Gli amori del re Salomone (2)

martedì 27 novembre 2007 alle 13:57

La nuova alternativa religiosa è costituita dalle “molte donne straniere”.


Senza alcun dubbio, c’è una dimensione sessuale nella perversione di Salomone – e di che dimensioni: 300 mogli e 700 concubine! – Ma non dobbiamo farci fuorviare: il problema non è sessuale ma politico. I molti matrimoni e l’harem sono un modo per sviluppare le alleanze internazionali.

E tutti questi sforzi per la sessualizzazione della politica e per la politicizzazione della sessualità sono modi per garantirsi la propria esistenza, per mantenere l’iniziativa nella propria vita.

Con il risultato di eliminare il Signore trascendente e qualsiasi principio di critica.

Gli amori nuovi e alternativi di Salomone avevano ridotto la vita a qualcosa di gestibile, calcolabile e amministrabile.

Amare Dio significa arrendersi davanti a quell’Uno che è un sacro mistero schiacciante; che richiede fiducia, e che non può essere controllato.

Inversamente, avere questi amori modesti e divisi significa solo amare soltanto nella misura in cui noi possiamo gestirli e porli così sotto il nostro controllo.

Questa è la tentazione che coloro che amano questo Dio hanno sempre dovuto affrontare.


Walter Brueggemann


Ecco il nostro Re!

domenica 25 novembre 2007 alle 11:29

2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell' acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l' asciugatoio di cui si era cinto. 6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". 7 Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo". 8 Gli disse Simon Pietro: "Non mi laverai mai i piedi!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". 9 Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!". 10 Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti". 11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete mondi". 12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l' esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica (Gv 13,2-17).

Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene: lo sono.

La folla osannante l'aveva accolto a Gerusalemme come "il re d'Israele" (cfr Gv 12,13-15).

E Gesù stesso, di fronte a Pilato proclamerà apertamente la sua regalità: "tu lo dici: io sono re" (cfr. Gv 18,37).

Ma il senso di questa regalità, che con la Resurrezione si manifesta quale regalità universale, lo si capisce tra le mura del cenacolo. Qui Gesù tiene una lezione magistrale di "esegesi". Davvero un po' particolare: infatti non è su un passo biblico scritto, ma su un testo ancora da scrivere: quello (quelli) che racconterà della sua morte in croce e della sua resurrezione.

Gesù nel cenacolo fa l'esegesi del suo morire in croce... ma non solo, spiega il senso del memoriale che sarà destinato a rendere presente e operante per tutte le generazioni a venire questo mistero della sua Pasqua: la celebrazione eucaristica (di cui infatti il vangelo di Giovanni non parla - considerandola già arcinota - ma che sostituisce appunto con la lavanda dei piedi che nè è l'interpretazione data da Gesù stesso).

Ecco dunque il nostro Re! Ecco come Dio regna e vuole regnare nella nostra vita.

Tutto è rovesciato. Il concetto umano di "regalità" è solo un espediente per attirare la nostra attenzione lì dove non avremmo mai fissato i nostri occhi: verso i piedi dei nostri fratelli, verso quelle mani che li lavano.

Tra gli apostoli c'è sbigottimento generale, c'è chi si porta le mani alla testa, che non crede ai suoi occhi, chi non riesce a tacere il suo scandalo. Pietro non capisce e si rifiuta in un primo momento di volere un tale re, un tale messia. Ma poi quando intuisce che il suo rifiuto lo avrebbe separato da Lui, pur non capendo accetta tutta intera questa regalità... perché sente che c'è è di mezzo l'amore. E lui vuole rimanere, stringersi a questa comunione con lui, come noi desideriamo essere amati.

Gli occhi, le mani, il suo corpo inginocchiato, tutto è rivolto verso un punto: i nostri piedi, ossia la nostra piccolezza, la nostra miseria. Quanto è amata!

Ecco il nostro Re!

Che chiede ancora di poterci lavare i piedi. Lo farà con il suo morire per noi. Anche se suoi nemici.

Eppoi, il dono ancora più grande: poter partecipare alla sua regalità che è beatitudine dell'amore:


Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

Gli amori del re Salomone (1)

venerdì 23 novembre 2007 alle 16:47

Ma il re Salomone amò donne straniere, moabite, ammonite, idumee, di Sidòne e hittite, appartenenti a popoli, di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: "Non andate da loro ed essi non vengano da voi: perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dei". Salomone si legò a loro per amore. Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli pervertirono il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l' attirarono verso dei stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre. […] Il Signore, perciò, si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d' Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore. Allora disse a Salomone: "Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito. […]" (cfr. 1Re 11,1-13).


Salomone è lo specchio della nostra vita di fede; quel che siamo in grado di discernere in Salomone, lo riconosciamo molto bene anche in noi stessi. E questo è il modo in cui, all'origine, fu inteso il nostro testo. Non è stato scritto così com'è per darci solo un resoconto storico della vita di un re del X secolo a.C. Al con­trario, è stato compilato in modo che Israele potesse comprende­re più a fondo quel che avveniva nel suo seno... e in ogni generazione.

[…] la vita di Salomone è una storia di erosione e di deterioramento, che ci mostra un uomo potente andare in malora.

E noi ci muoviamo sempre dall'uno all'altro, cioè fra l'amore verso il Signore e l'amore verso altre fedeltà. Così ogni giorno, prima o poi, giovani e anziani, a tempo e fuor di tempo, ci troviamo a scegliere sempre fra questi due amori. Oppure, inversamente, noi cerchiamo sempre di evitare la scelta, nella speranza di poterli avere ambedue. […]

All'inizio incontriamo Salomone (1 Re 3,3) in un atteggiamento di salda fede: egli amava il Signore. È un'affermazione semplice; senza alcuna aggettivazione, che manifesta un'intenzione molto chiara. Una tale assenza di ambiguità è senz'altro fonte di entergia e autorità . In quel momento Salomone è un uomo dal cuore puro perché vuole una cosa soltanto.

È stato dimostrato che la parola amore (ahab) in alcuni contesti, forse anche in questo, significa “onorare gli impegni del patto”. Cioè l’amore non è tanto un fattore emotivo […]. Per Salomone amare Dio significava essere chiaro sulle aspettative di Dio e organizzare la propria vita in modo da farvi fronte. Tutto questo ci offre l’occasione per riflettere su quel che Dio si aspetta da parte di coloro con i quali ha stretto un patto. Vedi Giovanni 14,21 dove l’amore di Dio è anche identificato con l’obbedienza ai comandamenti.

Nel nostro testo, come pure nel Deuteronomio (vedi 6,6;10,13;13,4), è molto chiaro che amore significa obbedienza. L'intenzione di un cuore retto deve avere espressione concreta.

[continua...].



Walter Brueggemann

Il ramo di mandorlo: ritiro spirituale in preparazione al S. Natale

martedì 20 novembre 2007 alle 21:00

Un avviso che magari può interessare chi è di Roma o dintorni. Domenica 2 dicembre terrò un ritiro spirituale dedicato a questo tempo ormai prossimo di preparazione al S. Natale. Il titolo "il ramo di mandorlo" fa riferimento al tema che mediteremo insieme in ascolto della Parola di Dio. Si tratta in estrema sintesi del mistero del compimento e della realizzazione delle promesse di Dio sulla nostra vita

Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Che cosa vedi, Geremia?". Risposi: "Vedo un ramo di mandorlo". 12 Il Signore soggiunse: "Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla" (cfr. Ger 1,11).

Di solito, soprattutto in vista del Natale, si leggono molto i testi profetici in rapporto con la "predizione" della venuta del Messia. Ma questa volta noi parleremo di quelle profezie "che non si sono realizzate". Quali sono e cosa dicono di Dio e a noi stessi le profezie "incompiute"?


Villa Nazareth

Associazione Comunità Domenico Tardini

Ritiro spirituale in preparazione del Natale



Il ramo di mandorlo


Tra promessa e compimento, tra scandalo e adorazione


Domenica 2 dicembre 2007

Congregazione Suore Domenicane di Santa Caterina da Siena

Via Massimi, 114/B

00136 Roma - tel. 06/97845301


Programma

Ore 10.00 Arrivo

Ore 10.15 Recita delle Ore

Ore 10.30 Prima Meditazione

Ore 11.30 Riflessione personale

Ore 12.30 Pranzo buffet

Ore 14.00 Seconda Meditazione

Ore 15.00 Riflessioni comuni e silenzio personale

Ore 16.00 Liturgia Eucaristica presieduta da Mons. Claudio M. Celli


Per iscrizioni: Lida 06 39729912, Laura 06 5142068 o Massimo 349 4751488

Il filo d'oro

sabato 17 novembre 2007 alle 22:16


Un filo d'oro.

C'è come un filo d'oro tessuto attraverso gli avvenimenti della nostra vita.

Ma noi vediamo e sentiamo a volte solo problemi, angoscia. La nostra vita sembra sconvolta da ondate successive di imprevisti, cose andate storte. A volte felici perchè qualcosa va bene, altre depressi perchè qualcos'altro è sopravvenuto e ci ha disilluso.

Una successione di eventi di cui non riusciamo a cogliere il nesso, la direzione.
Tutto sembra andare a caso, e ci adattiamo... cominciamo a vivere alla giornata: questo mi piace, lo faccio, quest'altro non mi piace lo evito.

Anche per le persone che amiamo succede così. A volte stentiamo a capire la strada verso cui una vita si incammina.

Ma c'è un filo d'oro. Un filo prezioso Dio sta tessendo nella nostra vita con infinita pazienza, amore, misericordia... speranza.

Un filo che dà senso a tutta la nostra storia, le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano.
"Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" dice l'Apostolo Paolo (cfr. Rm 8,28).

Per grazia, per dono, se perseveriamo nella nostra ricerca di Dio, nell'ascolto della sua Parola ci è dato a volte di scorgerlo. Anzi di vederlo, e anche molto bene.

Un filo d'oro che riluce bellezza, delicatemente tessuto attraverso trame di incertezza, paure, sbagli, monotonia, prove e anche peccati.

Un filo d'oro che riaccende energie dimenticate, e fa esultare la speranza.

E allora cominciamo a capire. Capire che la nostra vita, la vita di chi amiamo, fatta di pezzi che sembravano ormai frantumanti e indecifrabili, stanno assumendo decisamente e stupendamente un senso che nemmeno osavamo immaginare.

Bellissimo.

E allora ricomincamo a sorridere. Diventiamo gelosi. Ma gelosi di questa bellezza che Dio sta tessendo in noi e negli altri. Vogliamo collaborare al meglio. Favorire e non danneggiare questo capolavoro in corso d'opera. E' la nostra stessa vita. La vita di chi chi ci sta vicino.

Abbiamo bisgno di pregare di più. Di più silenzio. Di più profondità. Di più ascolto.



Cantate inni al Signore con l'arpa,
con l'arpa e con suono melodioso;
con la tromba e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.

Frema il mare e quanto racchiude,
il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani,
esultino insieme le montagne.

Esultino davanti al Signore che viene,
che viene a giudicare la terra.
Giudicherà il mondo con giustizia
e i popoli con rettitudine (cfr. Sal 97).

Dispensatori di Vangelo... e di pane

mercoledì 14 novembre 2007 alle 21:03


L’evangelizzazione è la perenne ansia della Chiesa, perché è il testamento lasciatogli da Gesù. Anche là dove essa è impegnata in opere di promozione umana e sociale, come qui in Madagascar, l’evangelizzazione è e resta la sua priorità ed il segno della sua fedeltà al Maestro.

È difficile spiegarlo a volte. Molti apprezzano dei missionari il fatto che essi non si limitino a …fare delle prediche, ma diano un piatto di riso a chi è affamato ed una medicina a chi soffre. Per molti questo è un segno di credibilità e di autenticità. A volte capita di sentire apprezzamenti generosi anche da parti di non credenti… Ma ogni missionario (e cristiano) sente che dare Gesù ed il suo vangelo è più importante che distribuire un pezzo di pane. Questo non toglie che in Missione accanto alla chiesetta sorge subito la scuola ed il dispensario, e che a volte l’80% del tempo materiale è dedicato all’opera umanitaria, ma sempre nella certezza che Gesù è la ricchezza più grande che si possa offrire ad ogni uomo, anche ad un povero. Se offriamo quel piatto di riso è in nome di Gesù e dell’amore che lui ci ha insegnato. Se non fosse così mi sentirei solo un commediante.

Noi Redentoristi in Madagascar siamo impegnati in tante opere sociali: dalle scuole ai dispensari, dalle mense per i poveri all’aiuto ai bambini malnutriti, dalla formazione professionale all’alfabetizzazione degli adulti. Eppure la nostra priorità e ragion d’essere è l’annuncio e la testimonianza del Vangelo. Senza quest’annuncio saremmo solo degli operatori sociali, e le nostre stesse opere perderebbero la loro spina dorsale.

Questa evangelizzazione si realizza nell’annuncio che fanno direttamente i missionari, ma anche nella formazione d’altri evangelizzatori. È per questo motivo che da due anni siamo impegnati in un Centro di formazione per i catechisti.

In questo centro arrivano ogni anno una decina di famiglie, provenienti per lo più da villaggi di foresta. Durante tutto l’anno essi abitano con noi e condividono la nostra vita. Sono formati per il loro ministero d’animazione delle comunità cristiane (teologia, catechesi e Bibbia), ma imparano anche dei mestieri pratici per poter elevare il loro tenore di vita e sostenersi economicamente una volta tornati nei loro villaggi.

Finito il corso queste famiglie catechiste sono inviate solennemente nei loro villaggi d’origine dove saranno responsabili dell’animazione cristiana di tutta la comunità cristiana. In molti dei villaggi di foresta il sacerdote passa in tournée a scadenze 6 mesi o un anno. Sono i laici, i catechisti appunto, a tenere vive ed attive le comunità cristiane: a presiedere alla liturgia domenicale, ai riti religiosi (funerali), a guidare la catechesi e preparare la celebrazione dei sacramenti al passaggio del sacerdote. Il loro lavoro laicale tiene in vita migliaia di piccole comunità a volte in posti irraggiungibili per i missionari. La chiesa in terra di missione si regge più che su teorie sul laicato, sul lavoro costante di questi collaboratori.

p. Lorenzo CSSR



Come una stella cadente

lunedì 12 novembre 2007 alle 15:40
Ho letto il bel post che il carissimo Lorenzo (da non confondersi in questo caso con l'altrettanto caro p. Lorenzo) ha messo sul suo blog (Diario di bordo).

I poeti (e gli artisti in genere) hanno il dono di saper dire in modo splendido quello che c'è non solo nel loro cuore ma nel cuore dell'uomo in genere. Credo che in ognuno di noi, chi più che meno, ci sia questa capacità.. magari nascosta. In ogni caso è bello poter ritrovarsi e sentire come proprie parole, immagini, suoni e melodie forgiate da altri compagni di viaggio. A volte è una musica, a volte un'immagine o una parola.. qualcosa che riesce a farti dire: ecco! è proprio così per me, è quello che sento e vivo anch'io adesso! Magari l'immagine della stella "cadente" è imperfetta... ma lo è del resto il linguaggio stesso, che nella sua imperfezione aspira a compiersi Lì dove non ci sarà bisogno di parole per capirsi...


Con il suo permesso fraterno faccio mie le sue parole e i suoi desideri.
Buona lettura. E grazie a te Lore.





Sono nato il 10 di agosto, quando il cielo si dipinge e s'incendia di mille stelle luminose. E sono sempre stato orgoglioso di questo fatto e ne vado proprio fiero, fiero di un qualcosa che non di pende certo da me, e nemmeno dai miei genitori, e da nessun altro se non da Dio stesso, Colui che decide.

Non voglio vivere molto, ma la vita che vivo la voglio vivere a mille. Non a dieci, non a cento, ma a mille. E vorrei che il mio passaggio su questo mondo, il mio attraversamento fra gioie e dolori, fosse come quello di una stella cadente che passa nel cielo: un vero e proprio incendio d'Amore, dentro e fuori di me.Come una stella cadente. Il suo passaggio è veloce, deciso, e lascia una scia luminosa nel cielo azzurro-blu-scuro, inconfondibile. Il suo passaggio, forse inconsapevolmente, fa accendere un sorriso nel cuore e nel viso di tutti colori i quali hanno la fortuna di osservarne il tragitto. Loro non sanno dove la stella cadente abbia esaurito la sua energia nè da dove essa sia scaturita, nè perchè sia apparsa proprio in quell'attimo e non prima e nemmeno dopo... però sono contenti di essere stati testimoni ed esprimono il loro più intimo desiderio confidando che quel segno del cielo sia un segno di benevolenza.

Così voglio vivere e non in un altro modo. Questo è il mio desiderio per la mia vita. Essere acceso ed accendere. Rimanere acceso, lasciarmi accendere, divampare nel buio delle giornate faticose e ravvivare luoghi e persone attorno a me.

Dunque, accogliere La Luce per essere Luce, accogliere l'Amore per essere Amore, custodire la Vita dentro di me per ridonarla agli altri. Accogliere il Bene per essere Bene, godere di ogni cosa esistente e condividere la Gioia della vita con chiunque abbia voglia di farlo con me, anche se fosse soltanto per cinque minuti del suo preziosissimo tempo. E così avanzare velocemente, incessantemente, procendendo assieme nell'infinito Cielo, correndo verso il giorno in cui ci sarà una stella in meno e gli uomini non potranno più sorridere del mio passaggio.

Le lacrime del profeta, l'esperienza dell'esilio

sabato 10 novembre 2007 alle 16:58


Oggi vorrei condividere questa profonda riflessione di Pietro Bovati sul senso delle lacrime e del dolore del profeta Geremia di fronte all'indurimento del cuore del suo popolo, amato immensamente da Dio e lui stesso...


Il peccato di Giuda è totale: non solo perché nessuno ne è esente, ma soprattutto perché esso non è percepito come peccato. Il cuore indurito non capisce di volere il male; non capisce perché venga minacciata una sanzione, e deride tale prospettiva; non capisce infine quando la collera divina col­pisce con la punizione (2,19; 44,15-19).

Quando il male si rivela così profondamente, quando l'insipienza dell'uomo raggiunge il suo culmine, la parola del profeta si muta in pianto:


«Chi farà del mio capo una

fonte d'acqua, dei miei

occhi una sorgente

di lacrime, perchè pianga

giorno e notte

gli uccisi della figlia

del mio popolo?» (8,23).


«Se voi non ascolterete,

io piangerò in segreto

dinanzi alla vostra superbia;

il mio occhio si scioglierà in lacrime,

perché sarà deportato il gregge del Signore» (13,17).

«I miei occhi grondano lacrime

notte e giorno, senza cessare» (14,17).


Queste lacrime sono in primo luogo segno di compas­sione per il popolo che il profeta ama perché è il «suo» popolo. Come il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41), il pianto di Geremia non è solo lo sfogo per un'amara delu­sione, ma è piuttosto un'ultima muta parola che invita il pec­catore a convertirsi, e che intercede presso Dio.

Le lacrime sono inoltre un gesto profetico che anticipa ciò che faranno gli abitanti di Gerusalemme, una volta deportati in terra straniera o condannati alla miseria nel loro paese devastato. Basti pensare alle Lamentazioni:


«Ah, come sta solitaria

la città un tempo ricca di popolo...

Essa piange amaramente nella notte,

le sue lacrime scendono sulle guance» (Lam 1,1-2).


Ad alcuni cattivi interpreti della storia biblica questa situazione può sembrare la fine. A causa del peccato radi­cale di Israele, si dice, viene inflitta una punizione radicale; non si capisce che si tratta invece del principio. Il compiersi della parola di Dio, con il suo destino di sofferenza per il peccatore, non è il segno del fallimento dì Dio nella storia; al contrario, il tempo delle lacrime è il tempo della fecon­dità.

Dicevamo che il cuore di Israele si era chiuso nell'osti­nazione del peccato; nessuna intelligenza, nessuna verità sembrava più possibile. Ora Dìo, nel suo misterioso dise­gno di sapienza, porta l'uomo nell'abisso della sofferenza e della umiliazione, così che il suo cuore venga spezzato; nel­l'insopportabile esperienza del dolore, nelle lacrime dell'e­silio, il peccatore rientra in se stesso, e si apre al riconosci­mento del suo peccato e all'ascolto della parola di Dio (Dt 30,1-2).


Geremia visse e predicò nel regno di Giuda tra il 622 e oltre il 587 a.C., nell’epoca convulsa che vide consumarsi la tragedia della città santa, del tempio e delle istituzioni che reggevano il popolo di Dio Perseguitato, incarcerato e percosso come traditore e disfattista a motivo del suo messaggio che non incontrava i progetti dei governanti, egli resta fedele alla sua missione: denuciare il peccato del suo popolo, proclamare la minaccia dell'esilio ma anche la speranza di una nuova Alleanza e una nuova relazione con Dio, fatta di amore e fedeltà incisa nel profondo del cuore e non solo su talvole di pietra.


Educarsi alla reciprocità

giovedì 8 novembre 2007 alle 12:58

Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore (Rm 13, 8-10).

Era la prima lettura di ieri sera.
Paolo parla ai primi cristiani di un unico debito da non doversi mai saldare.
L'amore vicendevole. O, in altre parole, la reciprocità.

Educarsi alla reciprocità non è facile.

E' più facile essere o quelli che ricevono sempre, o quelli che danno sempre.
Un rapporto umano e ancor più cristiano così non può funzionare. Non funziona perchè se solo riceviamo o solo diamo, non c'è proprio rapporto, non c'è comunione.

E' senz'altro più facile ricevere. Chiedere, pretendere, avere diritti. Pensare di averli sempre. Spesso è questa la realtà concreta - infantile - che viviamo.

Se invece pensiamo al nostro "dover essere", spesso immaginiamo (e predichiamo - agli altri) l'amore come un dover dare sempre, gratuitamente, senza sperare ricompense. Ebbè non l'ha detto Gesù? Sento subito che mi dite... Sì certo, ma non so se le abbiamo capite proprio bene queste parole.

Già, perchè in Dio non funziona così. Non c'è uno che dà e basta. C'è assoluta comunione: ossia: il Padre è colui che da sempre dona tutto se stesso al Figlio ma il Figlio è appunto colui che riceve tutto dal Padre. Dare e ricevere sono allo stesso tempo e in modo indisgiungibile Amore, Spirito Santo. Senza contare poi che il Figlio a sua volta riama totalmente il Padre e quindi è il Padre poi a ricevere amore e obbedienza... ancora: Spirito Santo.

Ecco, quando tra due persone o più c'è questo dinamismo di vita di dare e ricevere (ma non dare solo per ricevere) c'è Dio tra loro e in loro.

Ma, dicevo, educarsi a questa reciprocità non è facile.

Occorre grande delicatezza. Io educo te tu educhi me. Se abbiamo chiaro l'obiettivo ci possiamo dare una mano insieme.

Primo: non nascondere o reprimere il proprio bisogno di ricevere dall'altro amore, stima, considerazione. Se lo reprimi ti illudi di amare... tanto verrà fuori mascherato in tanti altri modi. Meglio dirselo. Ma non farne nemmeno all'altro un peso, una condizione. Se lo dici, prima di tutto hai fatto un atto di onestà verso te stesso. Non sei un eroe. Sei come me e come tutti, anzi come Dio! Hai bisogno di ricevere amore. Se il Figlio non ricevesse amore dal Padre, nemmeno esisterebbe, anzi non esisterebbe Dio stesso!

Fare notare le mancanze di amore verso noi stessi (non sempre certo, ma neanche mai!). Con garbo, delicatezza. O come meglio vi riesce. Questo ovviamente con la persona, i fratelli o le sorelle con cui volete provare a vivere il vangelo che Paolo annuncia. Che è l'Evangelo di Cristo!

Nello stesso momento chiedersi se sappiamo avere verso l'altro le stesse attenzioni che desideriamo. Ma non è una cosa che possiamo fare da soli. Assolutamente no.

La reciprocità (l'amore) non si costruisce da soli: sarebbe una contraddizione in termini!

L'altro deve essere libero di dirmi cosa io non so fare, dove manco nell'amore, nell'attenzione. Una comunità, una coppia che si abitua a mandare giù rospi dalla mattina alla sera forse si sentirà eroica... ma non vivrà la comunione.. e prima o dopo esploderà. O imploderà.. le varianti sono diverse. Ma il risultato il medesimo: nessuna reciprocità, nessuna comunione.

Educarsi a questa reciprocità non è facile.

Ma se trovate qualcuno con cui potete fare questa esperienza benedite Dio con tutto voi stessi... sarete sulla strada verso il Paradiso. Anzi gusterete già su questa terra martirio e ricompensa, dolore e gioia, riso e pianto, croce e resurrezione.

Sì, perchè l'Amore è tutto questo. E ne vale la pena.
Un abbraccio a tutti.


Ancora su Zaccheo...

lunedì 5 novembre 2007 alle 21:50

Ancora a proposito di Zaccheo, riporto una bella testimonianza di Alessandro Pronzato:


Una domenica a Porto Azzurro, non precisamente a contempla­re il mare stupendo che accerchia l'isola d'Elba. Ero all'ergastolo, inguainato nei paramenti sacri, addossato a un altarino traballante, là dove si incrociano i vari bracci del carcere tetro.

Seicento uomini condannati a vita che ti fissano, tra il curioso e il diffidente. Loro si presentano così: «ci hanno fermato l'orolo­gio». Che tradotto suona: «ci hanno ucciso la speranza».

E’ arrivato il momento del Vangelo. Un'esperienza agghiaccian­te, che ricordo ancora come un incubo.

Mi sono ritrovato con un microfono sfrigolante davanti alla bocca. E le parole che stavano giù, a raspare in gola, e non si deci­devano proprio a venir fuori.

Cinque minuti di silenzio allucinante.

Loro mi scrutavano, stavano sul chi vive, quasi mi sfidavano. Certo mi prendevano le misure.

E io mi domandavo, angosciato, che cosa potevo dire, e se aves­si diritto di parlare.

Avrei voluto vederli quelli che, sulle riviste specializzate, teo­rizzano sull'attualizzazione del messaggio tenendo conto della situa­zione concreta degli ascoltatori. Avrei voluto vederli senza la penna in mano, e con quel microfono e soprattutto quelle facce davanti...

Sono stato salvato non dalle loro teorie, ma da Zaccheo. E’ stato lui a tirarmi fuori da quella situazione imbarazzante.

L'ho canonizzato immediatamente. Sì, per me è diventato san Zaccheo, protettore dei predicatori che, almeno qualche volta, pro­vano vergogna a parlare. Può bastare un miracolo. L'ha compiuto, per me, all'interno di un ergastolo. Tengo le prove.

Non so perché, ma l'immagine di quell'omino che si lasciava scivolare giù dal sicomoro, frutto maturato alla luce improvvisa di uno sguardo, mentre la gente si scansava per non essere colpita da quel proiettile umano, mi si è imposta perentoriamente, quasi con forza.

Zaccheo me ne aveva messo in bocca una diversa.

Mi fidavo di Zaccheo, del suo intervento provvidenziale.

Ho spiegato che la fede di Zaccheo è nata « dopo ».

Precedente c'è stata la fede del Cristo.

Il Cristo ha creduto in lui, quando gli altri ormai l'avevano giu­dicato e liquidato definitivamente come un poco di buono, uno da cui stare alla larga.

Ho parlato per tre quarti d'ora ‑ me l'hanno detto gli altri ‑senza mai perdere di vista la sagoma di Zaccheo.

E ho concluso: « Gli uomini vi hanno giudicato e condannato. Si sono liberati di voi. Molti dei vostri familiari (e sapevo a che cosa mi riferivo) non credono più in voi. Li avete delusi. Voi stessi avete smarrito chissà dove la fiducia, non credete più in voi stessi. Ebbene, ricordatevi ‑ e qui ho cominciato ad adoperare il «noi» ‑che qualunque cosa abbiamo fatto, per quanto grande e opprimente sia il peso delle nostre miserie, per quanto buio sia il nostro pas­sato, per quanto fallimentare sia stata la nostra vita finora, c'è Qualcuno che, nonostante tutto, continua ostinatamente a credere in noi e ad aspettarsi qualcosa di diverso da noi...

• Aver fede significa credere in Uno che crede in noi.

• Dobbiamo precipitarci, come Zaccheo, giù dall'albero delle rassegnazioni, dei rimorsi e delle paure, rispondere a una voce che ci chiama per nome, per rinfacciarci non le nostre malefatte ma le nostre possibilità ancora intatte ».

Alla fine, uno di loro, con la poesia nel sangue, ha sintetizzato la mia predica con un grido:

«Qualunque cosa Ti abbiamo fatto,
sia giorno anche per noi, o Signore!»

Uno sguardo... ed è subito primavera

domenica 4 novembre 2007 alle 09:51


In quel tempo, Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «E' andato ad alloggiare da un peccatore!».
Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,1-10).

Zaccheo. Un odioso esattore delle tasse.
Un uomo invasivo. Meglio non averci
nulla a che fare.
Un uomo irrecuperabile, già giudicato e condannato da tutti. Senza speranza.
E' il suo carattere, noi diciamo. E' fatto così... da lui non si può aspettare niente di diverso da quello che già sappiamo...

Il suo limiti, la sua bassa statura non gli facevano forse vedere altri che se stesso.
Ma il vero Zaccheo che nessuno conosce è lì, in attesa di uno sguardo di speranza che ancora non viene... e sembra non dover mai arrivare.

Gesù quel giorno passava da quelle parti. E un sussulto nel cuore aveva fatto uscire per un'attimo il vero Zaccheo allo scoperto, fuori da quella coltre opprimente cadutagli addosso per i suoi stessi sbagli e resa inamovibile da chi non era stato capace di dargli una mano a venirne fuori, ma l'aveva isolato come "elemento pericoloso" per sè e per gli altri.

C'è chi ancora credeva in lui. Gesù.
"Oggi devo fermarmi a casa tua, presto!".
Incredibile! Quanto vuota era rimasta la casa di Zaccheo, e per quanto tempo!
Sì aveva ricchezze di ogni tipo accumulate dentro, ma non avevano più il sapore di quella fresca brezza mattutina che sentiva da bambino sul volto, amato e sorridente per lo sguardo di chi lo amava.

Un sguardo capace di dare speranza, di rinnovare il cuore, di andare oltre la crosta dell'apparenza e della condanna.
Da quel giorno Zaccheo non fu più lo stesso e non sarebbe più stato inverno dentro il suo cuore e nei suoi occhi.


Lutto e speranza

venerdì 2 novembre 2007 alle 14:16

Separazione, morte, dolore dell’assenza.

Ricordare i nostri cari passati da questo mondo al Padre riapre forse antiche o recenti ferite.

Ed è ancora la ferita sempre sanguinante dell’assenza, della mancanza.

È’ un dolore che rende evidente che siamo creati per la comunione, per l’amore.

Vivere il lutto è non oltrepassare la soglia della disperazione, ma attendere in silenzio il compimento della Speranza.

Quando ogni lacrima sarà asciugata da ogni volto

E in Lui la pienezza di ogni attesa con ogni lancinante solitudine

sarà finalmente colmata dal calore dell’abbraccio eterno

Foto: il marito di Giovanna Reggiani il giorno del funerale. Lo abbiamo ricordato nella nostra preghiera comunitaria e chiediamo ancora per lui al Signore il suo Spirito di consolazione per questo momento dolorosissimo.


Solennità di Tutti i Santi

giovedì 1 novembre 2007 alle 14:08

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° novembre 2006

Il Santo Padre ha introdotto la Celebrazione e l'atto penitenziale con le seguenti parole:

Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell'amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.

Cari fratelli e sorelle,

la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l'esortazione "Rallegriamoci tutti nel Signore". La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.

Quest'oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di "madre dei santi, immagine della città superna" (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l'autore del libro dell'Apocalisse li descrive come "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Questo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l'impulso dell'eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo.

Ma "a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?". Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: "I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri" (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell'odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.

Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All'interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà. "Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (Cfr Gv 12, 24-25). L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, "sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (v. 14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.

La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell'uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). Nella seconda Lettura, l'apostolo Giovanni osserva: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.

Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all'annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5, 3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell'ago (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5, 48).

Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.

Benedetto XVI

 













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