, si limita ad avvertire che è in arrivo « il più forte ».


La piccolezza, riconosciuta, può essere manifestazione della grandezza.
La miseria ammessa, lungi dall'essere impedimento, può tradursi in trasparenza.
E’ soltanto la presunzione, la supponenza, che si esprime in opacità.
Una Chiesa che si fa piccola, che non annuncia se stessa, si tira in disparte per far passare un Altro, diventa credibile e suscita interesse.


Il deserto è pienezza, comunicazione, vicinanza.
Il contrario del deserto non è la vita, la comunità degli uomini, ma il vuoto e la lontananza.
Coraggio, « usciamo » anche noi. Si tratta di abbandonare le comode sistemazioni, le abitudini, le strutture rassicuranti, per affrontare il deserto... Lasciare i rifugi per uscire allo scoperto. Lasciarsi alle spalle i rumori e le chiacchiere per ascoltare la Parola.


di A. Pronzato

la speranza della semina la pazienza dell'attesa

lunedì 10 novembre 2008 alle 22:01



Stasera all'uscita dall'Università, Roberto il saggio portiere, uomo amante di letture profonde e fonte di consigli "volanti" sempre ricchi di senso pratico e sapienza, mi lascia un foglio fotocopiato senza dire niente. Me lo leggo e lo ringrazio... ma lo voglio anche condividere. Augurando a tutti, non solo di imparare dalla pazienza e dalla speranza che Dio ha nei nostri confronti, ma di avere anche qualcuno che così, quasi di sfuggita e alla fine della giornata pensa di regalarti un parola bella, ricca di senso, una parola di quelle vere, che rendono la vita più vita...
«Per quanto saremo pazienti con te
mai lo saremo quanto tu lo sei con noi,
o Signore:
e allora torniamo come l'uomo dei campi
di un tempo
che seminava
e poi attendeva il giro delle stagioni,
l'avvicendarsi delle piogge e del sole:
così, attenderemo pur noi
i segni della tua venuta.
Signore, è la pazienza forse il dono
che più ci manca:
pazienza davanti ai tuoi silenzi,
pazienza enza per le tue assenze e i tuoi ritardi,
per le moltissime cose che non capiamo:
Signore, fa' che non perdiamo
anche la poca pazienza che resiste.
E anche tu non perdere la pazienza con noi..
tu sei un Dio che pena per l'uomo, come nessuno.
Tu hai detto: nella vostra pazienza
possederete le vostre vite:
sia così, Signore».

(David Maria Turoldo).

Ci sono uomini che osano dire: "Così parla il Signore.."

venerdì 31 ottobre 2008 alle 23:20
Non posso non segnalarvi questo libro...
Se volete sapere come ha parlato e come parla ancora oggi nella storia il Signore Dio nostro...


La Bibbia attesta che Dio parla: parla per suscitare la ricerca, per insegnare all'uomo le sue parole, perché l'uomo nasca alla vita di figlio. Nello specifico, i profeti sono la testimonianza che la creatura è capace non solo di domandare, ma di ricevere il Mistero che si rende conoscibile in parole umane. Ed è in Israele che la profezia si afferma, si trasmette, si fa letteratura, per il bene di tutti.Le pagine del volume sono il frutto di una lettura dei profeti protrattasi diversi decenni, «lettura paziente e amorosa, che ha tentato di capire come il Signore parla, per farne partecipi i fratelli» (dalla Presentazione).
I vari contributi proposti dall'autore, nati in momenti diversi, ma successivamente rivisitati in modo da costituire un percorso di lettura unitario, ben consentono di esplorare le principali dimensioni del profetismo biblico. Due sono gli ambiti di maggiore rilevanza oggetto dello studio. Il primo (cc. 1-4) analizza la questione della definizione stessa del fenomeno profetico. Il secondo (cc. 5-11) esamina il contenuto della parola profetica, sviluppandone alcune tematiche, fra le più rilevanti. Tra queste va sottolineato come il genere letterario assunto dai profeti sia spesso quello della lite giuridica, che non costituisce affatto un verdetto di condanna, ma piuttosto una procedura volta a creare le condizioni per la riconciliazione, per un nuovo rapporto nella verità e nella giustizia.

Pietro Bovati, della Compagnia di Gesù, è professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove insegna ermeneutica biblica, esegesi e teologia dell'Antico Testamento. Ha pubblicato: Ristabilire la giustizia, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1986, 22005; Il libro del Deuteronomio (1-11), Città Nuova, Roma 1994; in collaborazione con R. Meynet, Il libro del profeta Amos, Edizioni Dehoniane, Roma 1995.

Vista la curiosità di Daniela allungo questo post con qualche altro pezzo tratto dalla Presentazione dell'Autore:


L’essere umano sa porre delle domande. Sentendo acutamente la spinta della sua natura intelligente, desidera conoscere, perché avverte che capire il senso di tutto è mediazione di vita. Ma la via del comprendere è l’interrogarsi, e l’uomo sa farlo.

Fin dal primo manifestarsi della coscienza, fin dai primi tentativi del parlare, il bambino chiede il perché dei fenomeni e ne questiona la finalità. Nel dialogo con chi è più grande, il piccolo spinge il suo interrogare fino all’estremo, in maniera talvolta esasperante; e fa l’esperienza dunque che ci sono molte domande che rimangono sospese, constata che ci sono più interrogativi che risposte adeguate. Ma questo non spegne il suo ricercare; il suo questionamento si affina anzi di fronte al mistero, si purifica forse, e, crescendo negli anni, può trasformarsi in ricerca pura del senso ultimo della vita, può diventare ricerca di Dio.

E allora le domande assumono una tonalità diversa, più umile, più attenta: l’uomo sa infatti che non può ottenere risposta se l’oggetto, o meglio se il soggetto che è ricercato non decide lui stesso di venire benignamente incontro, parlando, a chi desidera conoscerlo. La Bibbia attesta di questo evento, narrandone la storia. Dice che Dio parla, e lo fa anzi prima ancora che l’uomo sia in grado di ascoltare e di chiedere. Dio parla infatti per suscitare la ricerca, parla per insegnare all’uomo le sue parole, parla dunque perché l’uomo entri in un dialogo di desiderio, di fiducia, di rivelazione. Dio parla perché l’uomo nasca alla vita di figlio.

I profeti sono la meravigliata testimonianza che l’uomo può cercare e ascoltare Dio, essi sono il segno storico che la creatura non è solo capace di domandare, fermandosi alle soglie del mistero, ma è in grado anche di penetrare nell’abisso della verità, senza perdersi, perché, per amorosa condiscendenza, l’Origine insondabile del tutto si fa conoscere, in parole umane, in discorsi che ognuno può accogliere.

Qualche timido barlume di questa sublime conoscenza è stato intravisto in tutte le culture, fin dai primordi della civiltà. Ma è in Israele, in un lembo minimo della terra abitata, in un piccolo popolo, praticamente ignorato dalla storiografia antica, che questa consapevolezza e questa grazia si sono pienamente manifestate. È in Israele che la profezia si afferma, si trasmette, si fa letteratura, per il bene di tutti.

Noi siamo «i figli dei profeti» (At 3,25); ciò che conosciamo di Dio, quel prodigio inimmaginabile di grazia che l’occhio non può vedere (1Cor 2,9) ci è stato rivelato in parole umane, ed è giunto a noi, generazione dopo generazione, come una magnifica eredità di cui vivere. La divina rivelazione è condensata nelle parole profetiche, pronunciate nello Spirito, per degli esseri spirituali: parole sacre e vitali, che ci dicono la verità e ci chiamano all’essere. Così parla il Signore, e parlando nello Spirito ci comunica il medesimo Spirito.

L’uomo desideroso di verità ricerca nelle più alte forme della letteratura, della filosofia e della teologia quelle aperture di luce che sono la traccia del senso, la traccia di Dio. Molte esitazioni, molti dubbi, molte delusioni si producono però nella coscienza di fronte alla variegata e disparata gamma di voci che pretendono assenso. L’incertezza può frenare il desiderio, può far abbandonare l’impegno per la verità.

A chi vive questa dolorosa esperienza di oscurità, a chi non riesce a trovare in se stesso le risorse per un deciso orientamento di vita, viene in aiuto la parola dei profeti, accolta dalla tradizione credente, riconosciuta nella comunità come vera parola di Dio. A questa parola ognuno «fa bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro» (2Pt 1,19), perché lo sguardo viene affinato dalla contemplazione rispettosa di tale testimonianza, perché il cuore diventa progressivamente capace di discernimento, così che, guidato dolcemente dalla parola di un fratello (Es 7,1; Dt 18,15.18), sappia riconoscere nella sua storia concreta la presenza di Dio. Istruiti dai profeti, i credenti vedono la luce, e la stella del mattino si leva nei loro cuori (2Pt 1,19), appare loro la beata manifestazione della vita vera, che si è consegnata nell’evento del Signore Gesù, vertice sublime della divina rivelazione, il Verbo nel quale Dio ha condensato ogni sua parola.

Eredi di un così prezioso tesoro, noi diventiamo a nostra volta capaci di profezia. Le nostre parole si trasformano nell’assimilazione graduale della Parola, il nostro cuore e la nostra vita si dilatano e si nobilitano a motivo dell’obbedienza alla voce di Colui che rinnova ogni giorno la sua creazione per mezzo dello Spirito (Sal 104,30). «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore», sospirava Mosè, testimone di un dono di profezia fatto a pochi (Nm 11,29); «tutti profetizzeranno» dal più piccolo al più grande, uomini e donne, giovani e vecchi, annunciava Gioele (Gl 3,1-2); e questa profezia si compie nella Pentecoste, quando il credente diventa luogo dello Spirito e principio di parola profetica (At 2,4.17-19).

Un tale progetto divino, corrispondente alle più segrete e quasi inconfessate aspirazioni dell’uomo, un tale disegno, proporzionato al bisogno più radicale della persona di vivere in verità, tale mistero di grazia, concesso largamente a tutti, dovrebbe risultare facile da riconoscere, come aprire gli occhi al fulgore della luce. Eppure «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5), eppure il Verbo «venne fra i suoi, ma non fu riconosciuto» (Gv 1,11); Dio manda i suoi servi, i profeti, con paziente fedeltà, con instancabile premura (Ger 7,25), ma gli uomini rifiutano di ascoltare, respingono il dono (Mt 22,5). E questo perché la voce di Dio scuote le foreste (Sal 29,5), penetra nel cuore rivelandone il male nascosto e perverso (Lc 2,35; Eb 4,12), impone scelte coraggiose, e persino il sacrificio della vita. E l’uomo ha paura di morire, l’uomo di fronte a questa luminosità teme di essere accecato, teme di dipenderne, teme di soccombere.

E allora assistiamo al paradosso di una storia che mostra il sistematico rifiuto del rivelarsi di Dio. Proprio ciò che si desidera nel più intimo della coscienza, proprio questo viene respinto, perché difficile, perché incredibile, perché sovrumano. [...] continua...

Stanchezza

sabato 18 ottobre 2008 alle 17:34

"Verrà un giorno in cui


gli uomini saranno così stanchi degli uomini,


che basterà loro parlar di Dio per vederli piangere".




Lèon Bloy

Tutto è pronto! (ma è' una festa non un funerale...)

domenica 12 ottobre 2008 alle 13:39

Il Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchet­to di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chia­mare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire... Matteo 22, 1-14

Diciamo la verità.
E una parabola impossibile.
Riesce difficile, infatti, ammettere che degli uomini possano ri­fiutare un invito a nozze. Tanto più che si tratta di un re, non di un individuo qualunque.
E poi non c'è proprio nulla da perdere. « Tutto è pronto ». L'invito è all'insegna della più assoluta gratuità. Viene richiesta unicamente la presenza. Anche a mani vuote.
E riesce ancora più arduo comprendere, dopo il rifiuto dei pri­mi destinatari, quell'invito indifferenziato: « Andate ai crocicchi delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze ».

Notiamo quel « tutti », senza distinzione.
Di fatto, « usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali ».

Che banchetto regale è mai questo, in cui vengono abolite le differenze, azzerati i ranghi, annullati i meriti, e addirittura i buoni si ritrovano a fianco con delle persone « indegne »?
Non c'è gusto. Via, un minimo di selezione, di classe. Non è bello ritrovarsi intruppati in una combriccola così scalcagnata. Il rango, le benemerenze acquisite, il buon nome, dovrebbero pur va­lere qualcosa.

Se il re premia così anche i cattivi, non vale proprio la pena comportarsi onestamente.
Infine, il terzo elemento « impossibile » della parabola: l'uomo sorpreso senza abito di nozze. Sembra strano che soltanto questo disgraziato sia stato ritenuto «indegno ». Eppure il reclutamento è stato fatto senza guardare troppo per il sottile. Naturale che gen­te presa alla sprovvista, agli angoli delle strade, non potesse pre­sentarsi abbigliata con decoro.
Già. Una parabola « impossibile ».

Perché sono non solo strani, ma addirittura «impossibili » i comportamenti degli uomini nei confronti di Dio. Impossibili ma reali, abituali.
Se Dio convocasse per una puntigliosa resa di conti, oppure per una discussione su alcuni problemi urgenti, non c'è dubbio che lasceremmo da parte ogni cosa, interromperemmo qualsiasi at­tività, ci presenteremmo puntualmente, compresi della gravità del­la cosa.
Oserei dire che se Dio ci chiamasse, come un Padrone esigente, a portare i frutti del nostro lavoro, a pagare ciò che Gli è dovuto, a regolare le nostre pendenze, faremmo la fila alla Sua porta, pa­zientemente. E i servi dovrebbero intervenire per disciplinare l'af­flusso.
Dio, invece, ci sorprende con l'invito a un banchetto nuziale. Che seccatura!
L'ideale cristiano non è una morale opprimente, ma una beati­tudine. Il credente non è uno schiavo curvo sotto il giogo di un codice, ma una persona liberata. L'esistenza cristiana non è una condanna, ma una festa.

E ciò ci sorprende, ci coglie alla sprovvista. Ci irrita.

La giustizia, la severità, la costrizione sono normali, logiche. La gratuita', quella dà scandalo.
Il dono imprevedibile, immeritato, quello non riusciamo pro­prio ad ammetterlo.
E allora non prendiamo neppure in considerazione l'invito. Non lo discutiamo.
Semplicemente, lo ignoriamo.
Ci comportiamo come se quella convocazione alla gioia non fosse mai risuonata alle nostre orecchie.

« Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari ».
La vita continua affogata nelle solite meschinità, dispersa nelle solite cose insignificanti. Importante è correre, affannarsi, anche se non sappiamo dove si va e perché. Ci teniamo tanto alle nostre schiavitù quotidiane. Meno esigenti, dopo tutto, che non la libertà.
Qualcuno adotta perfino un comportamento villano e criminale
nei confronti dei messaggeri: « Presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero »
Fossero state guardie armate, incaricate di recapitare un man­dato di comparizione, le avrebbero seguite rispettosamente.

Quelli, invece, erano disarmati e recavano un invito. Un'offesa intollerabile.
L'uomo riscopre tutta la sua carica di violenza e di aggressività dinanzi a Chi non impone nulla, offre senza chiedere nulla in cambio.
L'uomo è disposto a pagare.
La gratuità gli è intollerabile.
L'uomo, ahimé, non sa usare le mani vuote per ricevere.

Ma fermiamoci sull'inquietante individuo sorpreso senza abito nuziale.
I commenti si sprecano. E non sempre convincono.
Qualcuno parla di opere buone, di virtù.
Evidentemente ci si dimentica che là dentro sono stipati « buoni e cattivi ». Il re, ovviamente, non ha richiesto il certificato di buo­na condotta. Sarebbe assurdo lo pretendesse a pranzo iniziato.
Mi pare, invece, assai interessante l'intuizione di un commen­tatore contemporaneo, A. Maillot, il quale spiega: quell'individuo ha frainteso sul significato dell'invito. Ha creduto di dover parte­cipare a un funerale, non a un pranzo di nozze.
E il simbolo di quei cristiani che non arrivano a credere che il Regno è un banchetto nuziale. E si vestono, e adottano una faccia come per una sepoltura.
E l'immagine del « credente, ma rivestito di severità, austerità, tristezza, silenzio, mentre invece bisognerebbe indossare l'abito del­la gioia e della speranza. Un uomo che si fa l'idea che occorra por­tare la tristezza del mondo, invece di recare al mondo il sorriso di Dio».
Proviamo a domandarci: il clima delle nostre assemblee litur­giche rivela che siamo seduti intorno alla mensa per festeggiare le nozze del Figlio, oppure che compiamo una mesta, pesante, noiosa cerimonia?

Il nostro volto esprime la gioia dei risuscitati, degli invitati a celebrare la vittoria dei Cristo sulla morte, oppure tradisce la cu­pezza, la sofferenza, la sfiducia, o, peggio, la noia?
Oh, lo so. Qualcuno tirerà in ballo la fame nel mondo, la vio­lenza, la minaccia nucleare, i regimi oppressivi.

Ma questo qualcuno non comprende che la gioia non è evasione. La gioia è una forza. E una sfida. E qualcosa che afferra il cristiano quando celebra l'Eucarestia e lo costringe ad andare a re­carla in un mondo senza pace e senza gioia.
La gioia il cristiano non la tiene per sé. Né la rinchiude all'in­terno della chiesa.
In questa prospettiva, indossare l'abito di nozze significa met­tersi addosso il vestito da lavoro...

A. Pronzato

Il cardinale Martini: sento la morte come imminente

domenica 5 ottobre 2008 alle 23:43



MILANO — «Io, vedete, mi trovo a riflettere nel contesto di una morte imminente. Ormai sono già arrivato nell'ultima sala d'aspetto, o la penultima…». Il cardinale Carlo Maria Martini parla con un filo di voce ma sorride, «è stato un atto di audacia e anche di temerarietà chiamare a parlare una persona anziana che non sa se potrà esprimere bene le cose o tenersi in piedi», nell'auditorium dei gesuiti di San Fedele non vola una mosca, la gente ha gli occhi lucidi e l'arcivescovo emerito di Milano prosegue sereno, è arrivato appoggiandosi a un bastone ma lo sguardo e il pensiero non vacillano.

La sala è piena, si presenta il libro Paolo VI «uomo spirituale» (ed. Istituto Paolo VI-Studium), una raccolta di scritti martiniani su Montini curata dal teologo Marco Vergottini. E tanti sono rimasti fuori, l'attesa è grande quanto la commozione per il «ritorno» del cardinale biblista a Milano, anche se da qualche mese «padre Carlo» è tornato da Gerusalemme e risiede nella casa dei gesuiti a Gallarate. «Con i vostri tanti gesti di bontà, di amore, di ascolto, mi avete costruito come persona e quindi, arrivando alla fine della mia vita, sento che a voi devo moltissimo», sorride ancora ai fedeli, quasi fosse un congedo. Gli ottantun anni, il Parkinson. E il tema della morte, quello che nel libro Martini chiama con espressione dantesca «il duro calle». Quando l'attore Ugo Pagliai legge il «pensiero alla morte » di Paolo VI, « …mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce… », il cardinale ascolta col volto affondato nelle mani aperte. «Se dovessi non lo scriverei così. È troppo bello, è meraviglioso, lirico», spiega Martini. «Come ho osservato nel libro, ritengo che il testo di Montini sia stato scritto anni prima, quando sentiva la morte incombente ma non imminente».

Della sua morte, invece, il cardinale parla come «imminente». Ed è qui che ha accenti wittgensteiniani, il pensiero sul limite della vita diventa un'interrogazione sui limiti del linguaggio, «chi si trova in questa situazione, dovrebbe piuttosto sentirsi scarnificato nelle parole, e questo è per me un problema irrisolto: come descrivere una realtà tutta negativa con parole razionali che tuttavia, in quanto razionali, devono esprimere una esperienza positiva».
«Dire» la morte. È una riflessione che nel cardinale si è fatta via via più urgente negli ultimi anni. L'anno scorso, nella basilica dei Getsemani a Gerusalemme, aveva salutato i pellegrini ambrosiani con una lectio vertiginosa sulla Passone e l'«angoscia » di Gesù, «il greco il termine è agonia e significa lotta, conflitto, tensione profonda». Martini non ama i discorsi facilmente consolatori, come sempre trova il modo di parlare «al credente e al non credente che è in ciascuno di noi» e guarda in faccia «il duro calle». Davanti all'«affidamento totale a Dio» di Montini, scrive nel libro, «mi sento assai carente. Io, per esempio, mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito».

E invece «Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell'oscurità che fa sempre un po' paura». Ma qui sta l'essenziale: «Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle "uscite di sicurezza". Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio». È l'insegnamento di Montini, «per me fu un po' come un padre». Perché ciò che ci attende dopo la morte «è un mistero » che richiede «un affidamento totale»: «Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani».


Il "relativismo" di Francesco d'Assisi

sabato 4 ottobre 2008 alle 11:13

Dalla “Lettera ai fedeli” di San Francesco d’Assisi"
A tutti i cristiani, religiosi, chierici e laici, maschi e femmine, a tutti coloro che abitano nel mondo intero, frate Francesco, loro umile servo, ossequio rispettoso, pace vera dal cielo e sincera carità nel Signore.

Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare a tutti le fragranti parole del mio Signore. Per cui, considerando che non posso visitare i singoli a causa della malattia e debolezza del mio corpo, ho proposto con la presente lettera e con questo messaggio, di riferire a voi le parole del Signore nostro Gesù Cristo, che è il Verbo del Padre, e le parole dello Spirito Santo, che sono spirito e vita (Gv 6,63).

L’altissimo Padre annunciò che questo suo Verbo, così degno, così santo e così glorioso sarebbe venuto dal cielo, l’annunciò per mezzo del suo arcangelo Gabriele alla santa e gloriosa Vergine Maria, dalla quale ricevette la carne della nostra fragile umanità (Cfr. Lc 1,31). Egli, essendo ricco (2Cor 8,9) più di ogni altra cosa, volle tuttavia scegliere insieme alla sua madre beatissima la povertà. E prossimo alla sua passione, celebrò la Pasqua con i suoi discepoli, e prendendo il pane rese grazie, lo benedisse e lo spezzò dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. E prendendo il calice disse: Questo è il mio sangue del nuovo testamento, che per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati (Mt 26,26-28; Lc 22,19-20; 1Cor 11,24-25).
Poi, rivolto al Padre pregò dicendo: Padre, se è possibile, passi da me questo calice. E il suo sudore divenne simile a gocce di sangue che scorre per terra (Mt 26,39; Lc 22,44). Depose tuttavia la sua volontà nella volontà del Padre dicendo: Padre, sia fatta la tua volontà, non come voglio io, ma come vuol tu (Mt 26, 39).
E la volontà del Padre fu tale che il suo figlio benedetto e glorioso, dato e nato per noi, offrisse se stesso cruentemente come sacrificio e come vittima sull’altare della croce, non per sé, per il quale tutte le cose sono state create (Gv 1,3), ma per i nostri peccati, lasciando a noi l’esempio perché ne seguiamo le orme (1Pt 2,21).
E vuole che tutti siamo salvi per Lui, e che lo si riceva con cuore puro e corpo casto. Ma pochi sono coloro che lo vogliono ricevere e vogliono essere salvati da Lui, sebbene il suo giogo sia soave e il suo peso leggero (Mt 11,30)."

Preghiera dell'Equinozio d'Autunno

giovedì 2 ottobre 2008 alle 18:24


Signore, non sono necessarie
le penne degli angeli
e i languidi cori celesti:
ci bastano le penne del passero
e il canto stridulo del merlo
tra le foglie del platano.


Strade d'autunno fasciate di nebbia
e case che s'accendono
e fanno lume nella notte.
Signore, non c'è bisogno
di grandi stelle comete:
bastano queste luci
e queste case,
se vieni a cenare con noi
(e, se vieni,ti prego,
non entrare a porte chiuse:
è così dolce
la chiave che canta nella toppa,
quando si attende l'amato!).


Io non attendo altre strade,
io non ti chiedo altre case
o altre sere
o altri mondi;
ma questo,
questo dolcissimo mondo
abitato da te.


E ceneremo insieme,
nelle sere d'inverno;
e correremo insieme, a primavera,
e sosteremo insieme, nell'estate,
sotto l'ombra dei frassini;
e l'usignolo canterà l'amore.
E noi saremo un nodo inestricabile
come l'edera e il tronco,come la vite e l'uva".

La passione delle pazienze

giovedì 18 settembre 2008 alle 22:43


La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.

Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.

Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l'ora.

Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati.
Come un filo di lana tagliato dalle forbici, così dobbiamo essere separati.
Come un giovane animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze.

Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi,
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.

E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando -per dare la nostra vita- un'occasione che ne valga la pena.
Perchè abbiamo dimenticato che come ci sono i rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perchè abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.


Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.

E' la passione delle pazienze.

Madeleine Delbrel

Un viaggio in Turchia sulle orme dell'apostolo Paolo

domenica 7 settembre 2008 alle 16:37
Un saluto a tutti! Amici e passanti, compagni di viaggio o semplici cuoriosi!

Sono appena tornato da un bel viaggio comunitario in Turchia sulle orme dell'apostolo Paolo!



Un'esperienza davvero bella! Proverò a raccontarvi qualcosa, se non altro con le immagini... e in ordine sparso... visto che tempo ne ho sempre di meno...




Qui nella foto sono all'imboccatura del tunnel di Tito, presso l'antico porto di Antiochia sull'Oronte (che è a 12 chilometri dal mare), ossia Seleucia Pieria. E' un opera mastodontica, capolavoro dei genieri romani e frutto però del sangue e del sudore di innumerevoli schiavi ebrei provenienti dalla Gerusalemme assediata e distrutta da Tito nel 70 d.C.

Tito lo volle costruire per deviare e incanalare un braccio del fiume di Antiochia (l'Oronte appunto) che rischiava di insabbiare il porto. E' lungo più di un chilomentro, scavato nella viva roccia. E' impressionante avventurarsi dentro... e sentire la fatica, lo sgomento e la sofferenza di tutti gli schiavi ebrei che hanno lavorato nelle viscere della terra... e chissà quanti sono morti!


Tutto questo richiama Gerusalemme, la sua fine annunciata da Gesù... il rifiuto di accogliere il Figlio di Dio, l'accecamento... richiama il punto in cui tutto è cominciato. Adesso il fiume non vi scorre più dentro a causa di alcuni terremoti che hanno dissestato la morfologia della zona.


Ma perchè vi parlo di questo tunnel e soprattutto del porto di Antiochia? Perchè da qui Paolo è partito per il suo primo viaggio missionario, diretto a Cipro e poi in Asia (Turchia).





Nonostante l'insabbiamento del porto e 2000 anni di storia abbiamo trovato un punto in cui si vedono benissimo le rovine di un antico molo che si prolungano e si anabissano nel mare. E poi l'orizzonte, il mare, l'ignoto che ti sta davanti... e le parole del Signore che risuonavano nel cuore di Paolo nell'imminenza dell'imbarco: "va'.. perchè ti manderò lontano, tra i pagani" (cf. At 22,21)




E' stupendo contemplare questo orizzonte... e il cuore si riempi di gratitudine per Paolo e tutti gli apostoli del Signore che hanno avuto il coraggio di giocarsi la vita e varcare spazi immensi...per portarci la Parola... affinché anche noi (paganacci..) potessimo contemplare il bel volto del Signore Gesù..

E già... perchè al di là di questo orizzonte che vede nella foto.. ci siamo proprio noi! Ciascuno di noi!



E' tempo anche per noi di alzarci dalle nostre abitudini e di rimetterci in cammino, con Cristo Signore, poveri di sicurezze, consegnati totalmente a Lui per sperimentare la sublimità del suo amore, che non delude nessuno.



P.S. Un saluto particolare a Daniela, cui ho potuto rispondere solo oggi...

Inno alla vita (e... saluti)

venerdì 25 luglio 2008 alle 23:25

... mi prendo un po' di vacanza "meditativa" e in attesa di risentirci vi lascio queste bellissime parole di Madre Teresa di Calcutta, un inno alla vita... che è un programma di vita!

A presto! (verso metà Agosto o i primi di settembre...)



INNO ALLA VITA

La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne una realtà.
La vita è una sfida, affrontale.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, conservala.
La vita è una ricchezza, conservala.
La vita è amore, godine.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La vita è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, vivila.
La vita è una gioia, gustala.
La vita è una croce, abbracciala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è pace, costruiscila.
La vita è felicità, meritala.

La vita è vita, difendila.

Alla scuola dei poveri

venerdì 18 luglio 2008 alle 18:18


Oggi mi piace condividere con voi queste righe che mi sono appena arrivate dal carissimo p. Lorenzo, missionario in Madagascar. Buona riflessione!
.
"Come altre volte, approfitto di una tournée di visita alle scuole delle missioni del nord per mettere giù qualche riga per la nostra rubrica. È da tempo che non lo faccio.

Il tema di questa piccola condivisione vuole essere quello di sempre: la povertà. Può sembrare ripetitivo, ma è una riflessione che non riesco mai a chiudere, un capitolo a cui non riesco mai a mettere il punto finale. Ogni giorno si arricchisce di nuove pagine. Ed in ogni periodo c’è qualche pensiero in particolare che ti assilla. Qualche nuovo spunto nato da una piccola situazione, da un semplice incontro, da una scena di vita che ti passa sotto gli occhi.

Tra le grazie più grandi della missione c’è questo continuo stimolo a riflettere e meditare, non a partire da idee, ma normalmente da una situazione umana, per lo più triste.
Questo invito alla riflessione, che il più delle volte è la conseguenza di un’impotenza pratica ad agire, ha una densità umana incredibile. Leviga pian piano il cuore, dall’esigenza di capire allo sforzo di accettare, dalla reazione alla compassione.

La compassione, può sembrare l’ultima spiaggia dell’impotenza o il nascondiglio della codarderia. La pensavo così anch’io prima. Ma poi si manifesta come la più rivoluzionaria delle risposte. Perché è vero che la compassione non cambia il dolore, non dà da mangiare, non guarisce il malato, ma la compassione cambia te, e per sempre.

È questa la più umana e feconda risposta al dolore. Questo l’ho appreso dall’incontro con i poveri, ma poi mi sono accorto che era già là, nel vangelo: di fronte alla massa di poveri affamati che lo segue la prima reazione di Gesù è la compassione: “vedendo la folla ne ebbe compassione”(Mt 14,14)! E più volte i vangeli ci tengono a sottolineare questo stato d’animo di Gesù. La compassione non dà da mangiare, è vero, ma rende autentico tutto ciò che verrà dopo. Lo carica del peso specifico della carità cristiana. Senza questa compassione qualsiasi moltiplicazione di pani resta gioco di prestigio o pura ideologia.

A ben guardare è tutto già là, nel vangelo. Ma paradossalmente sono i poveri a ricordartelo, insegnandoti come essere realmente vicino a loro.
E questo è tanto più vero per quello che facciamo noi missionari. Senza questa base di compassione, che è vicinanza reale da uomo ad uomo, da cuore a cuore, costruire la scuola o il dispensario può essere semplice coreografia o addirittura ostentazione.


Non è semplice all’inizio, perché si sbarca qui con tutta la buona volontà di “fare” e molto. Presi da questa ansia di realizzare ci si dimentica di “sentire”. Solo col tempo e nell’incontro quotidiano capisci poi che senza questo “con-patire” tutto, anche i progetti e gli sforzi più coraggiosi, rischia di essere terribilmente vuoto e senza cuore.


Questo “con-patire” è un apprendimento quotidiano con cui ogni uomo deve confrontarsi, in qualsiasi parte del mondo. Ma ci sono delle situazioni, come la povertà generalizzata dei paesi africani, che non ti invitano soltanto, ma ti costringono. Davanti al dolore innocente “quotidiano” non si hanno che due scelte: o si smette di credere in Dio o si passa ad una nuova visione di Lui, quella del Dio che com-patisce, che soffre-insieme, e che pone come risposta al male ed al dolore la vita del suo Figlio ed anche la nostra compassione. Non è semplice accettarlo. Come la nostra compassione può essere la risposta di Dio al dolore. Non so assolutamente spiegarlo, ma sento che è così".

p. Lorenzo Gasparro CSSR

Eluana: "è anche parte della nostra famiglia"

martedì 15 luglio 2008 alle 21:25


«È parte anche della nostra famiglia» Suor Albina Corti, responsabile della clinica “Monsignor Luigi Talamoni”, racconta i 14 anni di assistenza prestata quotidianamente a Eluana Englaro: «Non è abbandonata»


10/07/2008di Paolo RAPPELLINO


La accudiscono «quasi come una figlia». Da 14 anni le Suore Misericordine vegliano Eluana Englaro nella Casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” di Lecco.


«In tutto questo tempo non le abbiamo mai prestato nessuna particolare cura medica - spiega la responsabile della clinica suor Albina Corti -. Per noi è una persona e viene trattata come tale. È alimentata con il sondino naso-gastrico durante la notte ed è in buone condizioni di salute. Fisiologicamente ha tutte le funzioni sane. È una ragazza bellissima».La casa di Eluana da allora è una stanza singola nel reparto di riabilitazione da 14 posti letto della clinica, vicino alla basilica di San Nicolò a Lecco. Un ospedale privato, convenzionato con il sistema sanitario. Alle pareti le foto della vita prima dell’incidente di quel maledetto 18 gennaio 1992.


A farle da angelo custode suor Rosangela: «Lei - racconta quasi con pudore la consorella - oramai intuisce subito se ha mal di pancia o mal d’orecchio». Tutte le mattine la paziente viene alzata dal letto, lavata, messa in poltrona.


Quotidianamente la portano in palestra, dove c’è un fisioterapista che le pratica la riabilitazione passiva; in stanza c’è spesso la radio accesa con la musica.«Qualche volta muove gli occhi, soprattutto se le parla suor Rosangela - confida suor Albina -, non si riesce a capire se comprende, ma io penso di sì, anche se clinicamente dicono di no. Però non è in grado di compiere nessun movimento.


In tutti questi anni non ha mai dato nessun segno».«È arrivata da noi nel 1994 - ricorda la religiosa misericordina -. Erano stati i genitori a cercarci, perché era nata qui e il padre diceva: “Desidero che chiuda gli occhi dove è venuta alla luce”. Quando ci fu chiesto di ricoverarla, nutrivamo delle riserve. Sapendo che la ragazza era in coma, pensavamo di non essere attrezzate sufficientemente per poterla accudire. Ma quando la nostra suora infermiera e un nostro medico sono andati a visitarla nel precedente ricovero, hanno capito subito che non necessitava di null’altro rispetto all’alimentazione con il sondino».


Eluana, seppure in stato vegetativo, non è stata mai lasciata sola, è inserita in una rete di relazioni: le fanno visita i famigliari, vengono anche alcuni conoscenti. «C’è una rete di relazioni intorno a lei, non è abbandonata. Spesso ad accompagnarla in giardino sulla carrozzina sono i genitori. Regolarmente vengono due amiche della ragazza», racconta suor Albina.


Ora le religiose della clinica “Talamoni” rimangono in attesa: «Per ora non ci hanno ancora comunicato nulla. Ovviamente noi non lasciamo entrare nessuno. Non sospenderemo mai l’alimentazione. Nel caso, venga il padre a prenderla: fino ad allora la ragazza starà qui. Anche se vorremmo dire al signor Englaro che se davvero la considera morta di lasciarla qui da noi. Eluana è parte anche della nostra famiglia».


Autenticità

sabato 12 luglio 2008 alle 10:49



Dobbiamo uscire dal gioco del perfezionismo, che ha fatto tanti danni a tutti, sia a noi religiosi/e, sia ai più lontani dalla Chiesa. Noi non siamo dèi. Esiste solo una perfezione: imparare a vivere insieme, cioè a vivere nell'autenticità. Il problema etico non è esse­re perfetti, ma essere autentici.

La rabbia che hanno le persone giovani davanti a certe istituzioni o a certe esigenze delle istituzioni (Chiesa, famiglia...) si deve al fatto che non ne perce­piscono l'autenticità. Questo è il problema etico più grande in questo momento, in questa società che ha bisogno di riconoscersi adulta e capace di iniziative.

Non siamo cattivi, ma la post-modernità vorrebbe essere maestra di se stessa. Senza avere paura, dob­biamo riconoscere le domande etiche di autenticità, cioè di trasparenza. Quando siamo persone traspa­renti si vedono anche i difetti. La cosa più difficile è vivere con persone e con istituzioni che pensano di non avere difetti: è impossibile e noiosissimo. Vivere la fede è camminare in un processo di nudità profon­da, per arrivare all'essenzialità.

La Scrittura, le Sapienze che vengono da altri mon­di ci accompagnano all'essenzialità: per vivere la fede non c'è bisogno di niente, come dicevano i primi padri e le prime madri del deserto. Pensate di quante cose abbiamo bisogno per giustificare la nostra fede. Invece quel messaggio dice che non c'è bisogno di molte cose, ma solo di stare dentro e di toccare inten­samente la vita.

I testi che abbiamo letto con un certo sospetto o mettendone in luce la prospettiva dualista, vi invito a ripensarli cercando in essi il gioco armonico della vita. Ci sono momenti in cui la vita dà più frutti, più opere e ci sono altri momenti in cui non si vede nien­te. Possiamo imparare a vivere in questa precarietà, nella fedeltà ai nostri limiti, ma anche alla nostra gio­ia.

Abbiamo il diritto di sentire la vita. E' un diritto che ha tutto il mondo, che hanno tutte le culture. Pos­siamo essere i protagonisti/e di questo Mistero e so­spettare di quelli che ci fanno credere che è impossi­bile. Non è solo il mercato o il processo di globalizza­zione che ci trascina tutti al consumismo. Ci sono anche altri soggetti che ambiguamente ci fanno cre­dere che avere fede significa obbedire e così ci tolgo­no il gusto del Mistero e dello stupore.



Antonietta Potente,
teologa domenicana

La strada come cura della stanchezza

domenica 6 luglio 2008 alle 11:06


« Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti e' dolce e il mio carico leggero » Matteo 11, 25-30



Siamo tutti malati.

Una malattia piuttosto strana, almeno nelle sue cause, anche se molto diffusa: la stanchezza.

C'è il peso della strada già percorsa che si fa sentire.

Il peso degli incidenti di viaggio.

Il peso delle delusioni, delle incomprensioni.

Il peso degli insuccessi.

Il peso delle persone.

Il peso di un ambiente meschino.

Il peso dell'ingiustizia.

Il peso della falsità.

Il peso della sfiducia.

Tutto ciò - e altro ancora - si accumula, si aggruma e, più che schiacciarti, ti intorpidisce, ti appanna la vista, ti svuota della tua sostanza, ti asciuga le energie.

La strada, allora, perde ogni interesse. L'unico interesse che può presentare è ormai quello di rintracciare un posticino dove adagia­re la propria stanchezza.

Si è come spenti.

Non si ha più voglia di nulla, salvo la voglia di « lasciarsi andare »

Basta così.

Non vale la pena.

Non è il caso di insistere. Per quello che si ricava...

C'è ancora un senso in tutto ciò?

Che cosa si ottiene a disturbare la quiete pubblica?

Che cosa si guadagna ad essere sinceri?

Paga ancora l'onestà, il senso del dovere?

Non è il caso di insistere.

Non vale la pena di lottare per queste cose.

Meglio mettersi tranquilli.

Ne ho abbastanza.

Un'esperienza del genere è stata vissuta, molti secoli fa, dai profeta Elia. Il racconto che troviamo nell'Antico Testamento ha valore di simbolo anche per noi.

« ... Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire disse:

- Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri.

Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco, un an­gelo lo toccò e gli disse:

- Alzati e mangia!

Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse:

- Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, cam­minò per quaranta giorni e quaranta notti... » (1 Re 19, 4-8).

« Ora basta, Signore...

Poco oltre dirà: « Sono rimasto solo ».

Si è scavato il vuoto attorno a me.

E si sta scavando il vuoto dentro di me.

Ciascuno di noi ha a disposizione un ginepro sotto cui disten­dere la propria sfinitezza e addormentarsi.

Il ginepro della rassegnazione, delle abdicazioni, della medio­crità, della facilità, dell'indifferenza...

Qual è la risposta che il Signore dà alla stanchezza di Ella?

Non è una risposta consolatoria, nonostante le apparenze.

C'è, sì, un intervento che rivela la paterna preoccupazione di Dio per il suo profeta, il quale si ritrova a portata di mano una focaccia e una brocca d'acqua.

Ma c'è anche una proposta che suona provocatoria: devi per­correre tanta strada (anzi « troppa »).

E, soprattutto, il profeta che casca dal sonno, non può dormire in pace.

«~Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino ».

Dio ci libera dalla malattia della stanchezza adottando una cura decisamente insolita.

Prima di tutto, ci rivela le cause della nostra stanchezza. Ed è una scoperta per lo meno singolare.

Ci dice. Non sei stanco per ciò che hai fatto, ma per il troppo che non hai fatto.

Non sei stanco per la strada percorsa, ma per la troppa strada che ti resta da percorrere.

La tua è una stanchezza da non-affaticamento, stanchezza da ec­cessivo riposo, da sedentarietà assoluta.

Sei sfinito a forza di non muoverti. Spossato a furia di rimanere fermo.

La tua stanchezza è provocata non dal peso del lavoro, ma da quello del non-lavoro.

La stanchezza non ce l'hai dietro, ma... davanti.

Non è dovuta al passato, ma all'avvenire che rifiuti.

Sei stanco di ciò che non hai fatto, che non intendi fare.

Sei stanco di ciò che non intendi essere.

Sei stanco perché non hai il coraggio dei tuoi sogni.

Sei stanco perché non cammini.

E poi, sì, dopo questa sbalorditiva, scandalosa diagnosi del male, Cristo ci offre anche un ristoro:

« Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò».

Finalmente!

« ... Prendete il mio giogo sopra di voi... »Bel modo di curare la stanchezza...

Invece di alleggerirci il carico, invece di offrirci le sue carezze, il Signore ci regala il suo giogo. E anche se è « dolce », pur sem­pre di giogo si tratta.

Non ce la facciamo più. E Lui ci appioppa un carico supple­mentare, sia pure « leggero ».

E il pane?

Il pane che ti fortifica, dovresti averlo capito, è la strada.

« Io sono il pane vivo, disceso dal cielo » (Gv 6, 51), assicura Gesù.

Lui, dunque, è il pane.

Ma Lui, non dimentichiamolo, è anche la strada. « Io sono la via » (Gv 14, 6).

Dunque, mangiando Lui, noi ci nutriamo della nostra strada.

La strada diventa il nostro alimento. La strada diventa il rime­dio della nostra stanchezza.

« Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino ».

(Questo Dio che non ti lascia dormire, che non ti permette di cullare in pace la tua stanchezza...).

Cammina, dunque. Più sarà lunga e impegnativa la strada che intendi percorrere, e più avrai tempo a disposizione per lasciarti dietro la stanchezza...


di Alessandro Pronzato

 













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