Amore come libertà (III)

sabato 30 giugno 2007 alle 13:34

[...]

11. Non avvenuta elaborazione del fantasma dell’altro o dell’altra: quando una persona ha avuto un’esperienza affettiva, l’altro o l’altra gli si «colloca dentro». Non si può pensare di eliminarlo con facilità. «Siamo stati insieme sei, sette, otto anni...» e allora quello o quella non si può più cancellare con un colpo di spugna. Soltanto una persona poco avveduta si imbarca in una storia d’amore ferita da un simile passato; una persona intelligente ti dice: «Prima scacci il fantasma, cioè il ricordo dell’altra persona, poi ti do tutto me stesso». E bisogna sempre precisare che non esiste l’amore generico: noi parliamo di amore sponsale, non l’amore fra madre e figlio, fratello e sorella, no! L’amore sponsale è un’altra cosa.

12. Complesso di onnipotenza: è tipico dei maschietti che, vivendo in una cultura che ti dà tutto, sono persone non cresciute. E’ un atteggiamento di molti, anche se si tratta di spilungoni alti due metri e di trent’anni, che però hanno il cervello di un adolescente, perché credono di potere tutto.

13. Troppo lavoro: il maschietto soprattutto si aliena nell’opera delle sue mani. Quando le cose non funzionano si dà al lavoro; dopo succede puntualmente che questa persona si affloscia, perché le energie psichiche sono quelle che sono. Si possono spendere tante energie per un certo periodo di tempo, ma non può essere una costante.

14. Trauma da stato abbandonico: significa che le persone possono avere dei traumi. II bambino a tre mesi già riconosce il volto della mamma. Se la mamma muore, se è ospedalizzato o anche per altri motivi, cade in stato abbandonico. Questo conduce ad una fenomenologia che ho incontrato spesso: la persona porta dentro di sé il concetto che l’altro, prima o poi, l'abbandonerà, anche se è un fenomeno inconscio.

15. Bugie destabilizzanti: è tipico di una psicologia fragile. «Non gli ho detto questo perché poi... Ma dopo se lo scopre...».

16. Rapporto idolatrico: significa che tu dal partner ti aspetti che ti faccia da dio, che sia la sorgente della vita. Ma Dio è un’altra cosa.

17. Silenzio di copertura: certe aree della personalità fanno soffrire; la persona tende a rimuoverle e per questo evita a chiunque di entrare nel suo profondo. La situazione si sblocca solo con il dialogo, con l’apertura, con la confidenza reciproca.

18. Struttura nevrotica della personalità: cioè lui, lei o tutti e due sono rimasti bambini e fanno richieste bambine. È difficile intervenire, ma succede molto spesso.

19. Corporeità in stato reattivo: significa che, soprattutto nel mondo femminile, dopo un trauma, il corpo cambia di significato. Allora se ti do la mano, un gesto normale, umano, di comunicazione, quello che dovrebbe essere una manifestazione, un passaggio di amore, lo recepisci come un disagio, come qualcosa che dà fastidio.

20. Emozioni e sentimenti altalenanti per distanza della psiche dal corpo. Non realistica rappresentazione psichica della propria corporeità e distanza da essa. Si va cercando «l'isola della felicità» fuori del proprio corpo. Realtà del tutto inconscia. Rende incapaci di rapporti stabili e decisioni definitive.

21. IO debole – regredito – mistificato. Buona parte della nostra cultura è una macchina per rimbecillire le coscienze: gli atteggiamenti che si innescano per reazione ai forti condizionamenti sociali dipendono dal nostro stato e grado di percezione della realtà e solitamente conducono a tre tipologie di comportamento solo apparentemente diverse, il conformismo, l'adattamento, o la ribellione. Ma la vera «rivoluzione» si può ottenere soltanto assurgendo al livello della meta-comunicazione.

Comunque, IO debole:

ad opera del potere di persuasione di maghi, sette religiose, presunte possessioni diaboliche; per aver aderito a magia, occultismo, fatture; per la abituale assunzione di droghe o alcool; a causa di manipolatori della comunicazione e, in generale, tutto ciò che fa regredire…

22. Sceneggiata e drammatizzazione. Modalità adolescenziale di enfatizzare situazioni estreme per «godere» di forti emozioni.

23. Su questi nuclei di morte c’è sempre la potenza della Risurrezione di Gesù Cristo: tolto il cancro, e prima lo scopri e meglio è, le dinamiche funzionano, l’amore riprende. Certe volte nelle coppie ne trovi quattro o cinque...anche se per far morire una relazione ne basta uno! Recentemente ho incontrato una coppia; piangevano e dicevano: «Ma noi questi nuclei ce l’abbiamo tutti! Come facciamo?». «Non temete. Già prendere coscienza del bisogno di crescere è importante. Vedrete: Gesù Cristo è davvero potente». II mondo dei fidanzati è dove io opero per portare la salvezza di Gesù Cristo, perché il Vangelo possa penetrare il tessuto concreto delle esperienze vissute. E’ un servizio che dobbiamo rendere alle persone. Un criterio importante è quello che io ricordo ai giovani che incontro: «Sei consegnato in mano al tuo consiglio, che è l’intelligenza che il Signore ti ha dato: occorre farla funzionare. Sei consegnato in mano alla fede, al buon Dio che ti ha messo a disposizione tutto ciò che serve per vivere, per vivere l'amore e per vivere la vita». Vorrei invitare le giovani coppie al nostro Corso per fidanzati, che teniamo alla Porziuncola: regalatevi 12 ore al giorno di ascolto. Le persone che aderiscono trovano vita, capiscono perché Dio interviene, scoprono il senso di tutto quello che accade dentro e intorno a loro.

Per realizzare un simile progetto ci vuole un annuncio forte, un annuncio autorevole: il Vangelo che viene sminuzzato perché possa calare dentro il cuore delle persone. Ed è sempre un’esplosione di vita! Io non mi accontento di vedere due persone che stanno insieme: voglio vedere il fulgore d’amore, un alone di bellezza. La mia esigenza è che la coppia risplenda, perché deve testimoniare agli altri un’esperienza di risurrezione. Deve dare testimonianza, deve inventarsi un modo per essere lievito nella sua parrocchia; deve ripartire con più slancio. La cosa più bella è ripartire nello stile di san Francesco che è quanto di più alto e più sublime possa esistere; perché Francesco ha riformato la Chiesa facendola lievitare dal di dentro con uno stile insuperabile. Non c’è al mondo uomo più umile, più delicato, più concreto capace di indirizzare le persone a camminare verso la conquista del loro bene.

p. G. Marini

Amore come libertà (II)

venerdì 29 giugno 2007 alle 13:46

[...]

Nella mia esperienza, accumulata in anni e anni di lavoro, ho individuato una ventina di nuclei di morte, che si strutturano nel momento in cui un ragazzo e una ragazza si relazionano in una dinamica di coppia: nuclei di morte, cioè realtà che operano un po’ come il cancro, che ti fanno credere che l’amore sta producendo vita, mentre in realtà ti conduce alla morte.

Ecco la mia sintesi:

1. Quando un rapporto non è paritario, là si struttura una dinamica di morte: proprio ieri un ragazzo mi parlava: «La mia ragazza mi dice sempre ’si’ (con tono accondiscendente)... Non la sopporto più». È il rapporto simbiotico: una persona si annulla nell’altra. Invece il Padre Eterno ci ha fatti differenziati, maschio e femmina, anche esternamente... Una volta ho perso cinque minuti per capire se la persona che avevo davanti era maschio o femmina! La cultura tende alla massificazione. Invece, di fronte ad una stessa realtà, maschio e femmina devono avere due reazioni diverse. Per cui quando i giovani affermano «si sono divisi per incompatibilità di carattere», mi faccio una grande risata.

2. Un altro nucleo di morte: la non avvenuta desatellizzazione. Ogni figlio nasce dentro alla dinamica dei genitori; dove si vive come satelliti. A un figlio di vent’anni, molti dicono: «Trovati di che guadagnarti la vita». Invece la cultura odierna dice tutto il contrario: «stai buono figlio mio, coccolato da mammina tua; l’amore è all’ultimo posto: studia, fai questo, fai quello...». State attenti, la non avvenuta desatellizzazione è una piaga sociale! L’ottanta per cento dei giovani stanno a casa, coccolati dai genitori e rischiano di non diventare mai uomini maturi.

3. Egoismo di coppia: può capitare che un ragazzo e una ragazza, una volta che si sono messi insieme, scelgano di tagliare le relazioni con tutte le altre persone. Ho verificato che questo è un tipo di amore che rischia di finire male.

4. Rapporti sessuali prematrimoniali: che lotta, in questo tipo di società! Però quanto è bello, i giovani me lo dicono, non avere rapporti prima del matrimonio! Dice Freud: «II destino della sessualità è l’amore». E qui ce ne vuole... Una volta mi trovavo in una città, tutta la gente della parrocchia ad un certo punto ha cominciato a mugugnare; si è alzato uno e a nome di tutti mi ha contestato. Non ho modificato una virgola del mio pensiero: «Non vengo a dire questo perché sia approvato o non approvato. E’ così: se lo accogli, bene; altrimenti la vita ti presenterà il conto. Perché Dio perdona sempre; gli uomini qualche volta; ma ciò che non perdona sono le leggi fisiologiche, sociali, psicologiche e morali: quelle non perdonano».

5. Comunicazione contraddittoria a doppio legame. Noi generalmente comunichiamo a due livelli: con il corpo invio una comunicazione e con le labbra un altro. Mi trovavo a Torino con quattrocento giovani: avevo detto questo principio e c’era anche una coppia che si doveva sposare. L’anno seguente, quando sono in quella città, sono stato invitato da quella coppia che nel frattempo si era unita in matrimonio. II marito mi dice: «Padre Giovanni, l’anno scorso avevo sentito le tue parole e sono diventate il parametro di tutto il mio relazionarmi con mia moglie. Quando ritorno a casa la sera, mi metto davanti a lei e le dico: ‘Adesso vediamo quante volte ti ho detto una cosa e poi con altri gesti, con altre parole te l’ho contraddetta’».

6. Non conoscenza di sé / non amore a sé: quanta fatica! Nessuno ama se stesso. Perché viviamo in un mondo che dice: «Ho visto una bella ragazza, un bel ragazzo, però quelle gambe, però quel naso... però...». Ciò che conta è recuperare l'unicità del proprio essere e per fare questo ci vogliono ore e ore di contemplazione. Quando avviene questo recupero davanti a sé allora si può esigerlo davanti all’altro. Prima di tutto devi spogliarti di ogni giudizio che porti dentro e dopo devi contemplare l’altro. Se hai questa forza ad un certo punto scopri lo splendore, l’incanto, la bellezza, l'unicità dell’essere! Chi sono? Prima di tutto un corpo: un corpo che è un incanto di per sé. Non godere di questo corpo, questo è il peccato. Non entusiasmarsi, questo è il peccato. Piero Angela ha fatto poco tempo fa una bellissima trasmissione sulla vita. Con lui c’erano degli esperti e alcune donne che si trovavano nei vari mesi di gravidanza. Angela, di fronte allo stupore di quelle immagini, mostrava come dei sussulti di entusiasmo; gli altri apparivano invece freddi e distaccati. Questo è il danno: non essere entusiasti di sé, non godere, non infiammarsi, non dare lode a Dio. Nessuno ama se stesso e il primo segno che la persona non si ama è l’impatto negativo col cibo.

7. L’amore sponsale legato a quello materno e paterno: è la trappola di tutte le donne. Nasce il dinamismo dell’amore e poi, oltre che moglie, gli faccio anche da madre. E pensare che questo atteggiamento viene percepito come un grande amore! Invece è destinato a morire: non c’è bisogno di un profeta, quello muore. È una trappola terribile!

8. Donne che amano troppo: è il titolo di un libro, però esprime bene una dinamica che si realizza quando una persona viene da una storia familiare dove tutto è stato ur1a, strilli, perché il padre tornava ubriaco, perché picchiava... Una ragazza vissuta dentro a una famiglia di questo tipo rischia di non accontentarsi mai dell’amore ricevuto.

9. Non precisata identità sessuale: succede certe volte che nello sviluppo della libido, non giunge a maturazione la fase autoerotica, omoerotica, eteroerotica. Psichicamente regredite, fissate alla fase omoerotica dello sviluppo della libido, certe persone fisiologicamente funzionano come maschio o come femmina. E’ il mondo psichico, però, che è regredito, e perciò provano più gioia a stare con persone del loro stesso sesso che a stare con una persona dell’altro sesso. «Sì mi sposo, funziona, però il mondo sono gli amici!». È il bar, andare a caccia, a giocare... La gioia di quella persona rimane bloccata a questo livello.

10. Consacrazione come rifugio o fuga nel religioso: è una dinamica molto particolare. Alcune persone, trovando ad un certo momento molte difficoltà nella dinamica di coppia, dicono «Mi sa che mi faccio prete... mi sa che mi faccio suora... mi sa che mi faccio frate». Conosco decine di persone che sono arrivate ad Assisi con la fidanzata e dopo anni di cammino si sono consacrati al Signore. Ma c’è stato un punto chiaro e preciso: se Dio chiama su un’altra strada, si verifica che la dinamica di coppia va comunque ottimamente, anzi, a gonfie vele. Se questo non avviene, il rischio è che si stia realizzando una fuga nel religioso che uccide la dinamica dell’amore.

[... continua]

p. Giovanni Marini

Amore come libertà (I)

mercoledì 27 giugno 2007 alle 10:46

Credo che non possa capitare niente di più bello che dedicare tempo, energie, ricerche, studio, preghiera per cercare di far fiorire l’amore perché poi fiorisca la vita. L’amore: quando si relazionano un ragazzo e una ragazza, è come vedere la Trinità in azione, visibile e toccabile. È un fatto bellissimo, anche faticoso, perché alcune volte le situazioni si presentano in maniera tale che è come una provocazione che il Signore fa.

In una pagina della Bibbia (Ez 37) si presenta una realtà di ossa aride e il Signore mette in atto una provocazione: «Figlio dell’uomo, possono rivivere queste ossa?», «Mah, non lo so» e il Signore dice: «Profetizza!». Le ossa si rimettono insieme e poi dopo... la vita! È l’esperienza che faccio tutti i giorni: ore e ore della giornata ad ascoltare persone che presentano i loro problemi, principalmente giovani che vogliono vivere l’avventura dell'amore. Certe situazioni sono cosi estreme che rimani col fiato sospeso! Possono rivivere queste ossa? Signore, tu lo sai; e subito l’intervento di Dio fa calare la sua forza su queste ossa aride. Però, dentro una situazione totalmente nuova che ti si presenta, ti chiedi: «E adesso quale Parola di Dio ricerco? Dove vado a trovare una Parola per queste persone? Come faccio a tradurre il messaggio del buon Dio, che nella rivelazione ha messo la salvezza a disposizione di tutti gli uomini? Qual è la Parola adeguata, quella giusta per questa coppia, per questi problemi, per la loro esperienza vissuta, per le ferite che portano?».

Generalmente occorre, prima di far calare la parola, un altro tipo d'intervento, quello di Giovanni Battista che abbassa i monti e innalza le valli: è necessario bonificare l’area della personalità. Poi la Parola di Dio cala e subito si vede quanto è grande e quanto è potente il Signore, quanto è unico, quanto è originale e quanto è forte la potenza della sua Risurrezione. Che gioia, da situazioni estreme, a situazioni risorte! Le persone generalmente ti dicono: «Ma io sono qui come Lazzaro, una persona sprofondata dentro una tomba, io puzzo a me stesso...», »Vieni fuori!». Perché la nostra non è tanto l’opera dello psicologo, ma è l’intervento di una persona che opera sulla potenza della Risurrezione di Gesù Cristo, tenendo presente tutto quello che le scienze umane ci mettono a disposizione, ma collocandoci ad un altro livello. È bellissimo, fratelli, servire l’amore e servire la vita; è bellissimo avere nel cuore la certezza che non ci sono situazioni umane disperate, tali che la potenza della Risurrezione di Gesù Cristo non possa risolvere. Generalmente il nostro tentativo è sempre questo. Non basta dare buoni consigli.

Volete andare dallo psicologo? Andate: davanti ai miei colleghi mi tolgo tanto di cappello per tutto il bene che fanno, per tutta la preparazione che realizzano affinché la potenza di Gesù Cristo cada su un terreno buono. Noi, però, ci collochiamo ad un altro livello, in situazioni estreme, dove l’unico tentativo possibile è sempre quello di cantare la potenza della Risurrezione di Cristo.

La mia esperienza di anni e anni, di ore e ore di ascolto, la chiamo la «mia università». I giovani mi aggiornano continuamente su quello che accade: sul linguaggio, sulle dinamiche familiari, su ciò che accade nell’ambito della scuola, del lavoro, della società, della cultura... E bisogna ascoltare un paio d'ore per poter parlare dieci minuti. Tutto questo insieme, mi ha donato una grande esperienza che ho trovato utile per fare questa operazione, cioè di portare dalla morte alla vita.

Nello specifico di una famiglia, occorre capire che il suo destino è determinato da quello che accade nel fidanzamento. Alcune volte i giovani fidanzati mi raccontano una storia di stress e non una storia d’amore: si sono talmente violentati l’un l’altro che quello che mi raccontano non è una storia d’amore. Una storia d’amore è la gioia, la felicita, è la vita. Siete stati tanti anni insieme, ma siete stati «amiconi» e l’amore non l’avete assaporato, perché l’amore è una realtà di un coinvolgimento totale.

Le persone ti raccontano le loro difficoltà: raccontano innanzi tutto il fenomeno, quello che succede... lei è cosi, lui è cosi, si comporta in questo modo...: ma questa è solo la superficie. Ci vuole un’altra chiave di lettura, imparando a cogliere quali sono le aree veramente essenziali, quelle che fanno scricchiolare una dinamica sponsale. Poi si devono individuare quali interventi sono stati già fatti. Se questi non hanno dato buoni risultati, è segno che quella strada non la si deve seguire. La prima cosa è chiedere: «Che cosa ti hanno detto? Che interventi sono stati fatti su questa tua situazione?», e quelli ti raccontano: questo è l’intervento che ha fatto il prete, questo lo psicologo, questo la mamma, il parente, l’amico... Piano piano cerco di aiutarli. Perché questi giovani devono essere serviti!

[... continua]

P. Giovanni Marini

Giovanni è il suo nome

domenica 24 giugno 2007 alle 17:38

Dai "Discorsi" di sant'Agostino, vescovo

La Chiesa festeggia la natività di Giovanni, attribuendole un particolare carattere sacro. Di nessun santo, infatti, noi celebriamo solennemente il giorno natalizio; celebriamo invece quello di Giovanni e quello di Cristo. Giovanni però nasce da una donna avanzata in età e già sfiorita. Cristo nasce da una giovinetta vergine. Il padre non presta fede all'annunzio sulla nascita futura di Giovanni e diventa muto. La Vergine crede che Cristo nascerà da lei e lo concepisce nella fede.
Sembra che Giovanni sia posto come un confine fra due Testamenti, l'Antico e il Nuovo. Infatti che egli sia, in certo qual modo, un limite lo dichiara lo stesso Signore quando afferma: "La Legge e i Profeti fino a Giovanni" (Lc 16, 16). Rappresenta dunque in sé la parte dell'Antico e l'annunzio del Nuovo. Infatti, per quanto riguarda l'Antico, nasce da due vecchi. Per quanto riguarda il Nuovo, viene proclamato profeta già nel grembo della madre. Prima ancora di nascere, Giovanni esultò nel seno della madre all'arrivo di Maria. Già da allora aveva avuto la nomina, prima di venire alla luce. Viene indicato già di chi sarà precursore, prima ancora di essere da lui visto. Questi sono fatti divini che sorpassano i limiti della pochezza umana. Infine nasce, riceve il nome, si scioglie la lingua del padre. Basta riferire l'accaduto per spiegare l'immagine della realtà.
Zaccaria tace e perde la voce fino alla nascita di Giovanni, precursore del Signore, e solo allora riaquista la parola. Che cosa significa il silenzio di Zaccaria se non la profezia non ben definita, e prima della predicazione di Cristo ancora oscura? Si fa manifesta alla sua venuta. Diventa chiara quando sta per arrivare il preannunziato. Il dischiudersi della favella di Zaccaria alla nascita di Giovanni é lo stesso che lo scindersi del velo nella passione di Cristo. Se Giovanni avesse annunziato se stesso non avrebbe aperto la bocca a Zaccaria. Si scioglie la lingua perché nasce la voce. Infatti a Giovanni, che preannunziava il Signore, fu chiesto: "Chi sei tu?" (Gv 1, 19). E rispose: "Io sono voce di uno che grida nel deserto" (Gv 1, 23). Voce é Giovanni, mentre del Signore si dice: "In principio era il Verbo" (Gv 1, 1). Giovanni é voce per un pò di tempo; Cristo invece é l Verbo eterno fin dal principio. (Disc. 293, 1-3; PL 38, 1327-1328).

Il lutto (III): che senso ha il mio dolore?

sabato 23 giugno 2007 alle 11:30
[...]

POSSIAMO RIMANERE UNITI
NELLA COMUNIONE DELLE ANIME


Quando un uomo comprende
tutto ciò, il resto della sua vita non è altro che un di più di grazia pur nella fatica dell’esistenza.
Che gioia poter pensare che c’è un Padre a cui affidarsi per sempre,
che ci insegna la tenerezza!
So che la vita di ognuno è un percorso a ritroso per ritornare all’Origine di noi stessi, e la morte è il passo che ci incute più paura.

Morte come fine, morte come separazione definitiva o morte come cambiamento?
Come parlare di una cosa che non conosciamo?

Sappiamo solo che c’è Qualcuno che ha vinto la morte con la resurrezione.
La morte è un cambiamento di presenza: Quante volte ci siamo dette che papà era con voi a scuola o nelle situazioni più particolari della vostra vita!

Da questa prospettiva anche la separazione più dolorosa può rimanere unità nella comunione delle anime.

Non sto negando il dolore che abbiamo provato, il suo ricordo ci accompagnerà per tutta la vita, ma gli sto dando un senso.
Sarebbe da pazzi soffrire senza senso. Molta gente perde la coscienza, offusca la mente e il cuore a causa di un dolore al quale non ha saputo dare una spiegazione logica, ma cercava nella direzione sbagliata.
In effetti, una spiegazione “logica” per molti avvenimenti non esiste.
C’è solo la dura realtà dei fatti.

Il dolore scatena una forza immensa. Il dolore esiste, dobbiamo solo decidere come usarne l”energia”. Una volta trovata la strada da percorrere non ci sentiremo più angosciati e soli.

Nostro Signore non ci lascia mai soli!

Perciò non abbiate paura, si mostrerà attraverso i volti di chi vi ama.
Molti pensano che noi cristiani amiamo soffrire.

Non è assolutamente vero.

In realtà noi cristiani “accettiamo” di passare attraverso il dolore perché esso non è l’ultima parola sulla vita e perché anche attraverso questa strada possiamo intuire quale sia la vera felicità. Molti lo rimuovono come una cosa che non esiste.

In una casa non si può nascondere la polvere sotto i tappeti in eterno, alla fine ci soffocherà.
La si raccoglie con cura perché la casa rimanga bella.

Se la polvere è entrata significa che le finestre erano aperte e insieme al turbinio del vento è entrato anche il Sole.

Lasciamo che il sole arrivi e asciughi il nostro grande albero grondante d’acqua, così che esso, senza fretta, possa dare meravigliosi frutti.


La mamma


Il lutto (II): che senso ha il mio dolore?

mercoledì 20 giugno 2007 alle 23:39
[...] Niente della mia vita avrebbe senso, senza la convinzione che Nostro Signore può prendere su di sé anche il più terribile dei dolori per accompagnarci verso la felicità.

In quel “rumoroso silenzio” fatto di parole pensate, percepite, ma non pronunciate, ho colto nel profondo dell’anima l’indescrivibile sensazione di pienezza che cerco da sempre.


Ho colto quell’amore infinito, a “tutto tondo”, capace di contenere anche la più piccola sfumatura della vita, così da farci sembrare gli altri amori sempre troppo piccoli.


«IN VOI RITROVO I SUOI OCCHI:
SIETE LA SUA MEMORIA NEL TEMPO»


Di sicuro vi sarete chieste mille volte, nel momento in cui la nostalgia prevarica sugli altri sentimenti, che cosa vi possa aver lasciato vostro padre o come sarebbe stata la vostra vita insieme a lui.

Come sarebbe stata la vita con lui si può solo immaginare.

Posso dirvi con certezza che a me ha lasciato una parte di sé che vive in voi che siete la sua memoria nel tempo.

In voi io ritrovo i suoi occhi, il sorriso, il suo modo tutto speciale di camminare, la tenacia, il carattere, addirittura i gusti.

Di un’altra cosa non meno importante sono certa:
quando una persona muore non lascia nulla di sé che sia veramente importante, se non “l’amore che ha dato” e non porta con sé nulla se non l’amore.

Di questo non vi dovreste mai dimenticare.

Pensate per un attimo di potervi specchiare negli occhi di chi amate dicendogli:

«Ti porto nel cuore come il bene più prezioso. Sei il pensiero che accompagna le ore della mia giornata. Nulla ci separa, né la morte, né lo spazio né il tempo. Vorrei poterti dire... per sempre!».

C’è un unico fine, o se vogliamo lo potremmo chiamare desiderio, nella vita. Amare ed essere amati. Per esso vale anche la pena soffrire. Una volta raggiunto ciò per cui siamo fatti il cuore trova la pace e porta alla luce la bellezza e la ricchezza intima e segreta con Lui e con chi amiamo. Da soli non riusciremmo ad aprirla perché possediamo solo una chiave e ne servono due.

Questo è uno dei momenti più sublimi dell’esistenza, perché ci è dato di entrare in sintonia con tutto il creato.

Come se avessimo trovato il “nostro posto”, è come se ci si riempisse la vita di una nuova vita.

Abbiamo tra le mani un amore umano che si sente appagato solo tra le braccia di Dio e un amore divino che esprime tutta la sua perfezione attraverso la fragilità delle sue creature.

Siamo “vittime” di un abbraccio che una volta incontrato non si fa dimenticare.

[... continua]


Il lutto (I): che senso ha il mio dolore?

martedì 19 giugno 2007 alle 23:15
Proprio in questi giorni mi tornavano in mente alcune frasi che aveve letto su una rivista che mi chiedevo che fine avesse fatto... magicamente è saltata fuori da chissà dove a distanza di pochissimo, e ciò mi dà accasione di condividere qualche altro pensiero.


Si tratta di una lettera indirizzata alle tre figlie, una sorta di “eredità spirituale”: è questo che Cosetta Zanotti, giovane autrice bresciana, affida alle pagine di “Noi Genitori & Figli”.
Quella che segue è una delicata riflessione sul significato della vita, sul dolore provocato da un grave lutto
- la morte prematura del marito - e sulla ricerca di senso che ne deriva.


Una scrittrice rimasta vedova dialoga con le sue bambine:

accettiamo la sofferenza, essa non è l’ultima parola sulla vita



di Cosetta Zanotti


Carissime Laura, Andrea Grazia e Giulia, inizio questa lettera con un po’ di timore. È la mia riflessione sulla vita. Credetemi, non è semplice esprimere sentimenti e sensazioni che custodiamo nella parte più intima del cuore. Vorrei che leggeste queste righe con l’entusiasmo di chi sta per partire per un lungo viaggio, un viaggio nell’animo di un’altra persona per raccoglierne la memoria, perché tutto ciò che è accaduto e sta accadendo, non può perdersi... Vorrei che “mettesse radici in voi”. Questa è l’eredità che mi piacerebbe lasciare.

Ho deciso di scrivere prima di tutto per me stessa, perché ho bisogno di scaricare il peso di certi pensieri che sono ormai il mio e, di riflesso, se pur inconsapevolmente, anche il vostro pane quotidiano: lo intuisco dai vostri occhi. Ho la sensazione di essere come un grande albero grondante d’acqua dopo un copioso temporale che sente su di sé tutto il peso delle foglie e dei rami bagnati. Si sente quasi schiacciare e non aspetta altro che il sole per asciugarsi. Lui arriva sempre, come la Grazia di Dio, ma l’attesa a volte sembra non avere mai fine.


I vostri sguardi mi interrogano più di mille parole e forse vi chiederete perché non sia in grado di darvi una risposta. Una risposta capace di esaurire il mare di domande che affolla la vostra mente di bambine. Mi auguro che queste righe in un prossimo futuro possano esservi d’aiuto.


HO AVUTO LA SENSAZIONE

CHE PAPÁ FOSSE ANCORA CON NOI.


Oggi siamo andate al cimitero a trovare vostro padre. La giornata era splendida e c’era un silenzio inspiegabile.


Ho avuto la netta sensazione che papà fosse li con noi.

Che in quel momento non fossimo di fronte alla sua tomba, ma fossimo in sua compagnia. Mano a mano cresceva lo sgomento. Ho provato un dolore indicibile, accompagnato però da una gioia immensa. Era come se una voce mi dicesse: «Ci sono, sono sempre con te».


Se avessi potuto fermare il tempo in quel momento l’avrei fatto. Non ho saputo trattenere le lacrime e per mascherare un certo imbarazzo mi sono chinata verso Giulia che giocherellava con i sassi. Vi osservavo. Eravate occupate ad accarezzare la sua foto e poi il crocifisso, a curare i fiori e a raccogliere i sassolini lì a fianco.
M
i sono chiesta se la percezione, così netta, di quella presenza fosse uno scherzo della mente. Potrei ipotizzare che, anche se per pochi istanti, l’immaginazione possa aver avuto il sopravvento sulla ragione, ma non credo sia stato così. Penso piuttosto che la fede sia più “dentro” la realtà di quanto non immaginiamo.
Esiste una dimensione dell’amore che non ha confini né di spazio né di tempo e in quel momento l’ho attraversata. E stato come una vertigine quest’incontro. Così intimo, da farmi credere di essere a metà tra la terra e il cielo.





[... continua]


Entra in scena una donna "leggera"

domenica 17 giugno 2007 alle 14:35

Ed ecco una donna, una peccatrice... venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio pro­fumato. (Luca 7, 36 ‑ 8, 3)

Nella casa di una persona tanto perbene come Simone fariseo, che ha invitato a pranzo Gesù, si introduce all'improvviso una donna.

E’ un'intrusa. La sua presenza non è contemplata nella lista de­gli ospiti. La sua comparsa nella casa di un uomo onesto e reli­gioso ha tutta l'aria di una provocazione. Che sfrontatezza.

Non viene riferito il suo nome. Sappiamo solo il mestiere, che non è certo qualificante. «Una peccatrice di quella città...»

La conoscono tutti. Una donna leggera. Insomma, «una di quelle».

La disprezzano. Ma se ne servono.

Anche i « virtuosi » hanno bisogno di lei, per potersi sentire buoni, per poter dire: «Io non sono sceso in basso come costei».

Ma pure lei conosce gli uomini. Forse meglio degli interessati stessi.

E conosce perfino le donne, attraverso i mariti...

Conosce il marcio di una certa società all'apparenza inappun­tabile.

Conosce le persone «irreprensibili». Quelle che si cospargono di onestà quasi fosse una crema per la pelle. Ma lei sa che sotto la vernice di perbenismo, di moralità, di religione, c'è tutto il resto. No, lei non si lascia impressionare dai lustrini, né dai biglietti da visita.

Gli altri sono costretti a recitare, mettersi la maschera.

Lei ha almeno il merito di portare in giro la propria faccia vera. Non troppo pulita, ma sua.

E, nel profondo, conserva probabilmente un segreto che difende gelosamente.

Un'esistenza sgangherata. Ma, in un angolo, protetto ostinata­mente contro le delusioni in serie e le esperienze più degradanti, c'è un ritaglio di speranza. Speranza di trovare qualcuno che non la consideri soltanto oggetto di piacere. Speranza di poter offrire il proprio cuore, oltre che il corpo. Speranza di ricominciare tutto da capo. Speranza di essere finalmente capita.

Ognuno prega alla propria maniera. La preghiera della pecca­trice, qui, è fatta di silenzio, scandita dalle lacrime. La sua liturgia, intessuta di tenerezza, si serve, quali oggetti sacri, di un vaso colmo di unguento e dei propri capelli. Le cerimonie le inventa lei.

Probabilmente aveva già visto Gesù, l'aveva ascoltato, ne era rimasta sconvolta. Lui le aveva, forse, scoccato uno sguardo di rim­provero e di fiducia. Le aveva afferrato, con mano sicura, quel rita­glio occultato nell'unico angolo «pulito». E da allora era avvenuto il capovolgimento. Agli occhi degli uomini rimaneva una peccatrice. Ma «dentro» era cambiata. Si sentiva, ormai, «come abitata da quell'uomo» (E. Chalet).

Adesso veniva a ringraziare.

I suoi gesti hanno la spontaneità e la sicurezza di una donna che si sente amata.

« A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe... che specie di donna è colei che lo tocca...»

Non ha il coraggio di esprimere ad alta voce la propria opi­nione. Si limita a borbottare « tra sé ».

Dimmi che cosa pensi degli altri e ti dirò chi sei.

Certa gente possiede un'unica coerenza: quella tra i propri pen­sieri nei confronti degli altri e le proprie azioni.

Si pensa male perché si agisce male.

Il «pensar male» a riguardo degli altri è il marchio garantito della nostra capacità a compiere quelle stesse azioni.

Dostoevskij notava che se i pensieri degli uomini avessero un odore, si sprigionerebbe nel mondo un puzzo insopportabile e tutti ne moriremmo appestati.

Il Cristo non soltanto coglieva il puzzo di certi pensieri, ma li leggeva ad alta voce, come in un libro aperto.

‑ Simone, ho una cosa da dirti..

E il fariseo subisce l'umiliazione di vedersi colto in «flagrante delitto di pensiero» e di sentirsi impartire una dettagliata lezione di belle maniere.

Quasi non bastasse, ecco anche la mortificazione di vedersi proporre come esempio (e rimprovero) il comportamento di quella prostituta!

‑ Simone, ho una cosa da dirti...

Tu, praticante, osservante, tu che ti senti a posto e giudichi gli altri. Bada che non hai capito niente. Impara da lei.

Impara ad amare, e proverai la gioia di essere perdonato.

«I suoi molti peccati le sono perdonati, poiché ha molto amato».

A te, invece, «si perdona poco» per il semplice motivo che non ti riconosci peccatore, ti ritieni giusto.

La donna adesso se ne va.

Tutti la ritenevano una donna leggera.

Ma soltanto adesso lei si sente veramente leggera.

Le è stato restituito un cuore nuovo, intatto e fresco come quello di un bambino.

Ora può cominciare ad amare per davvero perché si sente amata.

E il fariseo, che probabilmente aveva invitato Gesù per studiarlo da vicino, se vuol sapere qualcosa sul conto del Maestro, dovrà rivolgersi per informazioni a questa donna.

E, con lui, tutte le persone «virtuose» del mondo.


A. Pronzato


Dov'è il tuo tesoro?

venerdì 15 giugno 2007 alle 08:24


Tutto ciò che ci appaga o crediamo che ci appaghi, finiamo per amarlo e, quando riteniamo di aver trovato il bene migliore, quello diventa il nostro tesoro, che si annida poi nelle profondità del nostro spirito, ma quante illusioni, quante delusioni! Quanti falsi tesori che si dissolvono in un batter d'occhio e tramutano il momentaneo godimento in amara tristezza. Il Signore conosce bene questa umana eventualità e per questo ci ammonisce a non accumulare falsi tesori sulla terra. "Quae sursun sunt sapite"- dice S. Paolo. "cercate (gustate) le cose di lassù", eleviamo cioè il nostro spirito verso i beni che non periscono, che durano oltre il tempo e non riguardano solo il nostro corpo e le vicende che viviamo su questa terra, ma rimangono sempre integri e diventano fonte di felicità eterna. L'uomo d'oggi è spesso prostrato, avvinto e disorientato dai beni di consumo, che vengono proposti con la migliore seduzione pubblicitaria come motivi di benessere e di felicità. Occorre saggezza e divina sapienza per sapersi difendere da questi continui assalti. L'ultima parte del vangelo di oggi ci parla della vera purezza dell'anima, parla dell'occhio che ne è lo specchio. O siamo illuminati dallo Spirito e di conseguenza tutto vediamo nella sua luce, o il nostro sguardo diventa tenebroso, cioè sempre orientato verso il buio e il male con tutte le sue brutture.

Fonte: Monaci Silvestrini

La messa comincia dalla fine

domenica 10 giugno 2007 alle 02:00

Prese i cinque pani e i due pesci e, levàti gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. (Lc 9, 11‑17)

Di A. Pronzato:


Mi impressiona sempre il dialogo che precede il miracolo della moltiplicazione dei pani.

‑ Congeda la folla ‑ suggeriscono i discepoli.

‑ Dategli voi stessi da mangiare ‑ impone perentoriamente Cristo.

Qui viene espresso il nostro istinto, che affiora regolarmente, di sottrarci agli impegni più gravosi dietro l'alibi dell'impossibilità, della sproporzione (« non abbiamo che cinque pani e due pesci » per cinquemila persone!) e l'imperativo di Cristo che ci fa carico della fame altrui.

Il teologo domenicano padre Congar usa una formula assai ef­ficace: « Ogni cristiano, spirítualmente parlando, ha famiglia a carico ». Una famiglia a dimensione del mondo.

Il cristiano, questo responsabile di tutto e di tutti.

Tale responsabilità trova la sua investitura ufficiale nell'Eu­carestia.

Ricevere l'Eucarestia non significa soltanto ricevere il corpo di Cristo. Si tratta di ricevere il sacramento degli uominí, le loro at­tese, le loro esigenze, i loro problemi, i loro drammi.

Non basta comunicare con Lui Bisogna comunicare con mondo.

Non è sufficiente « fare la comunione ». Occorre « fare comu­nione » con i fratelli, ossia realizzare l'unità, essere operatori di pace e di concordia.

Nella festa di oggi l'Eucarestia cessa per una volta di essere il sacramento del nascondimento, per essere esposta, manifestata. Il corpo di Cristo viene portato in processione. « Esce » per le strade.

La processione ha un duplice significato.

Sta a simboleggiare la nostra condizione di « itineranti », pelle­grini, creature che « non hanno quaggiù una stabile dimora », ma sono in cammino verso la vera patria. In questo cammino l'Euca­restia diventa il pane che sostiene, dà forza. Qualcosa di vitale, in­dispensabile.

Ma la processione si snoda attraverso le vie, in mezzo alle case, alle piazze. Ossia, Cristo passa là dove l'uomo abita, vive, lavora, ama, soffre, spera. E viene in tal modo sottolineato il nesso che esi­ste tra Eucarestia e vita.

I drappi, i fiori, le luci, gli addobbi, i colori, sono simboli di ciò che deve avvenire quando una comunità cristiana si nutre del « pa­ne di vita »: la realtà viene trasformata. Le « solite cose » non sono più le stesse: sono toccate da una forza di amore che le cambia dal­l’interno, le fa splendere, dà loro un significato.

L'Eucarestia, ossia tutto viene cambiato radicalmente.

Eucarestia non è « stare » con Cristo in un rapporto intimisti­co. Significa « uscire » con Lui per le strade, inserirsi nell'avventura degli uomini.

Non basta credere alla « presenza reale ». Occorre assicurare la presenza reale di Cristo nel mondo attraverso la nostra testimonianza, il nostro impegno a soddisfare la fame degli uomini.

Al termine della Messa, il prete ci congeda con la formula­« La Messa è finita: andate in pace! »

Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita. Non finisce mai.

Questo, infatti, è un inizio. Non una conclusione.

Si tratta, senza dubbio, del momento più difficile della Messa.

Si va, non perché è finito qualcosa, ma perché sta per comin­ciare qualcosa.

Il congedo non vuol dire: « Bravo avete fatto il vostro dovere di cristiani esemplari, potete andarvene tranquilli », ma: « E’ ve­nuto il vostro momento. Adesso tocca a voi ».

Quindi, non segnale di riposo, ma segnale di mobilitazione.

Non « missione compiuta, ma « partenza per una missione de­licata ».

Vedo, talvolta, qualcuno che «esce» dalla Messa con l’aria sod­disfatta di chi ha fatto il proprio dovere. Qualcosa come: « Per og­gi questa faccenda è sistemata, questa pratica è sbrigata ».

No. Celebrare l'Eucarestia significa assumersi un impegno che viene assolto « dopo », lungo la giornata.

Significa continuare.
Significa agganciarsi alla vita quotidiana.
La Messa finisce come azione liturgica e comincia come celebra­zione della vita.
Finisce il rito e ha inizio il gesto vitale.
Ci si alza da Mensa e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.
Insomma: si porta fuori ciò che si è ricevuto.

Si porta fuori ciò che siamo diventati.

Nella cappella di un monastero svizzero nei Grigioni è stata realizzata proprio quest'idea della « continuitá » della Messa. Dal massiccio altare partono fasci di raggi. Una specie di torrente che precipita sul pavimento, si allarga, sbocca all'esterno e invade i corridoi, le sale...

Come a dire: tutto comincia di qui e finisce fuori. Meglio: non finisce.

L'altare è un punto di partenza. Ma l'avventura non può mai ritenersi conclusa. La missione non è mai compiuta.

Non è possibile fissare un termine alle sorprese.

« La Messa è finita; andate in pace! »

E’ brevissima, e relativamente facile la strada che porta a Messa.

Ma diventa interminabile e ardua quella che porta la Messa, l’Eucarestia alla vita.

E gli unici segnali sono quelli dell'attesa...

Per favore, oggi non ripariamoci, « devotamente », sotto il fa­stoso baldacchino.
Usciamo allo scoperto.
Ci accorgeremo che anche Lui viene con noi. A scoperchiare i tetti.

Non aspetta altro.

Cristo non è venuto per «stare al riparo ». E’ impaziente di condividere l'esistenza reale degli uomini

La vita di Dio (II): quando le parole non bastano all'Amore

giovedì 7 giugno 2007 alle 12:30
Caro Anonimo, mi chiedi quando la Chiesa ha cominciato ad usare il termine "Trinità" e così mi fai scrivere volentieri due cose su quello che avevo riflettuto e condiviso con alcuni amici domenica scorsa in cui appunto si celebrava nella liturgia il mistero della SS. Trinità (e che non ho postato per mancanza di tempo).


Le parole ci piovono addosso e ci rimbalzano nella testa ogni giorno con un'invadenza impressionanante. Ne siamo invasi: pubblicità, discorsi, libri, giornali, televisione, prediche, politica, teoria... (blog!)...
Ci siamo noi stessi abituati a parlare su tutto e di tutto.. e siamo ormai portati a collegare così strettamente parole e verità che quando abbiamo "pensato" bene, riflettuto bene, teorizzato bene su qualcosa ci sembra di aver già fatto tutto!
Ma la realtà è ben altro rispetto alle nostre parole...

Mi colpiva nel vangelo di domenica scorsa questa parola del Signore. Parlava ai suoi discepoli in un momento supremo di rivelazione, prima della sua Passione: "molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete ancora capaci di portarne il peso, ma quando verrà lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,12-13).

Un invito a rendersi conto che sopra la nostra testa rimangono un'infinità di cose che non sappiamo, a rimanere aperti alla domanda e alla meraviglia. Quando pensiamo di sapere qualcosa e quel qualcosa ce lo facciamo bastare per sentirci qualcuno o imporci sugli altri, ci siamo tagliati fuori da questa possibilità di discepolato della Verità senza fine...

Aperti alla meraviglia significa essere attenti a quel linguaggio che supera ogni parola umana.
Quel linguaggio che Dio preferisce.

Parlare di Dio Trinità significa usare un concetto consolidato nella tradizione teologica, frutto di ascolto orante e di riflessione di intere generazioni di cristiani e non ci deve assolutamente soprendere che non ci sia nella Bibbia. Perché?

Beh, prima vi farei una domanda... Chi è Dio per voi, avete una definizione semplice?
Quella che è un po' sulla bocca di tutti e molto scontata è: Dio e amore!
Verissimo e giustissimo.
Forse non c'è definizione migliore... ma ha il limite appunto di essere una de-finizione, una de-limitazione... ma di che? Cosa c'è dentro? e soprattuto oltre questi limiti?

Il modo di rivelarsi di Dio è sempre oltre le definizioni. Che comunque servono, altroché, ma vengono dopo. Dopo l'esperienza di un altro tipo di linguaggio. Partire dalla definizione è pure possibile, ma fermarsi lì senza imparare questo linguaggio è un grande inganno che non porta a niente di bello.

Ma di che linguaggio parlo? Provo a dirlo come lo capisco io...

Sapete che nel vangelo non c'è mai scritto che Dio è Trinità.. e questo non vi sorpenderà tanto, anzi qualcuno dirà: visto che la Chiesa, i preti si sono inventati un sacco di roba?

Bene. Ma non c'è nemmeno scritto nei vangeli che Dio è amore!
Non scherzo, non c'è proprio scritto.
"Dio è amore" lo dice non Gesù ma già la Chiesa nella persona dell'apostolo Giovanni in una sua lettera (1Gv 4,8.16). Certo anche questa è Parola ispirata da Dio... ma colpisce che i vangeli, che più di ogni altro scritto dovrebbero svelarci il mistero del Dio fatto uomo non arrivino a tale "definizione" sublime! Perché?

Penso ai nostri genitori.
Non è che prima che nascessimo si sono messi lì a teorizzare come ci avrebbero voluto bene.
E quando siamo nati non si sono messi a farci "catechesi" e proclami su come intendevano farci del bene, su quello che avrebbero fatto per noi. Non ci hanno riversato addosso astrazioni e concetti, idee o teorie.
Prima che noi fossimo in grado di ripetere mamma o papà ci hanno prima di tutto accolto (e di questi tempi già nascere e non essere abortiti per i più svariati motivi è una grazia), ci hanno nutrito, abbracciato, sorriso, e pulito tutte le volte che ce la facevamo addosso....
Certo, almeno così sarebbe dovuto essere per tutti. Ma la delicatezza di questo "insegnamento" senza parola è così grande che tutte le volte che qualcosa non ha funzionato si sono riportate ferite che segnano per tutta la vita. Ferite che rimangono a prescindere dalle parole che dicono che va tutto bene.

Apro il vangelo allora. E vedo una Parola che per parlarmi si fa muta, piccolo infante (in-fans: che non parla). Il Figlio di Dio che si fa servo e nasce nella povertà, nella persecuzione e negli stenti di una vita nascosta.

Un Dio che prende la mia carne, la mia umanità, con tutti i suoi limiti, con la sua morte.
Un Dio che cammina e mi cerca, affaticandosi, sulle strade che io percorro tutti i giorni sbadatamente.

Un Dio che tocca le mie profonde ferite, che circonda di tenerezze chi sa solo pensare freddamente a se stesso. Un Dio che per me è rinnegato, sputato, condannato, affisso al legno della vergogna...

e seguendolo fino in fondo, passo passo non sentirò mai la parola amore...
No.
Fino a quando sotto quella croce forse mi si potranno aprire gli occhi.
E capire che quella parola non sarebbe mai bastata.
E' una parola che esplode se colmata da questa vita donata senza fine per me.

Giustamente un discepolo, Giovanni, sotto la croce, la può imparare e ridire ai suoi fratelli.
Ma lui che é Amore si comunica come vita e non come teoria dell'amore.

Lo stesso dicasi quindi per quest'intima vita di Dio che si rivela nel Cristo.
Guardando Lui vedo l'imponenza grandiosa della sua umanità e il suo vivere totalmente per un Altro. Il Padre. Lui che dice di essere con Lui una cosa sola, nell'unico Soffio di Vita che è lo Spirito che comunica a noi sua Chiesa questa stessa vita divina.

La Scrittura ci consegna un'esperienza. Esperienza che si fa vita nella Chiesa di tutti i tempi. Esperienza in cui lo sguardo amante e ragionante fissa il suo sguardo e cerca a tentoni delle parole che possano balbettare qualcosa di questo Mistero.

La parola latina "trinitas" (equivalente del greco trias) è una di queste. La usa per primo Tertulliano (morto verso il 220) per affermare l'unità divina ed evitare contemporanemente di pensare che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo siano la stessa persona, cosa che poteva succedere marcando troppo il concetto di "unitas". Per approfondire la questione si possono consultare tanti testi specializzati. Io suggerisco questo, che unisce rigore e chiarezza: L.F. Ladaria, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità, ed. Piemme, Casale Monferrato 1999, 3a ed. 2004.

I musulmani ci dicono: Dio è uno, come può avere un Figlio?
Noi rispondiamo: Dio è Amore, come può essere solo?

Dio è in se stesso Amore, a prescindere dal fatto che abbia creato e amato noi.
E' in se stesso Comunione di Persone, nella perfetta Unità e Distinzione.



La vita di Dio

domenica 3 giugno 2007 alle 15:14

C'è un modo errato di pensare alla Trinità che ha impedito finora di percepire la forza che si sprigiona da questo mistero. Consiste nel pensare alla Trinità come una cosa, come una realtà tutta fatta e conclusa in se stessa. Il Padre - si immagina - ha generato, all'ini­zio dell'eternità, il Figlio (come se l'eternità avesse un inizio!) e poi il Padre e il Figlio insieme hanno spirato lo Spirito Santo; si è costituita cosi, una volta per sem­pre, la Trinità che dura immobile in eterno. Ma la Tri­nità non è una cosa; è un processo, è qualcosa che è sem­pre in atto e che sta avvenendo ora! In Dio, ogni atto è eterno, non passeggero; in lui non c'è « ieri» e nep­pure « domani », ma solo un « oggi » eterno: Tu sei mio Figlio: oggi io ti ho generato (Sal. 2, 7; Atti, 13, 33; Ebr. 1, 5). Oggi dunque il Padre genera il Figlio; oggi essi, insieme, spirano lo Spirito Santo. Tutto è in atto, nulla è cessato; non bisogna pensare alla Trinità come a un vulcano spento, ma come a un vulcano attivo che emette tuttora fiamme di luce, di sapienza, di amore. Al co­spetto di « questa » Trinità vivente e attiva che noi ci troviamo in questo momento; è essa che in questa festa celebriamo e rivolti alla quale diciamo: «Gloria al Pa­dre, al Figlio, allo Spirito Santo: al Dio che è, che era e che viene» (Accl. al Vangelo).

R. Cantalamessa

 













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