Unici, irripetibili, liberi, creativi... insieme!

sabato 28 aprile 2007 alle 21:00
IV domenica di Pasqua

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,27-39).

commento di A. Pronzato:

Ammettiamolo. La parabola del pastore e del gregge non è molto in sintonia con la nostra mentalità moderna.

Colpa anche di certa iconografia sacra che ci ha propinato quella stucchevole immagine del «buon pastore»: un Gesù dolcia­stro, con i lineamenti di un biondo efebo, capelli ricci, agghindato a dovere, occhi azzurri, e l'immancabile pecorella adagiata sulle sof­fici spalle.

E poi, via, anche noi proviamo una certa ripugnanza nel rico­noscercí parte di un gregge, sia pure del gregge pilotato da Cristo.

Istintivamente pensiamo alla scena dei famosi pecoroni di Pa­nurge.

Oppure rispolveriamo la celebre battuta di E. Le Roy che para­gona i fedeli agli agnelli della Candelora: «Si benedicono e poi si tosano».

Comunque, il gregge richiama il pericolo di un conformismo gregario, di un livellamento. La persona scompare, si lascia assor­bire, viene inghiottita dalla collettività, fino a smarrire la propria identità.

Nietzsche denunciava: «La comunità rende comuni».

E potremmo citare anche un'espressione di Cechov: «Una volta nel gregge, è inutile che abbai, scodinzola».

Oppure un aforísma finlandese: «Quando una pecora bela. tutto il gregge ha sete».

Ma questo triste fenomeno è reso possibile soltanto dal fatto che certe persone accettano di perdersi nell'anonimato, di lasciarsi assorbire in una massa indífferenziata, di dissolversi nel più piatto conformismo, di camminare a testa bassa.

Non è certo questo lo stile del gregge voluto dal Cristo.

Secondo il piano di Dio, la comunità costituita dal suo popolo rappresenta sia il superamento dell'individualismo (per essere se stessi occorre vivere‑con), sia il superamento del conformismo gregario (per vivere‑con occorre conservare la propria unicità).

L'apporto che il singolo reca al «gregge» dev'essere un apporto personale, dinamico, intelligente. Il che è proprio l'opposto di un dissolvimento nella collettività.

«Non si tratta di seguire, più o meno passivamente, il movimento generale; un certo conformismo nasconde un'indifferenza, una pigrizia o una pusillanimità che ledono effettivamente la co­munità. Infatti questa è ricca soltanto dell'apporto dei suoi mem­bri. Essa viene impoverita quando io non metto a suo servizio la totalità delle mie risorse. E, nello stesso tempo, io impoverisco me stesso.

Il cielo non è un sonno ipnotico collettivo di una folla anonima in cui ognuno sarebbe fuori di sé. E neppure un pasto cui si par­tecipa sistemati in piccoli tavoli dove ci si mantiene a distanza gli uni dagli altri. No. E’ un concerto dove ciascuno ha la propria voce personale, insostituibile. E dove le voci accordate si richiamano, si completano e si sostengono a vicenda» (A. Motte).

La sinfonia ha bisogno della mia nota personale. Se la rifiuto, rimango solo, povero, con la mia nota che risulta immancabilmente stonata.

Se la mia nota è priva del timbro inconfondibile della sua uni­cità, la sinfonia si riduce a una monotona filastrocca.

In tutti e due i casi la condanna è inevitabile: ci si impoverisce nell'atto stesso di impoverire gli altri.

Cristo è pastore, il vero pastore, in quanto rappresenta l'op­posto del «mercenario». Infatti lui dà la sua vita per le pecore. Non le sfrutta. Non le strumentalizza. Non le domina. Piuttosto le serve.

Da lui noi siamo «conosciuti per nome», ciascuno di noi è im­portante, unico ai suoi occhi, rispettato e amato nel suo itinerario irripetibile.

Lui non vuole che assumiamo atteggiamenti passivi. Esige ci comportiamo da persone libere, creative.

La sua cura del gregge non è livellatrice, ma personalizzante.

[... continua al prossimo post.].

Amore per la Chiesa

giovedì 26 aprile 2007 alle 17:45
Martini docet...

[...] perché Paolo è fiero, contento della sua comunità, nonostante gli enormi difetti, i gravi problemi denunciati ampiamente sia nella Prima che nella Seconda lettera ai Corinti?

E' fiero e contento non solo perché il suo amore è alla fine ricambiato, ma per un ulteriore motivo: egli ha investito molto di sé nella comunità, ha investito per la grazia del Signore, sente che il Signore stesso si è coinvolto e quindi percepisce che la sua sofferenza è la sofferenza di Gesù.


La comunità gli è cara nella misura in cui ha sofferto per essa, non tanto a ragione delle consolazioni che ne riceve. Noi pure quando investiamo molto in persone, situazioni, famiglie che ci fanno soffrire, le amiamo di più.

Se ci siamo impegnati magari superficialmente, per dovere, non ci preoccupiamo della risposta; se invece abbiamo agito per amore, soffriamo allorché non c'è rispo
sta, ma pregando e contemplando avvertiamo che non noi, bensì Gesù crocifisso ha molto amato e ha molto investito per queste realtà.

Possiamo chiederci: quanto amo, quanto mi appassiono per la mia comunità e le persone che la compongono?


Tutti sappiamo quale gioia sperimentiamo quando una persona o un gruppo cercano davvero Dio con il cuore, fanno un cammino veramente evangelico; allora ci sembra di essere ripagati dei nostri sacrifici.

Ma anche quando ciò non si verifica subito, se ci siamo sforzati di dare molto, godiamo nel constatare che Cristo cresce in loro mentre noi diminuiamo.


Da ragazzo mi ponevo talora la domanda: amo la Chiesa?

Non mi era facile rispondere perché mi avevano insegnato che la priorità era certamente l'amore a Gesù.

Credo che l'esperienza mostri che cominciamo ad amare la Chiesa quando preghiamo per essa, quando investiamo nella Chiesa molto della nostra vita, del nostro tempo.
Allora scopriamo che nulla di quanto riguarda la Chiesa ci lascia indifferenti, perché ci siamo buttati, anzi immedesimati con essa.

La prova dell'amore

domenica 22 aprile 2007 alle 15:07
Vi sia un uomo che digiuna, che vive castamente, e che soffre infine il martirio, consumato dalle fiamme, e vi sia un altro che rinvia il martirio per l`edificazione del prossimo e, non solo lo rinvia ma se ne parte da questo mondo senza averlo subito. Quale di questi due uomini otterrà maggior gloria, dopo aver lasciato questa vita? Non c`è bisogno qui di discutere a lungo né di parlare eloquentemente per decidere, dato che il beato Paolo dà il suo giudizio dicendo: "Morire ed essere con Cristo è la cosa migliore, ma rimanere nella carne è piú necessario per causa vostra" (Fil 1,23-24).

Vedi come l`Apostolo antepone l`edificazione del prossimo al morire per raggiungere Cristo? Non vi è infatti mezzo migliore per essere unito a Cristo che il compiere la sua volontà, e la sua volontà non consiste in nessun`altra cosa come nel bene del prossimo... "Pietro" - dice il Signore -, "mi ami tu? Pasci le mie pecore" (Gv 21,15), e, con la triplice domanda che gli rivolge, Cristo manifesta chiaramente che il pascere le pecore è la prova dell`amore. E questo non è detto solo ai sacerdoti, ma a ognuno di noi, per piccolo che sia il gregge affidatoci. Difatti, anche se è piccolo, non si deve trascurarlo poiché il "Padre mio" - dice il Signore - "si compiace in loro" (Lc 12,32). Ognuno di noi ha una pecora. Badiamo di portarla a pascoli convenienti.

L`uomo, appena si leva dal suo letto, non ricerchi altra cosa, sia con le parole sia con le opere, che di render la sua casa e la sua famiglia piú pia. La donna, da parte sua, si dimostri buona padrona di casa, ma prima ancora di questo abbia un`altra preoccupazione assai piú necessaria, quella cioè che tutta la sua famiglia lavori e compia quelle opere che riguardano il regno dei cieli. Se infatti negli affari terreni, prima ancora degli interessi familiari, ci preoccupiamo di pagare i debiti pubblici perché, trascurando quelli, non ci capiti di essere arrestati, tradotti in tribunale e svergognati obbrobriosamente, a maggior ragione, nelle cose spirituali, facciamo in modo di pagare anzittuto ciò che dobbiamo a Dio, re dell`universo, in modo da non essere gettati là dov`è stridore di denti.

Ricerchiamo, inoltre, quelle virtù che da una parte procurano a noi la salvezza e dall`altra sono utilissime al prossimo. Tali sono l`elemosina, le orazioni; anzi, l`orazione riceve dall`elemosina forza e ali. "Le tue orazioni" - dice la Scrittura - "e le tue elemosine sono servite per essere ricordato al cospetto di Dio" (At 10,4). Ma non solo l`orazione, bensí anche il digiuno riceve dall`elemosina efficacia. Se tu digiuni senza fare elemosina, la tua azione non può essere digiuno e diventi peggiore di un ghiottone e di un ubriaco, tanto peggiore quanto la crudeltà è piú grave peccato della gola. Ma perché parlo del digiuno? Anche se tu vivi castamente, anche se tu conservi la verginità, ma non l`accompagni con l`elemosina, tu rimani fuori della sala nuziale. Che cosa è paragonabile alla verginità che, per la sua stessa eccellenza, non fu posta per legge neppure nel Nuovo Testamento? Tuttavia, anch`essa viene respinta se non è congiunta all`elemosina. Se, dunque, le vergini sono ricacciate perché non l`hanno praticata con generosità, chi mai potrà ottenere perdono se trascura di far elemosina? Nessuno, di certo. Chi non pratica l`elemosina, perirà dunque sicuramente. Infatti, se nelle cose di questo mondo nessuno vive per se stesso, ma l`artigiano, il soldato, l`agricoltore, il commerciante svolgono attività che contribuiscono al bene pubblico e alla comune utilità, molto di piú ciò deve realizzarsi nelle cose spirituali. Vive veramente, soltanto chi vive per gli altri. Chi invece vive solo per sé, disprezza e non si cura degli altri, è un essere inutile, non è un uomo, non appartiene alla razza umana.

Tu forse mi dirai a questo punto: Devo allora trascurare i miei affari per occuparmi di quelli altrui? No, non è possibile che colui che si prende cura degli affari del prossimo trascuri i propri. Chi cerca l`interesse del prossimo non danneggia nessuno, ha compassione di tutti e aiuta secondo le proprie possibilità, non commette frodi, né si appropria di quanto appartiene agli altri, non dice falsa testimonianza, si astiene dal vizio, abbraccia la virtù, prega per i suoi nemici, fa del bene a chi gli fa del male, non ingiuria nessuno, non maledice neppur quando in mille modi è maledetto, ma ripete piuttosto le parole dell`Apostolo: "Chi è infermo che anch`io non sia infermo? Chi subisce scandalo che io non ne arda?" (2Cor 11,29). Al contrario, se noi ricerchiamo il nostro interesse non seguirà al nostro l`interesse degli altri.

Convinti, dunque, da quanto è stato detto, che non è possibile salvarci se non ci interessiamo del bene comune, e considerando gli esempi del servo che fu separato e di colui che nascose il talento sotto terra, scegliamo quest`altra via, e conseguiremo anche la vita eterna, che io auguro a tutti noi di ottenere per la grazia e l`amore di Gesú Cristo, nostro Signore.

(S. Giovanni Crisostomo, In Matth., 77, 6)

Passsione di Paolo per la comunità

sabato 21 aprile 2007 alle 11:20
...ancora Martini:

Mi colpisce la passione di Paolo per la sua comunità. E teniamo presente che si tratta di una comunità ingrata, insolente, che lo ha sbeffeggiato; di una comunità poco gratificante, che lo ha accusato di essersi comportato con leggerezza, con incoerenza, che lo ha rattristato e lo ha fatto soffrire. I primi due capitoli della lettera ai Corinzi attestano le accuse che gli hanno mosso e persino la sua voglia di non tornare a Corinto per evitare altre polemiche. Si tratta quindi di una comunità che non merita molto, ma Paolo, pur avendo ricevuto tante delusioni, resta appassionato: “Voi siete la migliore lettera che ho scritto, voi siete l'opera dello Spirito, voi siete la lettera scritta da Cristo”. La passione per la propria comunità appare anche in 1Cor 4, 14-15:

Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo.

Straordinario questo rapporto di paternità sofferta. Forse ancora più forte l'espressione in Gal 4,19:

figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!

“Partorire nel dolore” è un'immagine materna: non solo padre, bensì madre della comunità.

Appare chiaro che questa passione e questo affetto di Paolo fanno breccia e, alla lunga, vengono ricambiati. Il suo amore va al di là ed è più forte di qualunque resistenza e delusione; dà vita a quel vero rapporto familiare che nasce tra chi fa la volontà di Dio e ascolta la parola del Signore. È il rapporto espresso molto bene, teneramente in Fil 1,7-8:

E' giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell' amore di Cristo Gesù.

Stupendo questo affetto, questo amore di Paolo che a un certo punto è compreso, accolto, ripagato. Ma anche noi oggi abbiamo tante testimonianze del genere. Mi piace citare il brano di una delle molte lettere che la gente mi scrive. È di una persona che non conosco e, dopo avermi detto a quale parrocchia appartiene, spiega:

Queste mie righe vogliono renderla partecipe della gioia che io e, come me, tutta la nostra parrocchia proviamo ogni volta che ci rechiamo in chiesa. Abbiamo un parroco attento a tutti, pronto con il sorriso e una parola, un saluto per ognuno. Le sue omelie giungono al cuore e non le nascondo che a volte mi viene da piangere al pensiero di tanta grazia ricevuta. Sì, Dio è stato tanto generoso con noi. Ogni iniziativa che viene proposta questo prete è sempre da lui ben accetta e s'impegna perché tutti, anche più lontani, possano avvicinarsi al Signore.

Il colmo della lode è l’accenno al coadiutore.

Con il coadiutore c'è quella unità e quella collaborazione di vera fratellanza che, osservandoli, ci fa capire comandamento dell'amore.

Forse questa persona ha scritto in un momento di entusiasmo, ma certamente esprime un affetto ricambiato. Non ho verificato chi sia il parroco, preferendo pensare che sia sempre così. Significa comunque che le relazioni di affetto esistono e la gente le sente molto.

Ricco dentro

giovedì 19 aprile 2007 alle 17:00

Ancora un po' di Martini...

[L'apostolo Paolo] sente di aver raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro.

Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare.

[...] Una libertà che non è arbitrio o presunzione, ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo mette talora in parallelo l'essere servo di Cristo con l'essere libero da tutte le altre opinioni umane.

L'assolutezza del servizio di Cristo rende l'uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. E' difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano...

Eugenetica

mercoledì 18 aprile 2007 alle 18:10
Il Dio che si rivela nella Scrittura è un Dio che sceglie e ama la piccolezza, il limite, la povertà... in una parola: ama. Non esiste amore senza accoglienza del limite dell'altro, o del limite che è per me l'altro.
Sceglie quello che è il più piccolo di tutti i popoli (cfr. Dt 7,7: Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli), preferisce il secondogenito al primogenito (Giacobbe ad Esaù), chiama un vecchio (Abramo) senza figli per dare inizio al suo popolo; Davide, l'ultimo e più insignificante dei suoi fratelli è unto re sopra tutto Israele.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare a iosa.
Dio non ha davvero un atteggiamento "eugenetico" nel suo rivelarsi pieno... contraddicendo apparentemene così l'eugenetica stessa che c'è nella selezione naturale delle specie. O meglio. Mostrando che il vertice della selezione, della scelta, non è privilegiare il forte a scapito del debole (e inutile) ma dare vita a chi ne ha meno.

Immettendo nella creazione lo stupore di un'Amore che si rivela come il senso ultimo di tutte le cose, contro ogni altra idea di perfezione, di forza, di autorealizzazione. Stupore che si apre alla lode. Stupore di noi, amati nella compresenza di male e bene, di limite e voglia di infinito.

Confrontarsi con il rivelarsi di Dio nella Scrittura smaschera quel profondo "atteggiamento eugenetico" che ci portiamo dentro, e che ci fa selezionare le persone che sono degne o no della nostra attenzione, del nostro tempo, delle nostre energie...

E a proposito di eugenetica vera e propria e di quello che porterà come conseguenza ultima:

Da un'intervista di Elisabetta del Soldato a J. Laing:

Perché la nostra società, così tollerante, manifesta sempre più difficoltà nell’accogliere i disabili?

«La nostra società è intollerante nei confronti di chi non produce. Questa categoria include gli anziani, i giovani, gli infermi e i disabili. Mentre il tasso di fecondità in Europa sta calando, e le donne rifiutano il ruolo associato alla cura degli individui non produttivi, nasce il grande quesito su chi dovrebbe occuparsi dei più deboli. Meno attenzione ai giovani, agli anziani e ai disabili produce la necessità di soluzioni più drastiche alle richieste del mondo del lavoro, della ricerca scientifica e della donazione per trapianti di organi».

Qual è il prezzo che pagheremo per tutto ciò?

«Il prezzo è diventare tragicamente ingiusti. E il prezzo dell’ingiustizia è molto più grande del prezzo della morte, della pena o della sofferenza. Essere una vittima dell’ingiustizia e soffrire fisicamente, usando le parole di Socrate, è molto meglio che perpetrare l’ingiustizia. È importante sapere che questo atteggiamento eugenetico ha delle conseguenze pesanti sulla società. Le società che promuovono misure disumane per tagliare i costi sociali o programmi di ricerca all’insegna di una "perfezione genetica", a costo di calpestare i veri diritti umani, permettono una crudeltà che alla fine minerà gli stessi scopi che queste società cercavano di raggiungere».


Pace minacciata

lunedì 16 aprile 2007 alle 19:17
Stasera vorrei condividere alcuni pensieri del card. Carlo M. Martini che oggi ho avuto modo di leggere. Si riferiscono all'esperienza dell'apostolo Paolo, ma riguardano anche quello che diceva A. Pronzato sul dono della pace. Un regalo del Risorto, un tesoro da accogliere, vivere e difendere...


Innanzi tutto dobbiamo riconoscerci estremamente fragili, suscettibili di essere tentati, forse anche in cose da poco e di dover passare per questi momenti difficili.
Il senso della fragilità è importante perché, altrimenti, rischiamo di parlare di queste cose con facilità, e quando ci troviamo a viverle reagiamo in modo del tutto contrario, cambiando, per così dire, mondo e linguaggio.
La coscienza della nostra fragilità ci permette di collegare meglio ciò che leggiamo con ciò che in realtà viviamo"[...]

L'esistenza cristiana è una prova non da poco perché ci mette di fronte ad un avversario implacabile che continuamente torna ad attaccarci.
Quando consideriamo la realtà quotidiana, le cose semplici di ogni giorno, questo linguaggio ci sembra eccessivo; ma se andiamo più a fondo nella nostra storia, nella storia degli altri uomini, nelle prove dolorosissime che la gente vive, nei problemi che portano all'angoscia e alla disperazione, allora vediamo molto più chiaramente che il nemico dell'uomo è all'opera.
Esso cerca in tutte le maniere pià semplici, più coperte, più subdole, di portare ciascuno di noi a mancare di fede e di speranza, suggerendoci una visione rassegnata della vita, senza la luce interpretativa del piano salvifico di Dio.
Continuamente vuole distruggere la scintilla della fede che ci permette di vedere tutto come cammino di Dio in noi e cammino nostro verso di Lui. [...].

Dice l'apostolo Paolo:

Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze perchè sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,3-5).

Se queste parole fossero dette da un neoconvertito ai primi inizi dell'entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza.

Dette da un missionario che ha vissuto 20 anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere.

Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato.

La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui.

Cristo ci regala la sua pace

domenica 15 aprile 2007 alle 11:07
Una bella riflessione di Alessandro Pronzato...

Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi! » (Gv 20, 19‑31)

Pace è il nome della Risurrezione.

Cristo, quando appare ai suoi amici, usa il termine Shalom, che era saluto familiare per ogni israelita, un'espressione augurale.

La pace era dono di Yhwh e, più che un vocabolo, era un concetto religioso.

Lo stato di pace, in una persona, indicava una condizione di benessere, con un'accentuazione in senso materiale, realizzabile soltanto attraverso un'intima comunione con Yhwh.

Il risorto, dunque, augura la pace.

E si tratta, beninteso, della sua pace.

Fermiamoci a considerare questa pace che dobbiamo possedere in noi stessi, per poterla irradiare sugli altri e diventare così – per usare il linguaggio delle Beatitudini ‑ « operatori di pace ».

Come per la gioia, anche per la pace si può dire che ne esistano in commercio due tipi.

Quella nostra e quella che ci danno gli altri.

La prima ha caratteristiche di inalterabilità. L'altra è all'inse­gna della precarietà e provvisorietà.

Mi spiego con un esempio. Ho assistito personalmente a que­sta scenetta.

Paolo è un simpatico bambino. Un giorno decide di costruire, nel proprio cortile, una capanna. Convoca i compagni di gioco e tutti s'impegnano a collaborare all'impresa. Chi porta i pali, chi una tenda, chi una sedia, chi una stuoia, chi un vaso, chi uno spec­chio.

La faccenda regge per alcune settimane. Un pomeriggio i ra­gazzi bisticciano con Paolo. « Se non ci fosse il mio cortile... », si fa forte lui. «Ma noi abbiamo messo tutto il resto», protestano gli altri. Al termine dell'acceso litigio, ognuno ritira ciò che aveva offerto per la costruzione della capanna. Ognuno recupera precipitosamente e riporta a casa il proprio pezzo. Tutto si sfascia in un attimo. E Paolo rimane col suo cortile vuoto e una scopa!

Ecco. Il problema sta tutto qui. Con quali materiali abbiamo costruito la nostra pace?

Quando qualcuno, in confessionale, si lamenta:

‑ Padre, mi hanno fatto perdere la pace...

Io rispondo:

‑ Se gliel'hanno portata via gli altri, è perché la pace non era sua. Gli altri si sono limitati a riprendersi ciò che avevano pre­stato... Erano nel loro diritto.

Troppe volte la nostra pace è costruita con materiali che non ci appartengono. Qualcuno ci dà un briciolo di stima, un altro ci offre un po' di simpatia, altri ancora un pizzico di apprezzamento per il nostro lavoro, una dichiarazione di accordo con le nostre idee, un complimento, un elogio.

E noi stiamo in pace nella nostra capanna. Tutto fila alla per­fezione.

Non abbiamo il coraggio di riconoscere che quella costruzione è tenuta insieme da materiali d'accatto.

Che la nostra pace dipende, in realtà, da ciò che hanno messo gli altri.

Poi, un giorno, succede un piccolo o grosso incidente. Qualcuno ritira il suo pezzo (uno sgarbo, un'incomprensione, un'osservazione ingiusta, un'indelicatezza, una malignità, un'interpretazione male­vola di una nostra azione). E la nostra pace si sfascia.

Naturale. Non era nostra.

Abbiamo perso, semplicemente, ciò che non ci apparteneva.

La pace che non è nostra dura finché tutto va bene.

La pace nostra, invece, dura anche quando tutto va a rotoli.

« Non ho più la pace... »

Non l'hai mai posseduta veramente.

Quella che avevi era esposta alle intemperie, alle variazioni me­teorologiche, ai capricci altrui, agli umori mutevoli delle persone che ti stanno accanto.

Perché la pace sia nostra, occorre riceverla in dono dal Cristo. Lui ci dà la sua pace. E non se la riprende più. Ci appartiene.

Teniamo presente, però, secondo l'invito di uno studioso ‑ P. Ricca ‑ le caratteristiche fondamentali di questa sua pace che può diventare nostra, se l’amiamo, se la accettiamo.

È una spada che taglia, divide, spezza certi legami. Per cui la sua pace rappresenta la crisi, e forse la fine della nostra pace.

È una pace militante. «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Non possiamo separare questo fuoco dalla sua pace. Non si tratta dun­que di una pace tiepida, ma di una pace che brucia, lascia il segno sulla carne. La pace evangelica chiama al combattimento più che al riposo. Non è un punto di partenza, ma di arrivo.

È una pace diversa. Esclude la paura, scaturisce dalla logica dell'andare oltre, dalla capacità di andare controcorrente.

È, infine, una pace crocifissa. Colui che è la nostra pace, è an­che Colui che è stato tradito, arrestato, consegnato, giudicato, con­dannato a morte, crocifisso. Ossia, la sua è una pace rifiutata. Non è la pace trionfante, come la « pax romana ».

Se questa pace ancor oggi viene annunciata, proclamata, vis­suta, ciò è dovuto al fatto che Dio ha risuscitato il Crocifisso. Per­ciò è ancora presente e operante in mezzo a noi.

La pace che ci dona il Cristo si colloca al centro, nelle profon­dità del nostro essere, non si appiccica semplicemente alla pelle, col rischio di vederla sparire alla minima bava di vento contrario.

Lui è la nostra pace.

Accogliere la pace di Cristo significa accogliere la sua Persona, non soltanto un dono «staccato». La pace è la conseguenza ne­cessaria del dono fondamentale della sua Persona, ed è il segno più evidente che abbiamo spalancato le porte al Cristo.

In tal caso, soltanto noi possiamo perdere questa pace. Sba­razzandoci dell'Ospite. Oppure, che è lo stesso, costringendolo a coabitazioni sgradevoli.

La pace, più che una conquista, è una scelta.

Nel silenzio del deserto è infine sbocciata la vita

domenica 8 aprile 2007 alle 04:10
Ecco, io faccio una cosa nuova!
Essa già germoglia, non ve ne accorgete?
Sì! Aprirò nel deserto una strada,
farò scorrere fiumi nella solitudine!
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
gli sciacalli e gli struzzi,
perché immetterò acqua nel deserto
e fiumi nella steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
(Is 43,19-20)



Prima di cantare alleluia, rimango ancora in silenzio in questo buio mattino di Pasqua. Sono le 3 e sento che c'è bisogno di non disturbare questo nuovo giorno ancora in fasce. Richiede discrezione, attenzione, premura. E' come prendere in braccio una vita appena sbocciata.


Prima di cantare alleluia e per cantarlo in verità, voglio rendermi ben conto di quello che è successo... se ci credo davvero. Altrimenti è meglio tacere. E' più onesto rimanere realisticamente freddi come gli apostoli all'annucio delle donne tornate vocianti dal sepolcro del Crocifisso. Del resto quello che sperimentiamo più spesso è la concretezza della morte, l'angoscia della disfatta, la disillusione delle speranze... e l'incertezza del futuro o i graffi al cuore della solitudine, preludio della morte come solitudine assoluta...


Resurrezione?

Una parola che può essere detta e ascoltata ma difficile da capire (cfr. Mc 9,10).

Eppure voglio fare come Pietro e Giovanni, e senza dire parole correre verso quella tomba. E lì dentro scendere, guardare di nuovo in faccia il deserto della morte, il deserto che è la morte.

Dentro questo deserto ho visto accasciarsi stremato il Figlio di Dio, prostrato dal dolore, immerso nella notte. Come ogni Figlio dell'Uomo, come me, come te. E vedendo Lui così, il mio fratello, ogni mia sorella, l'angoscia ha attanagliato il mio cuore. Questa vita che a volte sembra così difficile, assurda, ingannevole. E ho compatito il Cristo-fratello compatendo in fondo me stesso, osservando magari da lontano (cfr. Mc 15,40) il suo combattimento, la sua solitaria agonia.

Sì, solitaria, perchè il dolore dell'altro è irraggiungibile il più delle volte.

Puoi solo dire che forse hai sperimentato o creduto di sperimentare qualcosa di simile... forse...


E infatti l'ho accompagnato solo per un breve tratto... fino all'orlo di quell'abisso tenebroso che è la morte. Laggiù l'ho visto precipitare, cadere in un grido di dolore (cfr. Mc 15,37).

Era troppo! E mi sono voltato indietro... sono ritornato a casa. Con la fretta di dimenticare, di non pensare. E ora invece mi ritrovo qui, a passare la mano su questa ruvida e fredda pietra su cui era deposto il suo Corpo. Mi ritrovo a spingere la vista avanti verso l'orizzonte di questo deserto... mi ritrovo a cercare ai miei piedi, vicino a me, dei segni di qualcosa di nuovo...

Mi spinge a questo inusitato movimento una parola che adesso ritorna nel cuore, come non abbia secoli e lingua straniera. Come avesse il sapore di una familiarità amorosa, di un sussurro intimo.


Ecco, io faccio una cosa nuova!

Una cosa nuova! Tu Signore, tu solo puoi fare qualcosa di radicalmente nuovo, di mai visto. Spezzare il già-visto che ha reso il nostro cuore duro come la pietra, inattaccabile dagli abbordaggi della Speranza. E allora la Parola insiste:


Essa già germoglia, non ve ne accorgete?


Non mi sto accorgendo di cosa? Che guardando dentro le ferite di questa terra riarsa si scorge un nuovo colore. Il colore della vita! Vita che germoglia, comincia a farsi spazio lì dove non era possibile che il regno della morte! Che il deserto possa davvero rifiorire?


Sì! Aprirò nel deserto una strada, farò scorrere fiumi nella solitudine! Mi glorificheranno le bestie selvatiche, gli sciacalli e gli struzzi, perché immetterò acqua nel deserto e fiumi nella steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto.


Improvvisamente gli occhi si aprono. Stupore! Posso ora seguire il Cristo con lo sguardo dentro quell'abisso che prima me lo aveva nascosto, inghiottito.


Quel grido di dolore con cui spirava nell'assurdo adesso lo avverto come uragano che si abbatte sull'impero della morte.


Non un povero condannato ora vedo, ma un re possente i cui piedi calpestano le porte degli inferi, le cui braccia spezzano tutti i catenacci infernali e ne dischiudono tutte le serrature. Esse giacciono al suolo infrante, aperte.


La discesa agli inferi del Re della gloria ne spalanca tutti i sepolcri, ne fa uscire gli uomini prigionieri. Tutti gli uomini schiavi del peccato e della morte, rappresentati da Adamo ed Eva, sono afferrati saldamente dalle mani del Cristo. Raggiunti nel loro abisso da questa terrificante discesa nelle loro tenebre ne partecipano ora alla vertiginosa ascesa verso il Padre della vita, nella gloria indicibile della Resurrezione.


Resurrezione!


Adesso questa parola comincia ad assumere forma e corpo! La mia croce, il mio deserto non è più lo stesso ora. Ne sono certissimo. Non avevo mai scorto questo germoglio di vita, questo Dio che non ti salva dalla morte, ma nella morte stessa, quando umanamente tu diresti la parola fine.


Acqua sgorga in mezzo a questa aridità spietata. Fiotti di vita, sprizzi di speranza, gorgoglìo di freschezza. Gratitudine. Gratitudine che non ti farebbe barattare un solo attimo dei deserti che hai vissuto per nessuna cosa al mondo.


Ora sai. Ora sei certo. Ancora non osi gridarlo alleluia...


Ancora vuoi assaporare in silenzio questa Vita, che insieme anche alle tue lacrime adesso fa fiorire il deserto...


Gesù è deposto dalla Croce e sepolto

venerdì 6 aprile 2007 alle 23:26
Un'altro pensiero dalla Via Crucis degli studenti di Villa Nazareth...



Diario di Giuseppe d’Arimatea,
membro autorevolissimo del Sinedrio di Gerusalemme

Notte fonda di venerdì di Parasceve. Se solo tutti sapessero crederebbero perché Lui era Dio. L’ho sentito quest’oggi. L’ho capito. Verso sera ho avuto l’ardire di presentarmi dal governatore Pilato perché volevo il corpo dell’uomo che pendeva al centro fra gli altri due, là sul monte del Cranio. Lui quasi non credeva fosse già morto, Gesù di Nazareth. Ebbe un attimo d’esitazione, ma la forza che condusse me da lui condusse lui a consegnarmi il corpo. Ora sento la febbre, qui accanto a queste candele che pure fremono perché sanno che le mie mani hanno avvolto Dio. È venuto con me Nicodemo e nessuno dei due ha strappato fatica alcuna dal suo cuore per calare quel corpo. Mi hanno raccontato che un centurione, poco prima, abbia aperto il suo costato. Ne sono usciti sangue e acqua. Adesso tutto mi è chiaro. Leggo bene le sue parole, quando ebbi modo d’incontrarlo. Adesso capisco. Abbiamo trasferito il Dio cadavere lì vicino, dove cresce un giardino fiorito ed il languore del gelsomino notturno ancora mi prude le membra. Mi pervade la mente la mirra e l’aloè che abbiamo versato sul Dio esangue e martoriato, fra le sue ferite. Financo la sua barba si era rilassata alla morte, le sue palpebre tacevano, ma quasi non recavano contrazione, nessun vestigio della sua eroica fatica. Non temevo la trasparenza del suo palmo, e neanche Nicodemo sembrava atterrito, più sbalordito. Adesso capisco, mie lucerne notturne, adesso leggo il piano di Dio, era lui Dio, quasi ancora in quel corpo. All’interno del giardino abbiamo trovato per il suo santo corpo un sepolcro tutto nuovo, appena scavato nella viva roccia, fresco e buio. È evidente, notte buia, è così come ho capito, adesso tutto riluce!!! Tenendolo per i piedi e per le spalle io e Nicodemo abbiamo rilassato le membra fredde fra la fredda pietra. Ecco: tutto ciò che è illogico per l’uomo adesso diventa chiaro per l’uomo. Lui, Iddio, il figlio di Dio, che è vissuto con me ed ha mangiato erbe con me e con i suoi seguaci e i peccatori di questo mondo, lui il mondo ha messo in croce, senza farlo morire nel mondo però. Ha scelto di sospenderlo fra il cielo e la terra di modo che neanche il suo corpo esalasse a contatto con questa terra, ma lassù, sospeso nel legno dei romani, piallato dai peccatori, artefatto dai traditori. Non è morto sulla terra Gesù, ma sospeso a due piedi dalla terra nera, come nero il cielo e i palmi delle sue mani. Così la terra ha conosciuto solo un dio vivente. Mai carne divina ha toccato da morta la terra…e questo è Amore, fiaccole mie, è tenero Amore infantile, e come di un bimbo (capisco solo adesso) ho raccolto i tessuti per avvolgerlo. Tessuti bianchi, puri, come le fasce di un bimbo appena nato che profumi di olii e di essenze, così il corpo del Cristo sembrava, luceva davanti le fiaccole che, anch’esse, parlavano di lui, della sua morte bianca…finita in un giardino dai bei colori e dalle belle forme, fino all’antro ove riposa adesso. Dio non è morto sulla terra ma è deposto dentro una grotta…tutto è chiaro: i nostri padri ci insegnano che l’oscurità delle grotte serba i segreti della Natura, quelli più intimi…e adesso, come un nuovo ventre, una caverna gelida e silenziosa, intatta e inalterata, nuova e vergine, ospita il corpo bianco di un morto puro, madido delle lacrime di tutta la natura al suo passaggio. Ora capisco tutto: forse che la natura stia gestando Dio per dargli la vita dopo la morte, la resurrezione che lo stesso Dio predicava a me, essere miserevole? Cosa significa tutto questo? Se solo Dio risolvesse la sua morte nella vita, allora tutto sarebbe finito, le mie congetture troverebbero ragion d’essere Verità, e quell’uomo in fasce dentro quell’antro recondito della natura sarebbe davvero Dio che prepara la sua resurrezione…se solo fosse tutto vero…ho fretta di aspettare, di capire se le mie congetture siano davvero la Verità…
Giuseppe d’Arimatea

Francesco Buè

Caduto nell'abisso della nostra morte

alle 16:14
Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno seguiva la sua strada. Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di tutti noi (Is 53,5-6).

Venerdì santo. Venerdì di passione. Una passione con mille sfaccettature, icone di amore come altrettante porte che conducono al Mistero del cuore appassionato di Dio. Tra le tante da meditare e imprimere nella mente e nel cuore, mi soffermo sul pannello tradizionale della Via Crucis dedicato alla caduta. E' l'abbassarsi, il precipitare di Dio nell'abisso della morte. E noi ci sentiamo così raggiunti, consolati, amati. Se la morte è solitudine, il suo farsi così vicino è già pegno di vita nuova.



Posto un pensiero tra quelli condivisi quest'anno dagli studenti di Villa Nazareth durante la consueta Via Crucis da loro animata.



La caduta



Prima ancora che per battermi il petto, prima ancora che per sentirmi colpevole, sono qui con voi questa sera a ripercorrere la via crucis del nostro Signore per sentirmi profondamente amato, per essere consolato e rassicurato.
L’idea di un Dio così come ce lo descrive Isaia, che sta sempre dalla tua parte, quando tutti ti sono contro, ed anche quando tu stesso sei contro di lui; che ti reputa tanto prezioso da dare la sua vita per te, soprattutto quando sei tu stesso a metterlo in croce; che ti ama quando non lo meriti; che ti sostiene e sorregge quando sbagli anziché giudicarti, dà una enorme consolazione.
Eppure spesso quest’idea, con tutta la sua bellezza e verità resta nella testa e non scende a scaldare il profondo del nostro cuore. Non diviene un’esperienza che si fa propria e che non abbandona mai. Alle volte ci sembra troppo bello per essere vero, ed il sospetto cresce, il dubbio resta: “E se non fosse vero?”.
Se guardiamo in noi stessi, alle nostre contraddizioni, ai nostri se e ma, possiamo intuire quale fosse il peso di quella croce.
Di fronte ad un dono così gratuito quanto sconvolgente ci sentiamo disorientati.

Pensiamo di poterlo o doverlo guadagnare, senza capire che proprio perché è dono, arriva quando non senti di poterlo ricevere.
La preghiera che rivolgo al Signore questa sera è che possa far conoscere ad ogni uomo sulla terra quanto sia preziosa la sua vita agli occhi di Dio e che questa consapevolezza possa essere luce e speranza nei momenti dello sconforto e della disperazione.
Amen!


Marco Del Romano



Esegesi della croce

alle 00:23
Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?» .
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» . Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!» . Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!» . Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti» . Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete mondi». Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. (Gv 13, 1-17).

A differenza degli altri evangelisti Giovanni non riporta il racconto dell'Istituzione dell'Eucaristia ma presenta una scena assente dai sinottici.
Una vera e propria esegesi del Triduo pasquale di morte e resurrezione.
Esegesi, spiegazione, manifestazione del senso di quel Corpo spezzato e di quel Sangue versato per molti, per tutti.
Gesù depone le vesti e consegna la sua vita in riscatto della nostra.
Il senso del suo morire è visibile adesso in quel suo chinarsi ai nostri piedi come l'ultimo dei servi.
Nel suo toccare con le sue mani la nostra umanità. Nel suo lavarla con infinita con-passione.

Un gesto inaudito.
Che imbarazza perchè sconvolge il nostro ordine interiore di valori.
Essere qualcuno per noi significa infatti avere, ricevere, essere degni dei servizi e dei favori di altri. Non essere qualcuno significa l'opposto: sottostare ad altri, dover dare ad altri - invece che a noi stessi e ai nostri desideri - tempo, energie, vita.
Non abbiamo ancora capito chi è Dio. Ma ora possiamo provarci.
Vedendolo chinato ai nostri piedi polverosi, sulle nostre indicibili miserie nascoste, supplicante di lasciarci lavare, dolcemente fermo contro le nostre stolte resistenze.
E anche amorosamente "minaccioso":

Se non ti laverò, non avrai parte con me.

E tu vuoi avere parte con me come io desidero essere con te. Lasciami fare.
Lascia che ti faccia capire che il senso della tua vita è amare fino alla fine (eis telos).
E tutto il resto non è che un mezzo, da assumere o no in base al fatto che ti faciliti questo fine.
Lascia che ti faccia capire che la beatitudine che cerchi è ad un passo da te.
Oltre il sapere... essa sta nel giocarti la vita per ciò che
forse sai già, ma ancora non vivi.

Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.


Vexilla Regis prodeunt, fulget Crucis mysterium

domenica 1 aprile 2007 alle 01:09
Entriamo nel mistero della Settimana Santa accompagnati da un pensiero che p. Pietro Bovati condivide su questo blog:

«Avanzano le insegne del re, rifulge il mistero della Croce», cosi inizia uno dei più celebri inni della Chiesa latina, cantato al venerdì santo. Ma questo canto ben si adatta anche alla liturgia della Domenica delle Palme, che unisce trionfo e Passione.

L’ingresso regale del Signore nella santa città di Davide è il trionfo del re di pace, la vittoria di Colui che viene a salvare il suo popolo, e a portargli riconciliazione, concordia e letizia. Con la processione liturgica, noi imitiamo la folla di Gerusalemme, che andò incontro al Signore con i rami di olivo, cantando: «Benedetto Colui che viene, osanna al Figlio di Davide». E così confessiamo, nei gesti semplici della fede, che Gesù di Nazareth è il nostro Signore, e che la sua regalità si afferma in questo mondo, anche se non è di questo mondo. Umili rami nelle nostre mani, per celebrare il vessillo del Re della terra, il vessillo della Croce, la nobile insegna della pace. Le insegne di Cristo devono tutte essere marchiate dal segno della mitezza, perché Egli, pur essendo di natura divina, per amore si umiliò fino a morire sulla croce (Fil 2,6-8), e, servo perfettamente obbediente alla volontà del Padre, non si è sottratto al supplizio dello schiavo ribelle, per poter riconciliare ogni cosa nel suo sangue innocente.

Questa è la via della pace, questo è il cammino del vero re, il cui Nome è sublime e davanti al quale si inchinano adoranti le potenze del cielo, della terra e degli inferi (Fil 2,10). La via della pace è la via del servizio umile, del dono gratuito che non si ritira di fronte al disprezzo. La via della pace è la via della Croce.

I rumori della guerra ci sono ormai fin troppo familiari, la cronaca riporta quotidianamente fatti anche di estrema crudeltà. Forse abbiamo preso maggiore coscienza di quanta violenza alberghi nei cuori umani, proprio nei nostri giorni, nonostante tante leggi sapienti, tante attestazioni di civiltà. Violenza nei paesi anche a noi vicini e a noi più cari, violenza nelle città bombardate, nelle strade percorse da profughi minacciati, nelle prigioni dove si tortura, nei campi, dove invece del grano si sparge il sangue. Violenza nelle nostre case, nelle segrete pieghe dell’incomprensione e dei frettolosi abbandoni. Violenza dell’indifferenza e della derisione.

Ma la via della pace, l’impossibile via della pace, è stata inaugurata e percorsa, trionfalmente, dal Signore Gesù; e questo è per noi motivo di speranza. Il suo sangue, versato in nome di un odio assurdo, è un sangue puro, è una medicina che risana la violenza. L’odio infernale non è capace di intaccare la purezza limpida dell’amore del Signore per i suoi fratelli. La violenza è inghiottita dalla misericordia. Un nugolo di testimoni, lungo secoli, fino ai nostri giorni, ha intrapreso la medesima strada; il corteo dei martiri avanza glorioso sotto il segno della Croce, guidando il nostro incedere.

Anche a noi, eredi di tanta speranza, è dato infatti di poter indossare la livrea del Cristo, di essere con lui nella via della pace, con gesti semplici di riconciliazione, con la paziente e coraggiosa testimonianza del bene, ad ogni costo; possiamo anche noi dare il nostro sangue, la nostra vita, amando senza attendere ricompense, sopportando le umiliazioni senza condannare nessuno. Anche noi possiamo, per il dono del Cristo, intraprendere la via della Croce, che è la via regale della pace.


Pietro Bovati SJ
(Pontificio Istituto Biblico - Roma)

 













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