Domenica della Divina Misericordia

domenica 30 marzo 2008 alle 11:46

22 FEBBRAIO 1931.


La sera, stando nella mia cella, vidi il Signore Gesù vestito di una veste bianca: una mano alzata per benedire, mentre l'altra toccava sul petto la veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso l'uno e l'altro pallido. Muta tenevo gli occhi fissi sul Signore; l'anima mia era presa da timore, ma anche da gioia grande.

Dopo un istante, Gesù mi disse: «Dipingi un'immagine secondo il modello che vedi, con sotto scritto: Gesù confido in Te! Desidero che questa immagine venga venerata prima nella vostra cappella, e poi nel mondo intero. Prometto che l'anima, che venererà quest'immagine, non perirà. Prometto pure già su questa terra, ma in particolare nell'ora della morte, la vittoria sui nemici. Io stesso la difenderò come Mia propria gloria».

Quando ne parlai al confessore, ricevetti questa risposta: « Questo riguarda la tua anima». Mi disse così: Dipingi l'immagine divina nella tua anima”. Quando lasciai il confessionale, udii di nuovo queste parole:

«La Mia immagine c'è già nella tua anima. Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l'immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia. Desidero che i sacerdoti annuncino la Mia grande Misericordia per le anime dei peccatori. Il peccatore non deve aver paura di avvicinarsi a Me».

«Le fiamme della Misericordia Mi divorano; voglio riversarle sulle anime degli uomini». Poi Gesù si lamentò con me dicendomi: «La sfiducia delle anime Mi strazia le viscere. Ancora di più Mi addolora la sfiducia delle anime elette. Nonostante il Mio amore inesauribile non hanno fiducia in Me. Nemmeno la Mia morte è stata sufficiente per loro. Guai alle anime che ne abusano!».


Questo è il giorno che ha fatto il Signore!

domenica 23 marzo 2008 alle 15:09

Questo è « il giorno » per eccellenza.

Il giorno che ha fatto il Signore.

Gli altri giorni li abbiamo fatti noi. Sono opera nostra. I giorni del tradimento, dell'abbandono, della fuga, del rinne­gamento, dell'odio, della vigliaccheria, del peccato, li abbiamo in­ventati noi. Fanno parte del nostro « vecchio » calendario.

Oggi, invece, è il giorno creato dal Signore.

E il primo mattino del mondo.

E un giorno « nuovo ».

E il giorno che inaugura un mondo nuovo.

E il primo giorno della nuova creazione.

Noi abbiamo inventato le tenebre. Lui ci offre la luce.

Noi abbiamo accumulato sozzure. Lui ci inonda di acqua pu­rificatrice.

Noi abbiamo cercato la morte, lavoriamo per la morte. Lui ci regala la vita.

Noi ci siamo specializzati nel combinare guai, nel rovinare ogni cosa. Lui ha provveduto a « rifare », a proprie spese, tutto da capo.

Noi abbiamo fabbricato l'odio. Lui ha risposto con l'ostinazio­ne dell'amore e del perdono.

Noi abbiamo scelto il peccato. Lui ha reagito con la miseri­zordia.

Noi l'abbiamo condannato. Lui ci ha « graziati ».

Questo è il giorno del « passaggio ».

Passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo.

Traslochiamo dal mondo vecchio a un mondo nuovo.

« Cristo, nostra Pasqua... » (1 Cor 5, 7).

Pasqua viene tradotta abitualmente con « passaggio ».

Ora, Cristo è il nostro « passaggio ».

In Lui passiamo da uno stato di separazione a un rapporto di comunione. Da una situazione di morte alla vita.

La pietra tombale è quella che ci murava nel nostro mondo vecchio, fatiscente, inabitabile. Lo stesso mondo decrepito, soffo­cante, in cui siamo rimasti imprigionati.

Cristo ha scaraventato lontano quel masso.

E noi siamo usciti con Lui fuori dalla prigione.

Lui ci ha fatti passare nel mondo nuovo della libertà. Ci ha fatto sgomberare dal « paese della schiavitù », per intro­durci nella Terra Promessa.

Ci ha strappato alla nostra miserabile contabilità per spinto­narci nel mondo della gratuità.

Attraverso questo « passaggio » siamo usciti dalla cella oscura, e a stento gli occhi riescono a sopportare la luce che ci viene in­contro quando ci affacciamo fuori.

Cristo, oggi, ci offre il « suo » giorno.

Ci consegna un mondo nuovo.

E l'unica raccomandazione è quella di non tornare indietro. Neppure per recuperare le nostre povere carabattole.

Dobbiamo tagliare i ponti col vecchio, con l'odio, con le di­visioni.

(A. Pronzato)

Il Sabato santo di Maria

sabato 22 marzo 2008 alle 09:59

del card. Carlo Maria Martini

Nel Venerdì santo, dopo la morte di Gesù, il discepolo Giovanni "prese Maria con sé" (Gv 19,27), nel suo cuore e nella sua casa. Non è facile immaginare ciò che questo vuol dire: si tratta di una casa in Gerusalemme? O di un semplice luogo di appoggio per i pellegrini della Galilea a Gerusalemme in occasione della Pasqua?

Cerco di introdurmi in questa casa dove la Madre di Gesù vive il suo "Sabato santo" e di iniziare, col permesso di Giovanni, un dialogo con lei. Un dialogo fatto anzitutto di contemplazione del suo modo di vivere questo momento drammatico.

Contemplo Maria: è rimasta in silenzio ai piedi della croce nell’immenso dolore della morte del Figlio e resta nel silenzio dell’attesa senza perdere la fede nel Dio della vita, mentre il corpo del Crocifisso giace nel sepolcro. In questo tempo che sta tra l’oscurità più fitta – "si fece buio su tutta la terra" (Mc 15,33) – e l’aurora del giorno di Pasqua – "di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato… al levar del sole" (Mc 16,2) – Maria rivive le grandi coordinate della sua vita, coordinate che risplendono sin dalla scena dell’Annunciazione e caratterizzano il suo pellegrinaggio nella fede. Proprio così ella parla al nostro cuore, a noi, pellegrini nel "Sabato santo" della storia.

1. Tu nel sabato del silenzio di Dio sei e rimani la "Virgo fidelis" e ci ottieni la "consolazione della mente".

Che cosa ci dici, o Madre del Signore, dall’abisso della tua sofferenza? Che cosa suggerisci ai discepoli smarriti?

Mi pare che tu ci sussurri una parola, simile a quella detta un giorno dal tuo Figlio: "Se avrete fede pari a un granellino di senapa…!" (Mt 17,20).

Che cosa vuoi comunicarci? Tu vorresti che noi, partecipi del tuo dolore, partecipassimo anche della tua consolazione. Tu sai, infatti, che Dio "ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio" (2 Cor 1,4).

E’ la consolazione che viene dalla fede. Tu, o Maria, nel Sabato santo sei e rimani la "Virgo fidelis", la Vergine credente, tu porti a compimento la spiritualità di Israele, nutrita di ascolto e di fiducia.

Ma come opera la consolazione che viene dalla fede? Essa assume forme diverse e una di queste – di cui c’è tanto bisogno oggi – può essere chiamata la "consolazione della mente". Di che cosa si tratta?

E’ un dono divino molto semplice, che permette di intuire come in un unico sguardo la ricchezza, la coerenza, l’armonia, la coesione, la bellezza dei contenuti della fede. Un teologo contemporaneo, Hans Urs von Balthasar, la chiamava "percezione della forma" ("Schau der Gesalt"), intuizione del legame che unisce tra loro tutte le verità di salvezza e ne svela la proporzione e il fascino. Di fronte all’evidenza della sofferenza e della morte, che tende a schiacciare il cuore, tale intuizione si pone come una grazia dello Spirito santo che fa risplendere talmente la "gloria di Dio" da illuminare con la luce della verità anche gli angoli più tenebrosi della storia. E’ la grazia di percepire la gloria di Dio che si manifesta nell’insieme dei gesti con cui il Padre si dona al mondo nella storia di salvezza e, in particolare, nella vita, morte e risurrezione di Gesù. E’ il dono di presagire dietro e sotto gli eventi della fede le vestigia del mistero della Trinità.

Si ha la "consolazione della mente" (o "consolazione intellettuale") quando i gesti e le parole riportate nelle Scritture si collegano con altri gesti e parole della rivelazione: chi riceve tale grazia sente che ogni pietruzza del mosaico illumina quelle vicine e si compone con le più lontane in un disegno convincente e sfolgorante. Allora non si rimane più bloccati nella preghiera di fronte all’uno o all’altro dei momenti singoli della storia di salvezza, incapaci di vedere la relazione e il concatenamento di un singolo fatto o parola con tutti gli altri; la mente avverte di essere inondata di luce, il cuore si dilata, la preghiera zampilla come da una fresca sorgente.

E’ la grazia di visione sintetica e mistica del piano di Dio che a te, o Maria, è stata comunicata dalle parole dell’angelo Gabriele quando riassumeva in tua presenza il destino del figlio di Davide ("Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo… il suo regno non avrà fine", Lc 1,32-33). E’ la grazia di contemplazione unitaria delle costanti dell’agire divino che tu hai cantato nel Magnificat (Lc 1,40-55). E’ l’esercizio del ricordo meditativo dei fatti salvifici che tu, o Maria, hai praticato fin dall’inizio: "Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (Lc 2,19); "Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore" (Lc 2,51).

Ciascuno di noi, quando riceve questa grazia, anche soltanto qualche accenno di essa, vive qualcosa di simile a ciò che vissero i tre discepoli sul monte della Trasfigurazione. Contemplando Gesù con Mosé ed Elia e sentendoli parlare dell’ "esodo" di Gesù a Gerusalemme (cf Lc 9,21) essi intuiscono i profondi legami che intercorrono tra i mille episodi narrati nelle Scritture e colgono la forza di unità che li mette insieme e li porta a compimento nella Passione e Risurrezione del Signore. E’ un’apertura degli occhi e del cuore, che dà un senso profondo di appagamento e di pace. Allora anche le ombre e le tragedie di questo mondo si rivelano come attraversate dalla luce di amore, di compassione e di perdono che viene dal cuore del Padre. Si percepisce qualcosa della verità delle beatitudini, il cuore si apre alla speranza di giustizia, alla visione della vittoria dei poveri e degli oppressi di questa terra.

Un santo che ha goduto di questa grazia in maniera straordinaria così la descrive: "Il rimanere con l’intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un altro uomo, o che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima. Tanto che se fa conto di tutte le cose apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra di aver imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni compiuti, come in quella volta sola" (S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, n. 30).

Noi non sappiamo, o Maria, da quale tipo di consolazione profonda sei stata sostenuta nel tuo Sabato santo. Siamo certi però che Colui che ti ha gratificata di tali doni in momenti decisivi della tua esistenza ti ha sostenuto anche in quel giorno, in continuità con tutte le grazie precedenti. La forza dello Spirito, presente in te fin dall’inizio, ti ha sorretto nel momento del buio e dell’apparente sconfitta del tuo Gesù. Tu hai ricevuto il dono di poterti fidare fino in fondo del disegno di Dio e ne hai riconosciuto nel tuo intimo la potenza e la gloria. Tu ci insegni così a credere anche nelle notti della fede, a celebrare la gloria dell’Altissimo nell’esperienza dell’abbandono, a proclamare il primato di Dio e ad amarlo nei suoi silenzi e nelle apparenti sconfitte. Intercedi per noi, o madre, perché non ci manchi mai quella consolazione della mente che sostiene la nostra fede e fa sì che da un granello di senapa spunti un albero capace di offrire rifugio agli uccelli del cielo (cf Mt 13,31-32).

2. Tu nel sabato della delusione sei la Madre della speranza e ci ottieni la "consolazione del cuore.

Che cosa ci dici ancora, o Maria, dal silenzio che ti avvolge? Ti sento ripetere, come un sospiro, la parola del tuo Figlio: "Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime" (Lc 21,19).

La parola "perseveranza" può essere tradotta anche con "pazienza". La pazienza e la perseveranza sono le virtù di chi attende, di chi ancora non vede eppure continua a sperare: le virtù che ci sostengono di fronte agli "schernitori beffardi, i quali gridano: ‘Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione’" (2Pt 3,3-4).

Tu, o Maria, hai imparato ad attendere e a sperare. Hai atteso con fiducia la nascita del tuo Figlio proclamata dall’angelo, hai perseverato nel credere alla parola di Gabriele anche nei tempi lunghi in cui non capitava niente, hai sperato contro ogni speranza sotto alla croce e fino al sepolcro, hai vissuto il Sabato santo infondendo speranza ai discepoli smarriti e delusi. Tu ottieni per loro e per noi la consolazione della speranza, quella che si potrebbe chiamare "consolazione del cuore".

Se la "consolazione della mente" comporta una illuminazione dell’intelletto e una "apertura degli occhi" (cf Lc 24,31), la "consolazione del cuore" (cf Lc 24,32) – o "consolazione affettiva" – consiste in una grazia che tocca la sensibilità e gli affetti profondi inclinandoli ad aderire alla promessa di Dio, vincendo l’impazienza e la delusione. Quando il Signore sembra in ritardo nell’adempimento delle sue promesse, questa grazia ci permette di resistere nella speranza e di non venir meno nell’attesa. E’ la "speranza viva" di cui parla Pietro (cf 1Pt 1,3), è la "speranza contro ogni speranza" di cui parla Paolo a proposito di Abramo (cf Rom 4,18), il quale "per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento" (Rom 4,20-21).

Tu, o Madre della speranza, hai pazientato con pace nel Sabato santo e ci insegni a guardare con pazienza e perseveranza a ciò che viviamo in questo sabato della storia, quando molti, anche cristiani, sono tentati di non sperare più nella vita eterna e neppure nel ritorno del Signore. L’impazienza e la fretta caratteristiche della nostra cultura tecnologica ci fanno sentire pesante ogni ritardo nella manifestazione svelata del disegno divino e della vittoria del Risorto. La nostra poca fede nel leggere i segni della presenza di Dio nella storia si traduce in impazienza e fuga, proprio come accadde ai due di Emmaus che, pur messi di fronte ad alcuni segnali del Risorto, non ebbero la forza di aspettare lo sviluppo degli eventi e se ne andarono da Gerusalemme (cf Lc 24,13ss.).

Noi ti preghiamo, o madre della speranza e della pazienza: chiedi al tuo Figlio che abbia misericordia di noi e ci venga a cercare sulla strada delle nostre fughe e impazienze, come ha fatto con i discepoli di Emmaus. Chiedi che ancora una volta la sua parola riscaldi il nostro cuore (cf Lc 24, 32).

Intercedi per noi affinché viviamo nel tempo con la speranza dell’eternità, con la certezza che il disegno di Dio sul mondo si compirà a suo tempo e noi potremo contemplare con gioia la gloria del Risorto, gloria che già è presente, pur se in maniera velata, nel mistero della storia.

3. Tu, nel sabato dell’assenza e della solitudine, sei e rimani la madre dell’amore e ci ottieni la "consolazione della vita".

A questo punto, o Maria, azzardo un’ultima domanda: ma che senso ha tanto tuo soffrire? Come puoi rimanere salda mentre gli amici del tuo Figlio fuggono, si disperdono, si nascondono? Come fai a dare significato alla tragedia che stai vivendo? Mi pare che tu risponda di nuovo con le parole del tuo Figlio: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).

Il senso del tuo soffrire, o Maria, è dunque la generazione di un popolo di credenti. Tu nel Sabato santo ci stai davanti come madre amorosa che genera i suoi figli a partire dalla croce, intuendo che né il tuo sacrificio né quello del Figlio sono vani. Se lui ci ha amato e ha dato sé stesso per noi (cf Gal 2,20), se il Padre non lo ha risparmiato, ma lo ha consegnato per tutti noi (cf Rom 8,32), tu hai unito il tuo cuore materno all’infinita carità di Dio con la certezza della sua fecondità. Ne è nato un popolo, "una moltitudine immensa… di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7,9); il discepolo prediletto che ti è stato affidato ai piedi della croce ("Donna, ecco il tuo figlio", Gv 19,26) è il simbolo di questa moltitudine.

La consolazione con la quale Dio ti ha sostenuto nel Sabato santo, nell’assenza di Gesù e nella dispersione dei suoi discepoli, è una forza interiore di cui non è necessario essere coscienti, ma la cui presenza ed efficacia si misura dai frutti, dalla fecondità spirituale. E noi, qui e ora, o Maria, siamo i figli della tua sofferenza.

La percezione di una forza che ci ha accompagnato in momenti duri, anche quando non la sentivamo e ci sembrava di non possederla, è una esperienza vissuta da tutti noi. Ci pare a volte di essere abbandonati da Dio e dagli uomini, e però, rileggendo in seguito gli eventi, ci accorgiamo che il Signore aveva continuato a camminare con noi, anzi a portarci sulle sue braccia. Ci succede un po’ come a Mosé sul monte Oreb: egli riuscì a vedere qualcosa della gloria di Dio, che desiderava tanto contemplare ("Mostrami la tua gloria!", Es 33,18) solo quando era già passata (cf Es 33,19-22).

Una tale consolazione opera in noi e ci sostiene efficacemente, pur senza una consapevole illuminazione della mente e una percepita mozione degli affetti del cuore; essa opera dandoci la forza di resistere nella prova quando tutto intorno è oscurità. La chiamo "consolazione sostanziale" perché tocca il fondo e la sostanza dell’anima, ben al di sotto di tutti i moti superficiali e consci; oppure "consolazione della vita" perché i suoi effetti si esprimono nella quotidianità permettendoci di stare in piedi nei momenti più duri ("resistere nel giorno malvagio", Ef 6,13), quando la mente sembra avvolta dalla nebbia e il cuore appare stanco.

Tu conosci, o Maria, probabilmente per esperienza personale, come il buio del Sabato santo possa talora penetrare fino in fondo all’anima pur nella completa dedizione della volontà al disegno di Dio. Tu ci ottieni sempre, o Maria, questa consolazione che sostiene lo spirito senza che ne abbiamo coscienza, e ci darai, a suo tempo, di vedere i frutti del nostro "tener duro", intercedendo per la nostra fecondità spirituale. Non ci si pente mai di aver continuato a voler bene! Ci accorgeremo allora di aver vissuto un’esperienza simile a quella di Paolo che scriveva ai Corinti: "In noi opera la morte, ma in voi la vita" (2 Cor 4,12).

Tu, o Maria, sei madre del dolore, tu sei colei che non cessa di amare Dio nonostante la sua apparente assenza, e in Lui non si stanca di amare i suoi figli, custodendoli nel silenzio dell’attesa. Nel tuo Sabato santo, o Maria, sei l’icona della Chiesa dell’amore, sostenuta dalla fede più forte della morte e viva nella carità che supera ogni abbandono. O Maria, ottienici quella consolazione profonda che ci permette di amare anche nella notte della fede e della speranza e quando ci sembra di non vedere neppure più il volto del fratello!

Tu, o Maria, ci insegni che l’apostolato, la proclamazione del Vangelo, il servizio pastorale, l’impegno di educare alla fede, di generare un popolo di credenti, ha un prezzo, si paga "a caro prezzo": è così che Gesù ci ha acquistati: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo" (1 Pt 1,18-19). Donaci quell’intima consolazione della vita che accetta di pagare volentieri, in unione col cuore di Cristo, questo prezzo della salvezza. Fa’ che il nostro piccolo seme accetti di morire per portare molto frutto!

Il cireneo

venerdì 21 marzo 2008 alle 10:44


Mentre uscivano, s’imbatterono in un uomo di Cirene, di nome Simone, e lo costrinsero a portare la croce di lui.(Mt 27,32).

Quello era un giorno come tanti altri per Simone: tornava dalla campagna logorato dal lavoro quotidiano.

Eppure, tra la folla curiosa, è proprio su di lui che il centurione fissa lo sguardo e lo sceglie quale compagno di Gesù nella sua sofferenza. Non hai scelto tu, Simone, di portare quella croce, ti è stata data, sei stato costretto.

Non è stato l’amore a guidarti, ma a Gesù hai ugualmente dato sollievo.

Quante occasioni abbiamo noi ogni giorno, come il Cireneo,

di aiutare Cristo a portare la sua croce? Per le strade della nostra città, nelle nostre famiglie, nell’ambiente universitario, tra gli amici: tante persone c

ercano in noi un aiuto, ma noi, molte volte, chiusi nel nostro io e schermati dalla nostra indifferenza, non accogliamo le loro richieste, o facciamo finta di non sentirle.

Non riusciamo a capire che dietro al fratello che ha bisogno di noi c’è Gesù che ci parla, ci cerca, ci invita ad amare.



Ma amare è rischio, amare è mettersi in gioco, amare può significare rimanere soli, ricevere critiche, soffrire; amare è uno stile di vita, quello che distingue un Cristiano dagli altri. Ma amare è anche felicità!

Basta abbandonarsi all’amore, avere coraggio, aprire il cuore e lasciar entrare Cristo, la sua forza e la sua bellezza, per assaporare la felicità, quella vera, quella che viene dagli occhi di un bambino

sconosciuto al quale hai saputo fare una carezza, quella che riempie il cuore dopo la soddisfazione di essere stati utili, di aver fatto del bene gratuito, quella data da un semplice ma sincero “grazie” che, dopo tanto tempo, siamo riusciti a dire a mamma e papà, che hanno regalato la loro vita a noi, ora coscienti che ciò non ci fosse dovuto.

L’Amore è Cristo, per questo chi lo scopre non è più quello di prima: ciò fa paura, ma ne vale la pena.

Perché è l’amore il più grande motore del mondo: come dice Madre Teresa, “ogni volta che dividerai il tuo amore con gli altri, ti accorgerai della pace che giunge a te e a loro. Dove c’è pace c’è Dio!”


Anna Berloco, Livia De Meo, Simona Serra



Che ne farai della sua venuta?

domenica 16 marzo 2008 alle 00:33

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati! Quante volte ho voluto a raccogliere i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto! (Lc 13,34).

Tu, tu sei Gerusalemme, la città santa che Dio ha disegnato sulle palme delle sue mani (cf. Is 43,16)! La città amata e benedetta, la città visitata dalla sua Presenza.

Quanto ha fatto stupire i cieli quanto Dio ha fatto per te!
Montagne superbe e spazi sconfinati dell'universo, stelle splendenti e profondità degli abissi hanno visto il loro Creatore e Signore farsi piccolo per te! E sono arrossite, quasi vergognandosene, senza capire cosa stava succedendo.

Lo hanno visto scendere, nascondere davanti a te la Sua gloria e darti una dignità che a loro non è toccata: tu sei in piedi, libera di fronte al Signore dell'universo.

Libera! Per te il Creatore si è fatto da parte, ha ritirato la sua signoria e ha accettato il rischio più grande: conquistare il tuo libero amore, o patire il tuo sprezzante rifiuto, chiuderti nella tua indipendenza e indifferenza.

Quante volte Gerusalemme! Quante volte sono venuto a te nei miei profeti, nei miei messaggeri!
Incontri, persone, parole e segrete ispirazioni, dubbi del cuore o consolazioni inaspettate!
Quante volte sono venuto!

Non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata.

Non hai accolto Colui che ti visitava, umile, chiedendo il tuo amore.

Venivo a raccogliere la tua esistenza dispersa, i frammenti del tuo tempo che giacciono a terra slegati e senza senso nè gioia. Venivo a indicarti una strada nuova, totalmente nuova.
E tu non hai voluto. E ancora non vuoi.

Ma ancora vengo. E mi consegno a te. A te che ho fatto più potente di stelle, mare, montagne e universo. Queste realtà non possono non ubbidirmi.
Tu puoi dirmi sì o no se vuoi.

Vengo a te con l'ardore della mia gelosia e la mitezza del mio cuore.
Desidero essere con te, attirarti nel fuoco dell'amore.
E sono disposto ancora a ricevere un altro tuo rifiuto.

Ma ti prego, mostrami il tuo viso (cf. Ct 2,14), chi altri potrebbe accendere di luce i tuoi occhi?

Non lasciare che essi si spengano per sempre fissandosi su ciò che è inutile e vano!





La vera realtà che i nostri occhi non vedono

mercoledì 12 marzo 2008 alle 14:20

Una volta, in noviziato, avendomi la Madre Maestra destinata alla cucina delle figliole, mi affrissi assai di non essere in grado di maneggiare le marmitte, che erano enormi. La cosa più difficile per me era quella di scolare le patate; talvolta ne versavo fuori la metà.


Quando lo dissi alla Madre Maestra, mi rispose che poco alla volta mi ci sarei abituata e avrei fatto pratica. Questa difficoltà tuttavia non scompariva, giacché le mie forze diminuivano ogni giorno e, per mancanza di forze, al momento di scolare le patate, mi tiravo indietro.


Le suore accorsero che evitavo quel lavoro e se ne meravigliavano enormemente, non sapendo che non ero in grado di aiutarle, nonostante mi impegnassi con tutto lo zelo e senza riguardo di me stessa.


Durante l'esame di coscienza di mezzogiorno, mi lamentai col Signore per la diminuzione delle forze. Fu allora che udii dentro di me queste parole: «Da oggi in poi, ti riuscirà assai facile; accrescerò le tue forze».


La sera, venuto il momento di scolare le patate, m'affrettai per prima, fiduciosa nelle parole del Signore. Afferrai la marmitta con disinvoltura e scolai le patate con facilità. Ma quando sollevai il coperchio per farne uscire il vapore, invece delle patate notai nella marmitta interi fasci di rose rosse, così belle che non riuscirei a descriverle. Mai prima d'allora ne avevo vedute di simili.


Rimasi stupefatta, non potendo comprenderne il significato; ma in quell'istante udii in me una voce che diceva: «Il tuo duro lavoro Io lo trasformo in mazzi di stupendi fiori, mentre il loro profumo sale su fino al Mio trono».


Da quel momento cercai di scolare le patate non solo durante la settimana assegnatami in cucina, ma feci di tutto per sostituire le mie compagne durante il loro turno. E non solamente in questo, ma in ogni altro lavoro faticoso cercavo di essere la prima a dare una mano, avendo sperimentato quanto ciò fosse gradito a Dio.


O tesoro inesauribile della rettitudine dell'intenzione, che rendi perfette e tanto gradite al Signore tutte le nostre azioni! O Gesù, Tu sai quanto sono debole, perciò rimani sempre con me, guida le mie azioni e tutto il mio essere. Tu, o mio ottimo Maestro!
(dal Diario di s. Faustina Kowalska)

Dio non è d'accordo con la morte

domenica 9 marzo 2008 alle 11:24

Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!
Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà» .
Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà» .
Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell'ultimo giorno» .
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» .
Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» .
Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama» . Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là» . Maria, dunque, quando giunse dov'era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» .
Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse:
«Dove l'avete posto?» . Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!» . (cfr. Gv 11).




(Di Al. Pronzato)

[...] Mentre si avvia al sepolcro, «Gesù scoppiò in pianto».

Direi che mi bastano queste lacrime, questo pianto dirotto. Un Dio che piange la morte dell'amico, che non nasconde i propri sentimenti, che non si vergogna di apparire umano, mi convince quanto il Dio che richiama in vita colui che è morto da quattro giorni. Per me, anche quelle lacrime sono un grande miracolo.

«Vedi come lo amava», commentano alcuni dei presenti.

E poco importa che altri stiano a cavillare, in base a un atteg­giamento ostile pregiudiziale nei suoi confronti: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva far sì che questi non moris­se?» In fondo, questi ultimi rendono omaggio all'umanità di Gesù. Dubitano del suo potere soprannaturale, ma non possono con­testare il valore e il significato di quelle lacrime.

E poco prima, di fronte al pianto dell'altra sorella, Maria, e degli amici che la attorniavano, Gesù «si commosse profonda­mente, si turbò...» Due verbi che rendono il Maestro assai vicino alle nostre angosce, al nostro sgomento di fronte al dolore, alla nostra protesta contro la morte.

Neppure il Cristo è d'accordo con il male, non accetta a occhi asciutti il sepolcro. Neppure lui si rassegna facilmente alle separa­zioni più brutali.

Da un Dio che ama in quella maniera « tanto umana », c'è da aspettarsi di tutto in favore dell'uomo.

Al sepolcro Gesù si avvia non come un essere al di sopra delle debolezze dei comuni mortali, ma «profondamente commosso».

Ed è soltanto dopo essere stato in comunione con la nostra de­bolezza, che ritrova il tono imperioso del comando:

- Togliete la pietra!

- Signore, già manda cattivo odore, perché è di quattro gior­ni - gli fa osservare Marta.

Il fetore che esala dal cadavere non è un particolare macabro. Vi si può cogliere un significato teologico.

F l'artefice divino che si ritrova di fronte al proprio capolavoro deturpato, all'uomo che ha scelto la degradazione, la morte, il pec­cato, dal momento che si è sottratto alla «conversazione col pro­prio Creatore», ha rifiutato l'amore.

Nel racconto della Genesi troviamo il compiacimento: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (oppure: bella)» (Gn 1,31).

Qui: «Manda cattivo odore».

Sono i due poli estremi. È l'itinerario percorso dall'uomo lungo la strada della fuga, della disobbedienza. Dagli spazi smisurati del­l'Eden alla prigione del sepolcro.

Ma seguiamo la conclusione della narrazione: «Gesù gridò a gran voce: "Lazzaro, vieni fuori!" Il morto esce, con i piedi e le mani avvolte in bende, e il volto coperto da un sudario».

Quel grido imperioso è rivolto a ciascuno di noi. Cristo non si rassegna ai nostri sepolcri, alla nostra coabitazione con la morte, alle nostre scelte di morte. Lui ci provoca, ossia, letteralmente, ci «chiama fuori». Fuori della prigione in cui ci rinchiudiamo volon­tariamente, accontentandoci di una vita fittizia, impoverita di ideali, di slanci, spoglia dei veri valori. Fuori dagli orizzonti soffocanti. Fuori dalle dimensioni «riduttrici» della nostra grandezza più autentica.

Quella voce ci impone di camminare, spezzando le «bende»in cui ci siamo avvolti oppure che gli altri ci hanno cucito addosso.

La risurrezione comincia quando, ubbidendo a quel comando, decidiamo di uscire alla luce, alla vita.

Quando permettiamo al nostro essere più autentico - finora confinato nel sepolcro delle nostre paure - di uscir fuori allo scoperto.

Quando dalla nostra faccia cadono le maschere e ritroviamo il coraggio del nostro volto «originale».

E intollerabile, per Cristo, che noi fissiamo la nostra dimora in un sepolcro-prigione, prima ancora di aver assaporato il gusto della vita.

 













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