Troppo amore

mercoledì 30 aprile 2008 alle 09:30


Lc 7,36-50


6 Un fariseo lo invitò a mangiare con lui. Egli entrò in casa sua e si mise a tavola. 37 Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; 38 fermatasi dietro a lui, si rannicchiò ai suoi piedi e cominciò a bagnarli di lacrime; poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. 39 Vedendo questo, il fariseo che lo aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta saprebbe chi è questa donna che lo tocca: è una peccatrice». 40 Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Egli rispose: «Maestro, di'pure». 41 «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. 42 Non avendo essi la possibilità di restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro gli sarà più riconoscente?». 43 Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». E Gesù gli disse: «Hai giudicato bene». 44 Poi, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono venuto in casa tua e tu non mi hai dato l'acqua per lavare i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e con i capelli li ha asciugati. 45 Tu non mi hai dato il bacio; lei invece da quando sono qui non ha ancora smesso di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, lei invece mi ha cosparso di profumo i piedi. 47 Perciò ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco». 48 Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». 49 Allora quelli che stavano a tavola con lui cominciarono a bisbigliare: «Chi è quest'uomo che osa anche rimettere i peccati?». 50 E Gesù disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va'in pace!».


Tu dici che io amo tanto, ma io credo di aver amato troppo. E l'amore è una bevanda inebriante che può dare alla testa e far perdere la ragione. Lo scopriva l'amante deluso che usciva dalla porta imprecandomi contro, vedendo che apparteneva a tutti quello che pensava di godere lui solo. Lo scopriranno anche i tuoi, almeno qualcuno... Per troppo amore, non per odio, ti tradiranno...

Sono venuta qui come si viene al tempio, perché ho un debito con qualcuno. Lo vedi tu e lo vedono tutti che non sono a mani vuote, che entro in questa casa per compiere una liturgia. E non

ci sono recinti che possano ostacolare l'offerta di una donna a cui tutti hanno offerto qualcosa, né sguardi che mi possano ancora fare male dopo tanto tempo.

Ti ho portato un profumo di cui tu non avresti bisogno – sei troppo puro – ma servirebbe a me per cancellare l'odore degli uomini che mi sono scivolati addosso.

Ti ho asciugato con i miei capelli, avidi di mani che li acca­rezzassero, senza che questo ti turbasse. Ma non chiedermi le parole che non saprei dirti.

Come scorrono veloci le mie lacrime sui tuoi piedi... Lenta­mente si stanno impastando con la sabbia che hai raccolto sul tuo cammino. Questo paese è pieno di polvere, come un vaso dimenticato in un angolo della casa. Tu sei venuto a ripulirlo, soprattutto dall'interno. E per questo che i tuoi ospiti ti temono: hanno paura di scoprirsi vuoti, vuoti come questo alabastro che aspettava un uomo come te per liberarsi del suo contenuto.

Non so come dirlo, ma ho la precisa sensazione che mentre appoggiavo la mia fronte ai tuoi talloni, io ti lavassi i piedi e tu mi pulissi l'anima. Sentivo uscire dal cuore i miei amanti ed era come una processione di demoni. E alla fine di questo esorcismo stavo bene.

Però questa stanza si è riempita di aroma, di fantasmi e di cattivi pensieri. Se tu non dici una parola ancora, ne moriremo tutti soffocati.

L'amore mi ha salvata.

Bene, questo vale un congedo. Strano medico sei tu, davvero, che, per salvarne una, ne fai ammalare tanti.



Testo tratto da G.L. Carrega, "Un tempo per ogni cosa. Quaranta racconti sulla vita di Cristo", Torino 2007.



La storia del Maestro di Nazareth dal momento della sua comparsa sul lago di Galilea fino al viaggio decisivo verso Gerusalemme. Il tutto visto con gli occhi dei comprimari, gli amici e gli avversari, che con le loro profezie e le loro incomprensioni segnano l’evolversi del destino del Cristo.
Un tentativo di restituire ai personaggi secondari dei Vangeli un autentico spessore umano, sogni e speranze, rabbia e fede, in una prosa moderna ma non banale. Un libro che può aiutare il credente a riscoprire la radice umana della sua fede, ma che può coinvolgere chiunque con la carica emotiva dei suoi personaggi.

Gian Luca Carrega è nato a Torino nel 1972. A seguito della maturità classica si iscrive alla Facoltà di Lettere e si laurea in Filologia giudaico-ellenistica. Nel 2000 viene ordinato prete nella diocesi di Torino. Dopo un periodo di tre anni nella parrocchia di Orbassano (TO), viene mandato a Roma a proseguire gli studi di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico. Conseguita la Licenza nel 2006, sta preparando il dottorato sulle traduzioni siriache dei Vangeli.

I cristiani nel mondo

mercoledì 23 aprile 2008 alle 09:31

Dalla «Lettera a Diogneto» (antichissimo testo cristiano anonimo del II secolo d.C.)


I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano.

Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo.


Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi.

Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono colpiti nella fama e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia.

Sono ingiuriati e benedicono, sono trattati ignominiosamente e ricambiano con l'onore. Pur facendo il bene, sono puniti come malfattori; e quando sono puniti si rallegrano, quasi si desse loro la vita. I giudei fanno loro guerra, come a gente straniera, e i pagani li perseguitano. Ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia.

In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l'anima nel corpo. L'anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L'anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile.

La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all'anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri sensuali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male.

Sebbene ne sia odiata, l'anima ama la carne e le sue membra, così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L'anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo. L'anima immortale abita in una tenda mortale, così anche i cristiani sono come dei pellegrini in viaggio tra cose corruttibili, ma aspettano l'incorruttibilità celeste.

L'anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore. Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è loro lecito abbandonare.

In cammino verso una Persona

domenica 20 aprile 2008 alle 14:16

Gv 14, 1-12



In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via» . Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» . Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto» . Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» . Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.


In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.Il brano di Vangelo odierno fa parte del « discorso di addio » o «testamento di Gesù ».

I discepoli vengono scaraventati di fronte a una realtà inevita­bile: la prossima partenza del Maestro. Il verbo « vado » torna con crudele insistenza, quasi a spazzar via le residue illusioni.

Si parla di cuore, casa, posto, cammino... Tutte parole che fanno parte del nostro vocabolario quotidiano. E che, sulla bocca di Gesù, negli ultimi istanti della sua vita terrena, assumono un significato particolare.

Il Maestro si preoccupa di esorcizzire dai propri amici la pau­ra, immunizzare il loro cuore contro il « turbamento ». E, a que­sto scopo, precisa che Ji sua partenza non è un distacco definitivo, una separazione irrimediabile. Si tratta, piuttosto, di un « allonta­namento», che non determina un' assenza, un vuoto, ma una pre­senza diversa, nascosta.

E poi Cristo non se ne va per proprio conto. «Precede » i suoi. Va a prendere possesso di una dimora definitiva, di un posto, an­che per loro.

Li rassicura: « Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io»

Soprattutto, alla fine della pagina, scopriamo che Gesù svela il mistero circa la sua meta. Non va verso un luogo imprecisato, ma verso una Persona: «Io vado al Padre ». E questo punto di arrivo, che è una Persona, non è inaccessibile per i discepoli.

Anche loro, quindi, attraverso la « via » che è Cristo, sono incamminati verso la Casa del Padre.

E il Padre non è più per loro uno sconosciuto. Hanno già avuto la possibilità di contemplarne il volto. « Chi ha visto me ha visto il Padre ».


La lotta contro i demoni: le tecniche dei demoni (1)

venerdì 18 aprile 2008 alle 14:21

di Anselm Grün

[...] il male non può essere sconfitto con un po' di buona volontà, in quanto esso si presenta co­me un demone raffinato e dotato di tecniche sofistica­te. Se l'uomo si apre alla propria realtà, allora speri­menta la propria condizione di pericolo di fronte alla profondità abissale e all'impenetrabilità del male. Que­sta esperienza esprimono i monaci, quando attribui­scono ai demoni la minaccia del male. In tutto ciò de­cisivo non è tanto il concetto, quanto il fenomeno, che il concetto o meglio l'immagine del demone vogliono significare. Scopo della demonologia è, in ultima istan­za, indicare il modo di affrontare in modo corretto ed efficace il male, perciò è più importante conoscere le tecniche dei demoni che conoscerne l'essenza.

I demoni combattono con gli uomini in modi diver­si e ciascuno di questi modi dipende dalla condizione del singolo:

Con gli uomini di mondo i demoni combattono più per mezzo delle cose, mentre con i monaci la lotta si svolge prevalentemente facendo leva sui pensieri. A causa della solitudine, infatti, i monaci sentono certamente la mancanza delle cose, ma come è più facile peccare nei pensieri che nelle opere, così la lotta contro i pensieri è più difficile di quella contro le cose, perché l'intelletto è facile da mettere in moto e difficile da tenere a freno quan­do si tratta di fantasie proibite.

Evagrio descrive due tecniche fondamentalmente dif­ferenti: la lotta che si svolge per mezzo delle cose e del­le situazioni reali e la lotta che si svolge mediante i pen­sieri e le immagini di fantasia. Atanasio così descrive la forma che prende la lotta mediante le cose: un gior­no Antonio si mette in cammino verso il deserto, ma i demoni lo vogliono ostacolare e pongono sulla sua stra­da una gran quantità d'argento. Antonio riconosce l'ar­gento come tentazione e trucco del nemico malvagio, lo maledice e quindi l'argento scompare. Poco dopo Antonio vede sul suo cammino dell'oro: ora non si tratta più di un'immagine ingannatrice, ma di oro vero. An­tonio, tuttavia, non si lascia distogliere dal suo propo­sito, si allontana «come se fosse fuoco» e comincia a correre, per sottrarsi alla tentazione.

Le cose esteriori possono costituire una tentazione per l'uomo: con il denaro il "demone dell'avarizia" ten­ta l'uomo, anche se il denaro di per sé non è un male; i sentimenti che il denaro provoca nell'uomo, invece, possono essere suggeriti dal demone dell'avarizia. In modo simile accade anche con altre cose. Un inciden­te, ad esempio se si rompe un attrezzo, è un fatto as­solutamente normale, ma la reazione successiva può es­sere provocata da un demone. Se si reagisce in modo irato, per i monaci è il "demone dell'ira" che ci assale di soppiatto. Se si inciampa in un un ostacolo, l'osta­colo potrebbe essere stato messo sul mio cammino da un demone per mettermi di cattivo umore o per tener­mi lontano dal realizzare un certo progetto. Le cose non sono diaboliche in sé, ma possono provocare in me del­le reazioni, che minano il mio equilibrio e mi spingo­no a pensare e agire in una certa direzione. Il modo in cui il demone può influenzare il comportamento del­l'uomo mediante le cose esteriori viene raccontato in un apoftegma (detto):

Il padre del deserto Niceta racconta di due confratelli che decidono di condurre una vita in comune. L'uno si propone: «Se il mio confratello desidera qualcosa, allora la farò». Simile è anche il proposito dell'altro: «Farò la volontà del mio confratello». E così vivono molti anni in grande armonia. Quando il Nemico vede che cosa succe­de fra di loro, si mette in moto per separarli. Piazzatosi davanti alla loro porta, si mostra all'uno in forma di co­lomba, all'altro in forma di cornacchia. Allora l'uno di­ce: «Guarda, una colomba». E l'altro ribatte: «Ma se è una cornacchia!». E con grande gioia del Nemico comincia­no a litigare, contraddicendosi l'uno con l'altro, si alza­no, si mettono a lottare fino a sanguinare e finiscono per separarsi. Dopo tre giorni ritornano in sé e si gettano l'u­no ai piedi dell'altro e ciascuno ammette di aver visto un uccello. Riconoscono la mano del diavolo e rimangono insieme fino alla fine della loro vita?.


Il comandamento nuovo

giovedì 17 aprile 2008 alle 15:03


Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino, vescovo


Il Signore Gesù afferma che dà un nuovo comandamento ai suoi discepoli, cioè che si amino reciprocamente: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13, 34). Ma questo comandamento non esisteva già nell'antica legge del Signore, che prescrive: «Amerai il tuo prossimo come te stesso»? (Lv 19, 18). Perché allora il Signore dice nuovo un comandamento che sembra essere tanto antico? E' forse un comandamento nuovo perché ci spoglia dell'uomo vecchio per rivestirci del nuovo?




Certo. Rende nuovo chi gli dà ascolto o meglio chi gli si mostra obbediente. Ma l'amore che rigenera non è quello puramente umano. E' quello che il Signore contraddistingue e qualifica con le parole: «Come io vi ho amati» (Gv 13, 34).Questo è l'amore che ci rinnova, perché diventiamo uomini nuovi, eredi della nuova alleanza, cantori di un nuovo cantico. Quest'amore, fratelli carissimi, ha rinnovato gli antichi giusti, i patriarchi e i profeti, come in seguito ha rinnovato gli apostoli. Quest'amore ora rinnova anche tutti i popoli, e di tutto il genere umano, sparso sulla terra, forma un popolo nuovo, corpo della nuova Sposa dell'unigenito Figlio di Dio, della quale si parla nel Cantico dei cantici: Chi è colei che si alza splendente di candore? (cfr. Ct 8, 5). Certo splendente di candore perché è rinnovata. Da chi se non dal nuovo comandamento?




Per questo i membri sono solleciti a vicenda; e se un membro soffre, con lui tutti soffrono, e se uno è onorato, tutti gioiscono con lui (cfr. 1 Cor 12, 25-26). Ascoltano e mettono in pratica quanto insegna il Signore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13, 34), ma non come si amano coloro che seducono, né come si amano gli uomini per il solo fatto che sono uomini. Ma come si amano coloro che sono dèi e figli dell'Altissimo, per essere fratelli dell'unico Figlio suo. Amandosi a vicenda di quell'amore con il quale egli stesso ha amato gli uomini, suoi fratelli, per poterli guidare là dove il desiderio sarà saziato di beni (cfr. Sal 102, 5).




Il desiderio sarà pienamente appagato, quando Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 28).Questo è l'amore che ci dona colui che ha raccomandato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). A questo fine quindi ci ha amati, perché anche noi ci amiamo a vicenda. Ci amava e perciò ha voluto ci trovassimo legati di reciproco amore, perché fossimo il Corpo del supremo Capo e membra strette da un così dolce vincolo.


Il canto nuovo

martedì 8 aprile 2008 alle 10:27

Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo (Disc. 34, 1-3. 5-6; CCL 41, 424-426)


Cantiamo al Signore il canto dell'amore«Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell'assemblea dei fedeli» (Sal 149, 1).Siamo stati esortati a cantare al Signore un canto nuovo.


L'uomo nuovo conosce il canto nuovo. Il cantare è segno di letizia e, se consideriamo la cosa più attentamente, anche espressione di amore.Colui dunque che sa amare la vita nuova, sa cantare anche il canto nuovo. Che cosa sia questa vita nuova, dobbiamo saperlo in vista del canto nuovo. Infatti tutto appartiene a un solo regno: l'uomo nuovo, il canto nuovo, il Testamento nuovo.

Perciò l'uomo nuovo canterà il canto nuovo e apparterrà al Testamento nuovo.


Non c'è nessuno che non ami, ma bisogna vedere che cosa ama.


Non siamo esortati a non amare, ma a scegliere l'oggetto del nostro amore. Ma che cosa sceglieremo, se prima non veniamo scelti? Poiché non amiamo, se prima non siamo amati. Ascoltate l'apostolo Giovanni: Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4, 10).Cerca per l'uomo il motivo per cui debba amare Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato, ha dato già se stesso per noi, ha dato ciò per cui potessimo amarlo.Che cosa abbia dato perché lo amassimo, ascoltatelo più chiaramente dall'apostolo Paolo: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5, 5). Da dove? Forse da noi? No. Da chi dunque? «Per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5).Avendo dunque una sì grande fiducia, amiamo Dio per mezzo di Dio.Ascoltate più chiaramente lo stesso Giovanni: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16).


Non basta dire: «L'amore è da Dio» (1 Gv 4, 7). Chi di noi oserebbe dire ciò che è stato detto: «Dio è amore»? Lo disse colui che sapeva ciò che aveva.Dio ci si offre in un modo completo. Ci dice: Amatemi e mi avrete, perché non potete amarmi, se già non mi possedete.O fratelli, o figli, o popolo cristiano, o santa e celeste stirpe, o rigenerati in Cristo, o creature di un mondo divino, ascoltate me, anzi per mezzo mio: «Cantate al Signore un canto nuovo».


Ecco, tu dici, io canto. Tu canti, certo, lo sento che canti. Ma bada che la tua vita non abbia a testimoniare contro la tua voce.Cantate con la voce, cantate con il cuore, cantate con la bocca, cantate con la vostra condotta santa. «Cantate al Signore un canto nuovo».


Mi domandate che cosa dovete cantare di colui che amate? Parlate senza dubbio di colui che amate, di lui volete cantare. Cercate le lodi da cantare? L'avete sentito: «Cantate al Signore un canto nuovo». Cercate le lodi? «La sua lode risuoni nell'assemblea dei fedeli».


Il cantore diventa egli stesso la lode del suo canto. Volete dire le lodi a Dio? Siate voi stessi quella lode che si deve dire, e sarete la sua lode, se vivrete bene.

"La Cina è potente, ci resta solo la forza della verità"

venerdì 4 aprile 2008 alle 15:05

Il monaco buddista Palden Gyatso apre il "sacchetto della memoria" e racconta decenni di violenze subite, da lui e dal suo popolo. Dentro e fuori dal carcere. E l'Occidente?




di ANAIS GINORI / foto di JOAKIM ENEROTH (fonte: Repubblica)







Le sue caviglie. "Questa è la cicatrice dei ceppi". I suoi polsi. "Qui ho il segno delle manette a denti di lupo. Le chiamano così perché, se ti muovi, hanno dei chiodini che si conficcano nelle vene". La sua bocca. "Le scosse elettriche mi hanno fatto cadere tutti i denti. Per fortuna, la prima volta che sono andato a testimoniare alle Nazioni Unite mi hanno regalato una dentiera".


Palden Gyatso ha passato trentatré lunghissimi anni nelle carceri cinesi. Porta sulla sua pelle le stimmate di un calvario. Cammina a fatica, è quasi sordo. Nessuno meglio di questo monaco buddista ormai anziano e dolente incarna la sofferenza ma anche la straordinaria resistenza del Tibet. Il suo corpo massacrato è abitato dalla tipica dolcezza himalayana. E da uno sguardo magnetico. A settantacinque anni, Palden Gyatso avrà anche rughe come solchi, ma non rinuncia a ricordare. "Quando mi arrestarono, nel 1959, stavo studiando nel monastero di Drepung. Per estorcermi una confessione, i cinesi mi picchiavano dopo avermi sospeso legando e tirando le mie braccia all'indietro fino al soffitto. Sempre in questa posizione, appiccavano il fuoco per bruciarmi le dita dei piedi. Alcune volte buttavano tra le fiamme polvere di peperoncino, così tutto il corpo diventava incandescente e gli occhi sembravano brace. Il dolore più terribile arrivava dopo, quando dovevo andare all'aperto per fare i lavori forzati, mezzo cieco e con le piaghe ancora purulente. Tra noi, chi non moriva di tortura, moriva di stenti e fame. Mangiavamo un pugno di riso e una tazza di brodo. Dalla disperazione, mi è capitato di cucinare anche le suole delle mie scarpe".
I cinesi estorcevano sempre dai detenuti qualche parola, abbastanza compromettente da giustificare una formale condanna. Era solo questione di tempo. Palden Gyatso aveva resistito qualche mese, grazie alla sua giovane età. I monaci più anziani invece morivano in pochi giorni. Alla fine, dovette confessare anche lui di aver "marginalmente" partecipato all'insurrezione contro l'esercito di Pechino. Dopo l'occupazione, dalla Cina arrivarono la Rivoluzione culturale e l'ordine di cancellare qualsiasi riferimento religioso dal Tetto del mondo. Scomparve così l'universo tibetano dei monasteri, delle lampade votive, delle statue dorate, dei fumi degli incensi, delle mille bandierine sventolanti, dei cilindri rotanti per la preghiera, dei canti. La distruzione dei simboli religiosi fu condotta con tale perseveranza e metodo che persino il paesaggio cambiò. Un tempo le colline erano dominate dagli dzong, le fortezze abitate dai religiosi, che vennero rase al suolo. I campi avevano migliaia di stupa, tempietti e reliquiari: fatti a pezzi. Le bandiere di preghiera furono rimpiazzate dalle bandiere del Partito. "Le Guardie rosse entrarono nel carcere. Ci mostrarono un filmato in cui si vedeva il presidente Mao passare in rassegna decine di migliaia di Guardie rosse. Ci dissero che la Rivoluzione culturale era guidata personalmente da Mao Zedong e Lin Piao. Chiunque avesse osato ostacolarla sarebbe stato "schiacciato come un verme".


Durante le "sessioni di studio" dovevamo leggere il Libretto rosso di Mao. I thamzing, le "sessioni di lotta", divennero sempre più frequenti. Erano autentici processi politici. Iniziavano con una condanna verbale e finivano con un pestaggio. O con la condanna a morte. In quanto monaco, mi venivano inflitte ulteriori violenze. Mi costringevano a portare le feci sul thangka, la tavola sacra buddista. Mi sfidavano, gridando "Bod rangzen", Tibet libero. E poi mi urinavano addosso. Quando le guardie carcerarie volevano riposarsi - perché la tortura doveva comunque essere un lavoro faticoso - ci terrorizzavano con le proiezioni dei filmati. Ricordo quello di un monaco che veniva crocefisso vivo, poi ucciso a colpi di pistola e carbonizzato. Alle monache invece bisognava togliere la verginità donata alla religione.


Il Partito comunista non voleva che vi fossero contatti sessuali con i detenuti, ed era una regola abbastanza rispettata. Così, le monache venivano penetrate con i famigerati bastoni elettrici. O con altri oggetti". I cimeli della prigionia Palden Gyatso apre la sua inseparabile borsa. Viaggia sempre con questo sacchetto di stoffa. Non custodisce libri di preghiera o rosari. Dentro ha la sua prima sentenza di condanna e alcuni strumenti di tortura. È quasi affezionato a questi cimeli di prigionia.


"Questa sembra una torcia elettrica, ma funziona come un elettroshock: bastoni ad alto voltaggio che cominciarono a circolare nelle carceri a metà degli anni Ottanta. Amnesty International aveva ottenuto la chiusura della fabbrica che li produceva, a Glasgow. Ma il regime cinese ne aveva fatto incetta. Adesso so che lo utilizzano frequentemente anche contro i manifestanti". Nato nel 1933, anno della Scimmia, in un villaggio del Tibet a 200 chilometri da Lhasa, Gyatso torna a essere un uomo libero nel 1992. Il Dalai Lama in proposito ha commentato: "La vicenda di persone come lui rivela che i valori umani di compassione, pazienza e senso di responsabilità per le proprie azioni, che sono il fulcro di ogni pratica spirituale, sopravvivono ancora. La sua storia sarà fonte d'ispirazione per tutti noi".


Chiamato a testimoniare all'Onu, al Congresso statunitense e all'Unione europea, è stato ignorato dalla diplomazia cinese, tranne che per una laconica lettera inviata alla Commissione dei diritti dell'uomo della stessa Onu: "Palden Gyatso è un criminale che persiste nelle sue attività sovversive", ha scritto nel 1995 l'allora ambasciatore Ma Yuzhens. "Il suo racconto è falso: nelle carceri cinesi la tortura è proibita".


La voce interiore Quest'uomo di bassa statura, debole e denutrito, è riuscito a evadere ben due volte, prima di essere liberato definitivamente. Nel 1962 fu ritrovato dai cinesi a un chilometro dalla salvezza, il confine con il Bhutan, mentre era in fuga verso l'India. La seconda volta, nel 1979, aveva scelto invece di rimanere nella capitale. Lo fermarono mentre appendeva manifesti che chiedevano l'indipendenza del suo Paese e il ritorno in patria del Dalai Lama. "Accogliendomi, un carceriere mi urlò: "Eccoti l'indipendenza". E mi infilò un bastone elettrico in bocca, mandando una, due, tre scariche - non so ricordare quante fossero. Svenni, perdendo il controllo del mio corpo. Mi risvegliai in un lago di vomito e urina. Trovai appena la forza di sputare qualcosa che avevo in bocca. Mi accorsi che erano i miei denti.


Se non fossi stato un monaco, probabilmente li avrei odiati, i miei aguzzini. Oggi invece non provo più sentimenti di rabbia o rancore per quello che mi hanno fatto. Alcuni provavano piacere a torturarmi, ma non tutti. Ricordo che una volta vidi uno di loro piangere". Gyatso è rimasto prigioniero dei suoi incubi e della lotta per un Tibet libero che torni la patria dei tibetani. Due anni fa ha piantato una tenda blu e rossa a Torino, a San Pietro in Vincoli, insieme ad altri due monaci, e ha cominciato uno sciopero della fame. "La comunità internazionale non dimentichi di pretendere il rispetto dei diritti umani dalla Cina nel momento in cui assegna le Olimpiadi del 2008".


La protesta dei buddisti quella volta terminò quando Mario Pescante, rappresentante del Comitato Olimpico, inviò loro una lettera di rassicurazioni. Come Gyatso abbia resistito a trentatré anni di prigionia e torture rimane un mistero. "Se prendono il tuo corpo non fa niente, se s'impadroniscono della tua mente, allora sei davvero morto. A me veniva impedito di meditare ad alta voce o con rosari e libri. Avevo sviluppato la mia voce interiore. Mentre mi torturavano recitavo un mantra. Cercavo di pensare al dolore del mondo intero. Il mio avrebbe impedito la sofferenza di altri esseri umani. Ho cercato anche spiegazioni nel karma. Nelle mie vite passate devo aver commesso azioni terribili".


Nel marzo 1989 Hu Jintao, attuale presidente della Repubblica cinese e all'epoca segretario del partito nella regione autonoma del Tibet, impose la legge marziale a Lhasa. Palden Gyatso si trovava nella prigione di Drapchi. "Con la pressione delle organizzazioni per i diritti umani, le autorità cinesi iniziarono a usare torture sempre più sofisticate. Ma non per questo meno crudeli. Si accanivano su punti particolari del corpo, picchiando organi interni come reni o fegato. È così che, per la prima volta nella mia vita, ho visto cadaveri blu. E rossi. Un'altra tecnica di violenza invisibile erano i ripetuti prelievi di sangue".


Ma il cambiamento arrivò. "Stranamente subito dopo l'introduzione della legge marziale, alla fine degli anni Ottanta, la mia vita carceraria cominciò a migliorare. Quando dissero che ero libero, rimasi incredulo. Fino a quel momento, ogni volta che finivo di scontare la pena, le autorità cinesi trovavano un motivo per condannarmi ancora. Ricordo che lasciai il carcere guardandomi intorno. Temevo che ci fosse qualche trappola. Gli ufficiali cinesi infatti mi pedinavano. Dopo tredici giorni riuscii a fuggire da Lhasa. Volevo raggiungere Dharmasala, per mettere la mia esperienza al servizio del Dalai Lama". Gyatso è stato poi convinto dal Dalai Lama a scrivere le sue memorie.


In Italia, Il fuoco sotto la neve è stato pubblicato nel 1997 (Sperling&Kupfer). Lui è diventato il protagonista di molti documentari e invitato d'onore di tante mobilitazioni. Soldi sulla punta del coltello Uscendo di prigione, Gyatso non ha più ritrovato il suo Tibet. Ha scoperto che anche gli altri membri della sua famiglia erano stati arrestati. Uccisi. Ma ha scoperto anche di avere tanti nuovi amici. A metà degli anni Ottanta, i militanti italiani e inglesi di Amnesty hanno "adottato" Gyatso come prigioniero di coscienza, insieme a un altro monaco, Geshe Lobsang Wangchuk, che non è stato mai rilasciato.


"La mia storia dimostra che gli occidentali, se lo vogliono, possono provocare dei cambiamenti. Purtroppo, molti Paesi democratici oggi sembrano interessati solo al denaro e agli affari. I diritti umani non contano più niente. Tutto questo è molto pericoloso. In Tibet c'è un'espressione che dice: "Dare i soldi sulla punta del coltello". È quello che sta avvenendo. La Cina è potente, e noi abbiamo soltanto la forza della verità". (3 aprile 2008)


Rendere ragione

martedì 1 aprile 2008 alle 17:01
Segnalo la pubblicazione di questo agile ed interessante libro di un mio caro amico, don Samuele Sangalli, docente alla Pontificia Università Gregoriana.
L'editore è Leonardo International.
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Nell'attuale contesto globalizzato e multiculturale, segnato dal tramonto di certezze assolute che hanno organizzato per secoli il vivere e lo sperare degli uomini, ha ancora senso professare una religione attribuendole valore universale di verità? Non è questo il modo per sottoscrivere e avallare la diffusa equazione tra credo religioso e fanatismo fondamentalista?
Questo saggio intende confrontarsi con la radicalità di questi interrogativi analizzando la pretesa di credibilità del cristianesimo. Dapprima argomentando su come l'atteggiamento credente non sia tradimento ma inveramento della ragione umana, l'autore ripropone poi itinerari di ricerca storica e teologica per verificare la pretesa divina del messaggio di Gesù di Nazareth e la possibilità dell'esistenza cristiana come segno efficace di speranza nella stagione del relativismo.
 













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