Guarda le stelle, se riesci a contarle: così supererò tutti i tuoi desideri

giovedì 29 marzo 2007 alle 18:00

Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: "Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande". Rispose Abram: "Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Eliezer di Damasco". Soggiunse Abram: "Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede". Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: "Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede". Poi lo condusse fuori e gli disse: "Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle" e soggiunse: "Tale sarà la tua discendenza". Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (Gn 15,1-6).

Abramo in verità da tempo aveva già creduto a Dio, lasciandosi indietro il sapore di tante cose (Gn 12,1-3), lui, chiamato ad una nuova vita quando ne aveva già vissuta una (v. 4), a ricominciare dopo aver sperimentato tutte le vie degli uomini.
Ricominiciare percorrendo adesso gli strani sentieri di questo misterioso Dio.
Che fa delle promesse.
Accreditate solo con quel non so che di sgorgato dalle profondità del cuore nell'attimo stesso che si ode la sua Parola. Come una eco che non fa stranamente sentire quella promessa
così assurda, come di fatto sembra.
Ma gli anni sono passati e ancora nulla si realizza. E Abramo non nasconde i suoi desideri e nemmeno la sua frustrazione.

Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Eliezer di Damasco.

Il desiderio di un figlio, di una discendenza dice stupendamente in modo simbolico non solo quello che è un desiderio umano naturale (soprattutto a quei tempi e in quella cultura).
Dice il desiderio che la propria vita non sia passata inutilmente.
Il desiderio di lasciare una traccia visibile di sè in questo mondo, in questa storia.
Una traccia, una impronta... sentire che la propria vita è stata bella, piena.. perchè ha impresso il segno della vita e di una bellezza che continua attraverso di noi e dopo di noi.

E' un bel desiderio. E' quello che Abramo quasi non spera più. E
quasi si rassegna ad una vita fallimentare:

...l'erede della mia casa è Eliezer di Damasco.

Ma il Signore ha in serbo qualcosa di più.

"Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede"

Non quello che tu temi e nemmeno quello che guardando dentro di te capisci di desiderare.
Infinitamente di più.

Poi lo condusse fuori e gli disse: "Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle"

Hai contato, hai visto i tuoi desideri. Ora guarda i miei per te.
Desidero dilatare, amplificare i tuoi desideri all'infinito come tu stesso da uomo non riesci nemmeno ad immaginare.

e soggiunse: "Tale sarà la tua discendenza"


I tuoi desideri sono troppo pochi. Guarda in alto. E misurati con l'infinito!
E riconoscerai che quell'infinito desiderio era inciso da sempre dentro di te, balenando di tanto in tanto in piccoli o grandi desideri.
Desidero che tu scopra tutti i tuoi desideri.
Contali.
Dimmeli.
Vivili.
Ma poi lascia che ti conduca fuori dalla tua tenda, dallo spazio limitato della tua visuale, e lascia che amplifichi e moltiplichi all'infinito il tuo desiderio, perchè sarò io, che sono l'Infinito, il solo a colmarlo.

Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.

E' una prospettiva particolare con cui ci avviciniamo al grande Triduo Pasquale della morte e resurrezione del Signore Gesù.
La prospettiva dei nostri desideri, da contare e ridire. A Lui.
E aprirsi ad una promessa che va oltre ogni limite. Oltre il limite della morte.
Verso la Resurrezione.
Verso il compimento di ogni desiderio, al di là di ogni aspettativa.


È lo sguardo che salva

domenica 25 marzo 2007 alle 12:42


Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra (Gv 8,1-11)

Ho un amico pittore che si chiama Antonio Boatto e vive su un argine del Livenza. Il suo valore è almeno eguale alla modestia (che è grandissima).

Una sera abbiamo letto insieme e commentato l'episodio del­l'adultera. Poi l'ho costretto a prendere in mano i pennelli. E’ rima­sto assorto per un paio d'ore. Il quadro lui lo esegue prima « den­tro » ( dopo è soltanto una formalità). Quindi ha cominciato a tirare fregacci decisi sulla tela che aveva davanti.

E’ venuto fuori un quadro che mostro a tutti con orgoglio, quasi l'avessi dipinto io (che sono sempre stato un disastro in fatto di disegno).

Il volto della donna occupa completamente la scena. Tutto é giocato sullo sguardo. Uno sguardo che esprime prima paura, quindi stupore, quasi incredulità.

Quando alza gli occhi, l'adultera vede Uno che la guarda in modo diverso dagli altri. Non aveva mai visto un uomo osservarla in quella maniera.

Finora aveva fatto esperienza di due tipi di sguardo. Quello del desiderio, della cupidigia. E quello della condanna. E, forse, nella scena evangelica, i... titolari dei due tipi di sguardo erano le stesse persone: sì, quelle con le pietre in mano...

Ora i suoi occhi si incrociano con quelli di un Uomo che « vede » in lei né un oggetto di piacere né un bersaglio per le pietre di una sentenza crudele.

L'amico pittore aveva centrato perfettamente il senso della pa­gina evangelica.

Personalmente, non ho mai avuto dubbi: la carità comincia dallo sguardo.

Diceva Simone Weíl: « Una delle verità fondamentali del cri­stianesímo, verità troppo spesso misconosciuta, è questa: ciò che salva è lo sguardo ».

L'adultera, come del resto Zaccheo, deve la propria salvezza a uno sguardo.

Lo sguardo del Cristo è, in un certo senso, creatore. Chiama al­l'esistenza una persona. Risveglia il suo essere autentico, reale. Liquida il farabutto, la canaglia, e chiama il santo.

Lo sguardo del Cristo non si rassegna al « poco di buono ».

Si ostina a cercare, a mettere in luce il molto di buono, il me­glío che c'è in ogni persona.

Dunque, uno sguardo rivelatore. Perché manifesta all'uomo le sue possibilità, la sua vera dimensione.

E sembra molto significativa questa testimonianza che ho letto in un giornale: « Conoscevo una persona accanto alla quale ognuno non solo si sentiva se stesso, ma il più, il meglio di se stesso. Quando chiesi a quella persona quale era il suo segreto, mi rispose in tutta semplicità: «Basta mettere a fuoco la persona che ti sta dinanzi come se al mondo null'altro vi fosse che l'interesse di que­sta persona» ».

Il nostro sguardo dev'essere, prima di tutto, libero.

Soltanto uno sguardo libero rappresenta un appello alla libertà.

Libero perché ha sfondato la prigione del proprio egoismo, delle proprie comodità, della propria indifferenza, dei propri interessi, per aprirsi all'altro in un atteggiamento di accoglienza, simpatia, discrezione, cordialità, delicatezza, benevolenza.

Libero dalle lenti deformanti dei pregiudizi, delle prevenzioni, dei sospetti, della diffidenza.

Libero da ogni istinto di separazione e di discriminazione.

Costui mi serve ‑ Tu no!

Costui mi piace ‑ Tu no!

Costui mi interessa ‑ Tu no!

Costui mi è simpatico ‑ Tu no!

« Questo «tu no!» si rivela come una eco malefica che rimbalza su tutta la terra scavando voragini di solitudini aperte verso di noi come un urlo. «Guardami... perché io sappia se esisto» » (Agnese Baggio).

Le persone che il nostro sguardo rífiuta saranno condannate, forse, a portare per tutta la vita un marchio di rifiuto, di solitudine, di insignificanza.

Anche uno sguardo indifferente può essere « omicida ». Il suo messaggio, infatti, si può tradurre così: « Per me tu non esisti. Negandoti importanza, ti nego il diritto all'esistenza ». Uno sguardo di indifferenza ha la capacità dì cancellare una persona.

Uno sguardo libero è uno sguardo che non si limita a sfiorare le persone che incontra. Non è uno sguardo frettoloso. Non è sfug­gente. Sa fermarsi e accogliere. Accogliere, ma non forzare.

E’ necessario, ogni mattina, purificare il nostro sguardo.

Si tratta, infatti, di:

‑ Svincolarlo da ogni istinto di possesso.

‑ Disarmarlo dai vari elementi di ostilità, aggressività, mali­gnità, durezza.

‑ Ringiovanirlo, restituendogli la capacità di stupore e di me­raviglia che fa nuove le cose, e ridandogli il gusto della scoperta dell'altro. L'altro come « inatteso ».

‑ Renderlo sensibile all'altro. Ossia capace di vedere l'altro come io vorrei essere veduto, in quella situazione concreta.

In tal modo, l'attenzione diventa espressione di rispetto e vei­colo di liberazione.

Soltanto l'attenzione che nasce dall'amore dichiara all'altro: « Io ti riconosco il diritto di essere quello che sei. Desidero che tu sia tutto quello che puoi essere » (Agnese Baggio).

Sì, soltanto se acquistiamo uno sguardo purificato, le pietre co­minceranno a cadere dalle nostre mani.


Alessandro Pronzato


Sesso santo

martedì 20 marzo 2007 alle 22:35
Sesso santo. L'erotismo nel sacramento del matrimonio come via al Cielo. E' il titolo di un libro coraggioso, devo dire, che "nasce dal lavoro di un gruppo di coppie di sposi cristiani cattolici che hanno approfondito la bellezza e la sublimità del sesso vissuto come dono di sé nell'oblìo di sé".
La sessualità è una dimensione fondamentale dell'essere umano, che lo riguarda non in modo superficiale, funzionale, ma nella sua intimità più profonda, dal livello delle singole cellule del nostro corpo, fino all'affettività, al modo di pensare, di vederci e vedere il mondo e le relazioni intorno a noi.

Siamo invasi dal "sesso" nella cultura occidentale. Ma è un sesso che libera e realizza?
La bella notizia che è il vangelo non può non toccare in profondità questa realtà così importante.
La vita nuova in Cristo Signore abbraccia ogni aspetto della nostra umanità, e prima di tutto il nostro essere uomini e donne, esseri strutturalmente aperti e fatti per la relazione con l'altro.
In questo blog vorrei dare voce a chi, in prima persona, può testimoniare di questa bellezza redenta. Troppo, è la mia impressione, si parla dall'alto su questo argomento, lasciando poco spazio al "magistero" di chi ha come vocazione la santificazione di questo modo di amare e fare comunione. La Parola di Dio non è reticente su questo aspetto, anzi. Basti pensare che un intero libro della Bibbia è consacrato al canto dell'incontro d'amore, contemplato in sè, nel suo estatico trascendere lo spazio e il tempo, con la fecondità che è il suo stesso esistere (mentre quella fisica è sorprendentemente non-detta, almeno nel Cantico dei Cantici).
Ma basta con le mie parole....


Pregare prima del rapporto coniugale (cfr. Tobia 8): dall'esperienza di una coppia.

Ci conosciamo da circa 20 anni, 4 di fidan­zamento e 16 di matrimonio (3 figli). Il nostro cammino d’amore e di castità (la castità è una conseguenza del vero amore) è un dono di Dio. Diciamo subito che da tanti anni siamo membri di un gruppo di preghiera e di carità e abbiamo una buona guida spirituale. Da fidanzati, per la grazie di Dio che è onnipotente, il nostro amore fu bianco, i nostri corpi rimasero sempre "nascosti" e rispettati reciprocamente. Talvolta per baci e abbracci troppo appassionati, ci siamo sentiti in colpa e nelle confessioni abbiamo trovato la forza per vivere la tenerezza combattendo la malizia.

Pensavamo: per pochi minuti di eccessiva passione, la nostra coscienza passa ore di inquietudine; allora decidevamo di frenarci un po' per non diminuire la gioia e la pace successive agli incontri.

Poiché l'amore è soprattutto dirsi tutto e poi darsi tutto, poiché l'amore è soprattutto parola, confidenza, fiducia reciproca (Gesù era il Verbo...), noi pregavamo tanto (con la Parola di Dio) e ci parlavamo per ore e ore. Alle soglie delle nozze, facemmo una stupenda scoperta: avevamo la forte certezza di conoscerci talmente che il dono dei nostri corpi non avrebbe rivelato chissà quali sconosciute novità. E ne avemmo conferma la prima notte.

Conoscendoci nell'anima, intuivamo i nostri corpi. Si pensa che la curiosità maschile o la voglia di esibizione femminile, la tensione psichica dell'attesa, il controllo sull'attrazione fisica siano quasi insopportabili; questo perché non si affida tutto a Gesù che smorza ogni eccesso e mette ordine. Tante volte abbiamo pregato così: "Nelle tue mani, al tuo sangue, o Gesù, affidiamo la gestione dell'attrazione fisica e la tensione che viviamo". E Gesù ci rasserenava completamente.

Nel matrimonio, abbiamo vissuto l'amore sessuale con gioia, gioco e ammirazione, aperti e accoglienti verso la vita. S.Tommaso d'Aquino ha pienamente ragione: "Più la natura è pura, più grande e più profondo è il godimento dei sensi".

Talvolta abbiamo conosciuto degli eccessi di cui ci siamo pentiti e confessati, ma qui invece vogliamo raccontare di un particolare incontro di unione che abbiamo vissuto la cui memoria è impressa a fuoco nella nostra mente. Noi siamo convinti della bontà del piacere erotico-nuziale, benedetto da Dio. Tutti siamo nati grazie al piacere di un rapporto dei propri genitori. È il peccato, definito come squilibrio e disarmonia, che purtroppo sporca e guasta tutto. Ma la preghiera è il potentissimo mezzo per riequilibrarci e per essere casti nel matrimonio, cioè moderati e ordinati nel dono gioioso dei sensi.

Dunque, vivevamo un periodo molto sereno e molto unitivo per noi. Ci sentivamo una cosa sola, sempre insieme anche se per il lavoro e la famiglia e i nostri impegni vari, spesso eravamo lontani solo nello spazio. Il cuore aveva un calore di tenerezza costante. Una domenica, di comune accordo, volemmo vivere una giornata di ritiro spirituale, di intensa preghiera in vista di un rapporto sessuale come quello di Tobia e Sara che pregavano prima di abbracciarsi e unirsi (cfr. Tobia 8).

Quale mezzo più potente della preghiera per metterci al sicuro dalla malizia, dall'abuso, dal possesso egoistico che minacciano la gioia della consumazione matrimoniale? Facemmo una bella confessione perché la confessione bombarda il male e dà forza per sfuggire le occasioni e vincere le tentazioni.

Quella notte, i nostri cuori e i nostri corpi esplosero nella luce. È molto difficile parlare di queste cose. Come partners l'uno sconfinò nell'altro, ricevendo lo stesso dall'altro in una rigenerazione originale. Essere fuori di sé in due è una grazie immensa, fuori di sé immersi nella vita, in Dio, in un vortice di dono e di circolazione del dono stesso. Eravamo "incinti" reciprocamente nello spirito, di altri che amiamo e nello stesso tempo eravamo desiderosi al massimo di avere "una carne sola", un bimbo da concepire, grazie al quale il sangue del nostro amore non sarebbe stato che uno solo, inseparabile. Ci sentivamo molto lievi (a corporei?) con una coscienza maggiorata, fuori del tempo. Tutto il mondo era lì, nel nostro abbraccio; il resto non importava più, liberi dal passato e dal futuro. Presenti solo nel presente. L'eternità non è un presente continuo? Lo toccavamo con mano...

Dilatati e bellissimi nel viso, nella pelle e nel sorriso, ma soprattutto nell'anima sconfinata e unica (unione di Dio e di noi insieme), ci sembrò di vivere l'esultanza di un mattino di Pasqua, dove le campane suonano a distesa, le rondini volano nei cieli, i bimbi vestiti a festa giocano nella gratuità. Fu un salto nella contemplazione... un cedere e affacciarsi, incantati, al mistero dell'Amore Uno e Trino, "un diventare quello che si guarda"... Non era possibile possedere l'infinito, ma era possibile esserne posseduti e così partecipare...Tutte le paroline d'amore di quella notte anche se sussurrate, ad un certo punto, lasciarono spazio al silenzio. Il silenzio favoriva la concentrazione grazie alla quale raggiungevamo il centro, il "top" dell'unione allorquando l'uno diventava l'altro e ambedue diventavano un po' divini, esuberanti di vita da offrire in pienezza, al mondo intero... Questo si è l'amore. Avemmo la indicibile certezza: l'amore esiste. La gioia di quella notte fu tale e tanta che saremmo stati felici e pronti per il salto nella morte che fissa in eterno il proprio stato d'amore.

Passammo tre giorni nella continua gratitudine al Signore.



Questa testimonianza è un dono di condivisione del ministero di p. Giovanni Marini ofm (Convento Porziuncola - S. Maria degli Angeli - 06088 PG - 075.805177 - 075.8051528), che da anni ad Assisi si occupa della formazione e dell'accompagnamento di fidanzati e giovani coppie.

Per saperne di più clicca qui.


E’più difficile recuperare il figlio che non si è allontanato

domenica 18 marzo 2007 alle 11:32
Per questa IV domenica di quaresima posto una riflessione di Alessandro Pronzato


Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta... Dopo non motti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì) per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto (Luca 15, 11‑32)


Questa parabola ha subito il torto di vedersi affibbiare un titolo errato. Infatti, viene comunemente indicata come la storia del fi­gliol prodigo. Invece, la figura centrale, il protagonista indiscusso è il padre.


Di questo padre colpisce, prima di tutto, il silenzio.

C'è il figlio minore che parla, pretende.

Il padre non dice una parola.

Il suo è il silenzio dell'amore, rispettoso della libertà del figlio. Accetta il rischio di questa libertà. Senza libertà non c'è amore. Un dottore della Chiesa parla appunto dell'uomo, al momento della creazione, come «rischio di Dio».

Certo addolorato, ma non adirato per la richiesta.

Lui non può sostituirsi alla scelta del figlio.

Noi ci domandiamo, d'istinto: perché non l'ha trattenuto? Per­ché non gli ha rifilato una buona razione di legnate sulla schiena, invece della parte del patrimonio che gli « spetta »?

La vera paternità è discrezione. E’ accettare il rischio della libertà...

La paternità non va confusa col paternalismo. Quest'ultimo ne rappresenta la deformazione. Con l'intento di proteggere, finisce col soffocare la crescita dell'individuo e di bloccarlo in uno stadio infantile.

«Nel contesto del Vangelo, Dio non appare come il padre che spranga la porta perché i figli non escano di notte, ma la luce illu­minante, la misteriosa bussola che orienta l'uomo nelle sue scelte, che non lo abbandona nell'esercizio rischioso della libertà, e che crea nuove prospettive di liberazione, rifacendosi agli epiloghi che parrebbero disastrosi. Il padre può aiutare solo essendo un model­lo... » (Arturo Paoli).

Il padre non ha bisogno di partire, visibilmente, col figlio. Va con lui in una forma nascosta, interiore, che più tardi esploderà nella nostalgia.

E poi l'attesa.

Sembra che il padre sia rimasto in casa ad aspettare il figlio scappato, a scrutare l'orizzonte.

In realtà non esiste più la «casa patema» dal momento che il figlio se n'è andato. La casa patema si trova là dove c'è il cuore del padre. Ora, il cuore del padre è andato lontano...

Ha camminato più il padre che non il figlio, a pensarci bene.

L'amore non si rassegna alle distanze, alla separazione.

L'amore è una realtà dinamica, non statica.

L'amore non si identifica con i muri. Né sta a custodire le pie­tre o «la roba».

L'amore è sempre in movimento, sempre in anticipo, prende co­stantemente l'iniziativa, non si chiude in un'attesa corrucciata e in­dispettita.

I passi del perdono arrivano molto più lontano della distanza scavata dalla rottura.

Dio non si rassegna alla perdita dell'uomo peccatore. Lo spia, lo insegue, lo bracca tenacemente, lo tormenta.

Pascal fa dire a Dio: «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato». Forse sarebbe meglio precisare: «Non mi cercheresti se io non ti avessi già trovato...»

Quando si commenta questa parabola, normalmente si mette in rilievo la lunga strada (partenza e ritorno) percorsa dal figlio pro­digo, una strada che l'ha condotto «in un paese lontano», dove, attanagliato dalla nostalgia della casa patema, ha compiuto il primo passo importante: «Rientrò in se stesso». Dopo di che, ha matu­rato la decisione: «Mi leverò e andrò da mio padre».

Si trascura, invece, il fatto che è essenzialmente il padre ad aver camminato parecchio.

Eccolo, infatti, uscir fuori e «correre incontro» al figlio che e­ alle viste.

E poi andare dai servi a ordinare la festa.

Ma, per un figlio scavezzacollo che ritorna da lontano, c'è l'al­tro, che sta dentro da sempre, «esemplare» nella sua condotta, che non vuoi rientrare. Che non gradisce la festa, non sopporta la gioia del padre, non riconosce il fratello che non possiede i suoi titoli di merito («questo tuo figlio», sottolinea con acredine... E il padre in­siste: «questo tuo fratello»).

E allora il padre deve di nuovo uscir fuori a «pregare» il figlio obbediente. Pregarlo di cambiare cuore, di essere d'accordo con la propria gioia.

Uno ritorna con una mentalità da servo («Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni»).

L'altro rimane ostinatamente fuori perché ha la mentalità dei ragioniere e non è in sintonia col cuore del padre.

Il padre, invece, resta convinto che «bisognava far festa e ral­legrarsi».

Per questo non esita a «uscir fuori». A cercare quello che è rimasto, a recuperare quello che non si è perduto.

Quanto deve camminare questo Padre instancabile per convin­cere il lontano che torna come nella Casa si entri a testa alta in qualità di « graziati » e non nella veste di condannati, si è accolti come figli e non come servi. E l'unica penitenza che si riceve è quella di una festa incredibile con la musica e la danza. Nella Casa si ritrova e non si perde la libertà. C'è la musica, il canto, la festa, non il lamento funebre.

E quanto deve camminare il Padre soprattutto per tentare di convertire il figlio «fedele» che rifiuta di entrare perché è convin­to di essere dentro...

Già. Perché c'è qualcosa di peggio che non essere a posto.

Ed è credersi a posto.

C'è qualcosa di peggio che camminare su una cattiva strada.

Ed è la spavalda sicurezza ‑ mai incrinata dal minimo dubbio ‑di trovarsi sulla strada buona.

Non c'è niente di più «mostruoso» di questo «monumento di inappuntabilitá», di questo insopportabile «avente diritto» quale, appare il figlio maggiore.

Lui ha bisogno di sicurezza. E si sente «assicurato» nel fare, nelle sue prestazioni esatte, senza uno sgarro.

Un calcolatore, uno squallido burocrate della virtù, senza un guizzo di vita, di gioia, di spontaneità, di «gratuità».

La sua è una perfezione esecutiva, senz'anima, senza creatività. Non c'è soltanto un abisso tra lui e il fratello scavezzacollo. Ma, soprattutto, tra la sua mentalità e quella del padre.

In fondo, la conversione più difficile è la sua.

Facile convincersi che il posto, nella casa, non lo si può «con­servare», ma soltanto «ritrovare» giorno per giorno. E che la fedeltà non è semplicemente un «rimanere», ma un accettare, quo­tidianamente, le sorprese e la logica paradossale e le sconvolgenti iniziative del Padre.

Non basta non abbandonare la casa. Bisogna sapere tener dietro al «vecchio» che corre incontro al figlio scapato che ritorna.

E partecipare alla festa, senza produrre la nota stonata.

Nella parabola manca il «lieto fine».

Ci sarà soltanto quando si verificherà l'avvenimento della con­versione del figlio maggiore. Quello rimasto. Quello che si ritiene a posto.

Il padre ha potuto provvedere il vitello grasso, l'anello, il ve­stito più bello, i calzari, per il ragazzo che è tornato pentito.

Ma non ha potuto provvedere l'accoglienza del fratello maggio­re. Questa non era in suo potere.

Eppure, come sarebbe stato bello se avesse potuto offrire anche il cuore colmo di gioia del fratello rimasto. Un cuore dilatato dalla bontà, dal perdono.

Di questo, purtroppo, non poteva disporre...

Sia che ci riconosciamo in quello che se n'è andato, come nel figlio rimasto a lavorare sodo (ma senza gioia e senza amore), la pa­rabola ci presenta l'esigenza della conversione. Conversione come capacità di misurare i nostri passi su quelli del Padre. E di condi­videre la sua «voglia» di festa.

Il monastero carmelitano di Vetralla

mercoledì 14 marzo 2007 alle 22:20

Amici carissimi, oggi vorrei presentarvi le care sorelle del monastero carmelitano di Vetralla (VT).
Chiamate a vivere una vocazione che ha dell'assurdo agli occhi del mondo, anche per chi, tra i cristiani, pensa che "fare il bene" visibilmente sia il metro che misura il senso di una scelta di vita.
Loro "non fanno niente" in questo senso. Tutta la vita tra quattro mura. Con tutte le cose belle da vedere e da fare fuori!
Che provocazione! o che pazzia!
Vi invito ad andare a trovarle se potete e parlare direttamente con loro...
Da parte mia dico solo che la loro presenza, solo il fatto che ci sono persone che spendono la loro intera esistenza così dimostra che Dio esiste, al di là di tante parole o ragionamenti.
Esse hanno il carisma di farci vedere che Dio è il tutto, il senso pieno della vita dell'essere umano
Ma lascio a loro la parola per presentarsi...


Alle soglie dell’antico comune di Vetralla si dirama, dalla via Cassia, un piccolo viale alberato per il quale si accede al monastero “Monte Carmelo”; la costruzione è abbracciata da querceti e distese di ulivi, da cipressi e campi coltivati, in un paesaggio tipico delle colline viterbesi. La contemplazione è la vocazione principale dell’Ordine carmelitano. La monaca carmelitana aspira a vivere in costante atteggiamento di preghiera; durante le ore di meditazione, si prepara il nutrimento che sostiene tutta la giornata e rende continua l’orazione. Solitudine e povertà sono le colonne portanti l’intera struttura dell’Ordine carmelitano. La solitudine è l’espressione del distacco dal mondo e dell’appartenenza a Dio. Essa è collegata al silenzio e al raccoglimento, condizioni necessarie per una vita di preghiera. Come Elia il profeta sentì la voce di Dio non nella tempesta ma nella brezza leggera, così il cuore dello spirituale non deve venir agitato dalla bufera ma deve ascoltare la voce di Dio nel silenzio del proprio intimo. I carmelitani vivono la povertà come una conseguenza della loro adesione a Dio nella contemplazione delle cose celesti. Un’attenzione particolare riveste l’esercizio della presenza di Dio, una pratica finalizzata a favorire l’unione con Lui e meditare la Sua legge giorno e notte, come prescrive la Regola.

La nostra giornata tipo:

5,15 - Sveglia.
5,40 - Ufficio delle Letture

6,05 - Orazione
7,05 - Lodi.
7,30 - S. Messa e Ora Terza.

8,15 - colazione

9,00 - lavoro e/o studio personale

11,45 - Rosario e Ora Sesta.
12,30 - pranzo; segue un’ora di ricreazione
14,00 - ritiro in silenzio nella propria cella.
15,00 - Ora Nona
15,30 - si riprende il lavoro della mattina.
18,00 - Vespro e un’ora di orazione
19,30 -cena; poi ancora un’ora di ricreazione

21,00 - Compieta.


Pur non avendo una particolare struttura per l’accoglienza di gruppi, accogliamo volentieri quanti desiderano accostarsi al monastero per pregare in silenzio e fare una sosta di verifica del proprio cammino spirituale. Però solo le giovani seriamente alla ricerca di una scelta vocazionale possono entrare in clausura e condividere per un po’ di tempo la nostra vita.





Monastero Monte Carmelo

Viale Card. D. Tardini, 1
01019 Vetralla (VT)
tel. 0761. 477.217
fax: 0761. 460.742
posta elettronica:
carmelitane.vetralla@virgilio.it





Domande da farsi prima del matrimonio

lunedì 12 marzo 2007 alle 22:28

Prima del grande passo vi farete o vi siete fatti queste domande?
Sono domande-base che valgono un po' per tutti... molto semplici ma concrete.
Se qualcuno ne vuole aggiungere altre faccia pure.

Sono disposto/a a rimanere fedele per tutta la vita?
SI NO

Vogliamo avere figli?
SI NO

Se sì abbiamo stabilito chi prenderà il congedo maternità/paternità e se ne occuperà prevalentemente?
SI NO

So quali sono gli obiettivi e gli eventuali problemi finanziari del partner?
SI NO

So quali sono le idee del partner su spese e risparmi?
SI NO

Abbiamo deciso chi farà i diversi lavori domestici?
SI NO

Ho riferito al partner con onestà e fino in fondo tutte le informazioni sulle mia storia sanitaria fisica e mentale
SI NO

Il mio partner approva le mie ambizioni sociali?
SI NO

Abbiamo parlato apertamente del nostro modo di intendere la vita sessuale?
SI NO

Terremo una televisione nella camera da letto?
SI NO

Sono davvero capace di ascoltare le idee e le lamentele dell’altro?
SI NO

Abbiamo tutti e due ben chiare le rispettive convinzioni religiose ed esigenze spirituali?
SI NO

Abbiamo discusso dell’educazione religiosa e morale dei figli?
SI NO

Sono disposto/a ad accettare che il partner per i problemi personali e/o di matrimonio si rivolga ad una figura terza? E quale? (sacerdote, psicologo, ecc.)
SI NO

Mi piacciono i suoi amici?
SI NO

Stimo e rispetto i suoi genitori?
SI NO

Sono preoccupato dell’invadenza della sua famiglia?
SI NO

Che cosa c’è della mia famiglia che potrebbe darle/gli fastidio?
SI NO

C’è qualcosa cui nessuno dei due è disposto a rinunciare nel matrimonio?
SI NO

Se a uno dei due fosse offerta una opportunità di carriera in una città diversa l’altro sarebbe disposto a seguirlo?
SI NO

Sono davvero fiducioso del suo impegno nel matrimonio?
SI NO

Credete che il vostro legame possa sopravvivere qualunque sfida doveste trovarvi ad affrontare?
SI NO



Solo foglie. Fino a quando?

sabato 10 marzo 2007 alle 23:00
Una parola su questa parte del vangelo di domani
(Per vedere tutte le letture della III domenica di quaresima clicca qui)...

Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?
Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai» .


Foglie.
Belle, verdi, rinfrescanti. Ma solo foglie.
Nessun frutto.
Per quanto tempo ancora?
Per quanto tempo ancora ci accontenteremo di apparire anziché essere?
Per quanto tempo ancora ci basteranno solo le parole, i desideri, i progetti, le discussioni, gli hobby, il lavoro, la cultura e il successo, la bellezza del corpo o l'impressione che altri hanno di noi?

Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo.

Tre anni. E dire che il fico matura fichi precoci in giugno e luglio (i deliziosi "fioroni") e la raccolta principale va da agosto fino a novembre... Tre anni senza l'ombra di un frutto... per una pianta di fico palestinese sono davvero troppi.
E dire che il fico è fatto per produrre la dolcezze squisita dei fichi... come noi creati ad immagine di Colui che è Amore abbiamo scritto dentro per dono di amare e rispondere all'amore di Dio con la concretezza delle nostre decisioni.
E invece solo foglie. Apparenza di vita. Apparenza di amore. Apparenza di vitalità e incapacità di generare vita intorno a noi.
Mi viene in mente, a proposito dell'ultimo post (sul libro di Augias-Pesce), una domanda. Com'è possibile che un libro scritto in modo così sbrigativo riempia scaffali e scaffali in tutte le librerie e dimostri in fondo la sete che la gente ha di sapere qualcosa di meglio su argomenti tanto delicati, e al Pontificio Istituto Biblico si continui a far finta di niente?
Ci si parla addosso, si discute di yiqtol e wayyiqtol, hifil e nifal, e non ci si preoccupa del popolo di Dio che muore "per mancanza di conoscenza" (cfr. Os 4,6). Basterebbero un paio di settimane di lavoro per buttare giù un libro sullo stile di quello di "inchiesta su Gesù" (il laico intellettuale di calibro ve lo trovo io...) che potesse orientare meglio le persone... e invece niente.
Solo foglie. Ma foglie "scientifiche" però! Che c..o!
E non si dica che è il gusto dell'esoterico o di qualsiasi cosa che sia contro la Chiesa a tirare. A suo tempo (negli anni 80) non un esegeta ma un semplice giornalista (Messori) ha venduto più di un milione di copie solo in Italia con il suo ultraortodosso "Ipotesi su Gesù", tradotto in svariate lingue.
Ma gli esegeti non possono abbassarsi a scrivere libercoli del genere.
Troppa gente capirebbe.
E che direbbero i colleghi di Tubinga, già che gli italiani non godono di grande fama?

Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?

Parole perentorie. Ma di una logica incontrovertibile.
Se non dai vita, perchè continui a succhiare risorse che altri potrebbero avere?
Se da fruitore della gratuità che Dio da anni riversa nella tua vita non sei diventato ancora donatore di gratuità, che senso ha il tuo esistere solo come sfruttatore?

Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai» .

Ancora quest'anno. Attesa e speranza di Dio su di noi e per noi.
Ma la scure che già è posta alla radice è brandita dalle nostre stesse mani.
Una persona o una istituzione divenuta in-significante per la vita degli altri si è già autocondannata all'inutilità di una esistenza insipida. Un'esistenza che si accontenta di foglie.
Ma non basteranno per dire di aver vissuto in pienezza questa vita donataci da Dio.



Inchiesta o pregiudizi su Gesù?

mercoledì 7 marzo 2007 alle 21:18
Un commento del prof. G. Segalla in proposito:


Una “Inchiesta su Gesù” pregiudiziale

Un libro su Gesù che spopola le classifiche dei libri venduti e si presenta con cumuli di copie nelle librerie, attrae l’attenzione del pubblico. Dico subito che questo libro non è da porre sulla stessa linea del “Codice da Vinci” di Dan Brown che pure ha spopolato qualche anno fa e lo continua con il film che ad esso si ispira (su questo mi permetto di non essere d’accordo con R. Cantalamessa). Quello di Brown è frutto di una astuta invenzione ed è criticato dal Pesce alle pp. 230-31. “Il vero veleno di Brown è la falsificazione di tutti i documenti che fa finta di utilizzare e l’invenzione totale che considera un rito sessuale il centro dell’unione con Dio e concepisce tutta la storia in chiave occultista” (M. Pesce).

L’ “Inchiesta su Gesù” di Augias-Pesce è un libro di due autori di cui il principale (anche se ha meno testo) è Augias, mentre l’intervento di Pesce gli è subordinato, ancorché critico. Augias è il “curioso”, che chiede allo storico M. Pesce di farlo entrare nel cantiere della ricerca storica attuale su Gesù. Purtroppo le introduzioni ad ogni capitolo che danno quasi la chiave interpretativa sono di Augias.

Dico in poche parole le tesi dei due autori per passare poi alla metodologia storica seria e ad una breve riflessione su di essa per quanto riguarda il Gesù storico. Consiglierei chi deve ancora leggere il libro di iniziare dalla fine, dalle due postfazioni che riassumono in breve la posizione dei due autori.

Augias è chiaramente uno scettico razionalista che usa la ragione non in senso critico, ma illuminista. Egli afferma: “La plausibilità di tale ipotesi che cerca di armonizzare il dato dei fratelli di Gesù e della concezione verginale di Maria dal punto di vista razionale (per chi vuole esaminarli con questo solo criterio – ovviamente lui!) gli sforzi risultano più generosi che convincenti” (p. 109-110). Dimostra di essere culturalmente arretrato per il fatto che si richiama a Voltaire e a Renan, due autori illuministi ormai da un bel pezzo nel passato; la storia della prima ricerca, scettica sul Gesù storico è stata già magistralmente scritta dal grande A. Schweitzer, che ne ha messo una pietra tombale sopra, dimostrando che gli studiosi del Gesù storico vedevano nel pozzo della ricerca la loro stessa immagine più che non quella di Gesù; ciò vale anche per Augias; ma Augias ignora questo libro fondamentale per la ricerca sia nel testo che nella bibliografia (purtroppo anche M. Pesce lo ignora). Per di più cade in errori elementari come quando a p. 243 afferma “Com’era il Dio che nel roveto ardente consegnò a Mosè le tavole della Legge” (!). Insomma Augias usa la ragione non in modo critico ma in modo ideologico; basti vedere come dia più peso ai vangeli apocrifi, più recenti che non a quelli canonici, più antichi contro ogni regola elementare di critica storica o a ipotesi di un Gesù rivoluzionario o omosessuale puntualmente smentite da M. Pesce.

M. Pesce invece è uno storico serio che pensa di poter tenersi lontano sia dalla fede sia da una pregiudiziale scettica: “Sono convinto che la ricerca storica rigorosa non allontani dalla fede ma non spinga neppure verso di essa” (p. 237). Come dirò dopo, il problema secondo me è posto male. Secondo Pesce, dunque, Gesù sarebbe stato un mistico visionario: aspettava prossimo il regno di Dio che avrebbe portato la pace e la giustizia definitiva sulla terra; perciò il suo messaggio era “inscindibilmente mistico e sociale” (p. 237), e la sua essenza sarebbe particolarmente riflessa nel vangelo di Luca. Positiva storicamente è la sua posizione sui miracoli e perfino sulla risurrezione (anche se indulge a spiegazioni psicologistiche). Sarebbe troppo lungo esaminare nei dettagli la sua tesi che arriva fino alla nascita del cristianesimo, in cui Gesù “ebbe un ruolo centrale e ineliminabile”(p. 201), mentre minimizza l’uso degli apocrifi per una storia di Gesù, anche se essi sono molto importanti per la storia delle origini del cristianesimo.

E veniamo infine a qualche riflessione di metodologia.

Anzitutto la terminologia. Andrebbe ben distinto il Gesù della storia che sta sempre aldilà di ogni ricerca per quanto agguerrita e il Gesù dello storico di turno; quando si parla di Gesù storico si pensa subito alla ricerca degli storici.

In secondo luogo in tale ricerca si deve certo usare con rigore critico il metodo storico, ben distinto da quello teologico: il teologo non deve proiettare la teologia posteriore sulle fonti storiche e farla passare come storia, ma neppure lo storico deve superare il suo ambito e riconoscere che i suoi risultati sono relativi e limitati, e la realtà non si identifica con il fatto storico (errore del positivismo storico); riconoscerà che non deve pretendere di spiegare tutto e d’altronde non deve mai dimenticare il principio di “ragion sufficiente”: ad esempio come si spiega la nascita entusiasta del cristianesimo senza il fatto straordinario della risurrezione? Infine, vorrei ricordare che il teologo come sono io è interessato alla storia di Gesù, perché oggetto o soggetto della teologia è una persona storica e non una idea o ideologia; perciò se anche metodo storico e metodo teologico sono e vanno ben distinti, il teologo tuttavia potrà criticare lo storico sul suo terreno, dimostrando che non ha applicato correttamente il metodo (l’avrei fatto anch’io per alcuni punti di questo libro se non fossi limitato dallo spazio); allo stesso modo anche lo storico potrà criticare il teologo quando volesse passare per storia quello che è teologia.

E per ultimo va detta chiaramente la povertà della storia intesa come fatti avvenuti (che sembra dominante in questo libro). La storia viene raccontata, anche quella di Gesù nei quattro vangeli, allora e ora perché ha un altissimo significato per me, per il mondo, per la storia presente e futura. Se si dimentica questo, non si fa più vera storia.

Chi volesse saperne di più mi permetto di rimandarlo al mio libro recente Sulle tracce di Gesù (cittadella, Assisi 2006), di cui “La Difesa” ha già parlato.

Giuseppe Segalla

Come il sole era il suo volto come la neve le sue vesti

domenica 4 marzo 2007 alle 11:45
In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» . Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» . Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (Lc 9, 28-36).

Ci sono momenti nella vita in cui, non si sa come e non si sa perchè adesso e non in un altro momento, Gesù ci "prende con sè" e ci porta in alto, sul quel monte che è il segreto inaccessibile della vita stessa di Dio, il mistero della conoscenza della Comunione/Padre/Figlio.
In questi momenti tutto è chiaro, splendente, gioioso. Non è che si vedono altre cose. E' lo stesso volto di Gesù che già conoscevamo, sono le stesse vesti che ricoprono il suo corpo di carne. E' la stessa realtà che viviamo ordinariamente tutti i giorni che improvvisamente diventa sfolgorante. Si sprigiona luce di senso dalle cose che ci circondano, dall'esperienza quotidiana che sembra così monotona, faticosa e grigia. Per un attimo forse, ma vediamo la realtà delle cose. Tutto ha un senso perchè Cristo Signore è. C'è veramente, e tutto ha senso in Lui.
Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, tutta l'attestazione profetica dell'Antico Testamento indica Lui come il termine ultimo e il senso di tutto. Mosè ed Elia sono anche tutto ciò che in questa vita abbiamo sentito bello, degno di essere vissuto, appagante veramente. Affetto, amore, conoscenza, scienza, cultura, viaggi, esperienze, incontri, persone... tutto ciò che ha in sè una scintilla di luce, appare oggi sul Tabor insieme al Cristo ed indica Lui come la sorgente di tutta quella bellezza. Indica Lui e poi scompare. Lui basta. Appena la voce cessò, Gesù restò solo.
La voce delle cose create cessa, rimane Lui solo. Tutte le cose belle che hai vissuto non sono cancellate dal tuo incontro con Lui, ma sono concentrate, riassunte, ricondotte ad unità.
Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!
Ricorda questi momenti...
Per quando dovrai salire su un altro monte, ma non senza di Lui.
Il Calvario. Lì non c'è il grigiore del quotidiano, ma le tenebre dell'assurdo.
L'apparenza del non-senso, il dolore e la morte.
Eppure.
Eppure sarà proprio lì che il Figlio rivelerà il vero ed assoluto splendore della Gloria.
In verità, in verità vi dico: se il grano di frumento, caduto per terra, non muore, rimane solo.
Ma se muore, porta molto frutto (Gv 12,24).






 













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