Ci sono uomini che osano dire: "Così parla il Signore.."

venerdì 31 ottobre 2008 alle 23:20
Non posso non segnalarvi questo libro...
Se volete sapere come ha parlato e come parla ancora oggi nella storia il Signore Dio nostro...


La Bibbia attesta che Dio parla: parla per suscitare la ricerca, per insegnare all'uomo le sue parole, perché l'uomo nasca alla vita di figlio. Nello specifico, i profeti sono la testimonianza che la creatura è capace non solo di domandare, ma di ricevere il Mistero che si rende conoscibile in parole umane. Ed è in Israele che la profezia si afferma, si trasmette, si fa letteratura, per il bene di tutti.Le pagine del volume sono il frutto di una lettura dei profeti protrattasi diversi decenni, «lettura paziente e amorosa, che ha tentato di capire come il Signore parla, per farne partecipi i fratelli» (dalla Presentazione).
I vari contributi proposti dall'autore, nati in momenti diversi, ma successivamente rivisitati in modo da costituire un percorso di lettura unitario, ben consentono di esplorare le principali dimensioni del profetismo biblico. Due sono gli ambiti di maggiore rilevanza oggetto dello studio. Il primo (cc. 1-4) analizza la questione della definizione stessa del fenomeno profetico. Il secondo (cc. 5-11) esamina il contenuto della parola profetica, sviluppandone alcune tematiche, fra le più rilevanti. Tra queste va sottolineato come il genere letterario assunto dai profeti sia spesso quello della lite giuridica, che non costituisce affatto un verdetto di condanna, ma piuttosto una procedura volta a creare le condizioni per la riconciliazione, per un nuovo rapporto nella verità e nella giustizia.

Pietro Bovati, della Compagnia di Gesù, è professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove insegna ermeneutica biblica, esegesi e teologia dell'Antico Testamento. Ha pubblicato: Ristabilire la giustizia, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1986, 22005; Il libro del Deuteronomio (1-11), Città Nuova, Roma 1994; in collaborazione con R. Meynet, Il libro del profeta Amos, Edizioni Dehoniane, Roma 1995.

Vista la curiosità di Daniela allungo questo post con qualche altro pezzo tratto dalla Presentazione dell'Autore:


L’essere umano sa porre delle domande. Sentendo acutamente la spinta della sua natura intelligente, desidera conoscere, perché avverte che capire il senso di tutto è mediazione di vita. Ma la via del comprendere è l’interrogarsi, e l’uomo sa farlo.

Fin dal primo manifestarsi della coscienza, fin dai primi tentativi del parlare, il bambino chiede il perché dei fenomeni e ne questiona la finalità. Nel dialogo con chi è più grande, il piccolo spinge il suo interrogare fino all’estremo, in maniera talvolta esasperante; e fa l’esperienza dunque che ci sono molte domande che rimangono sospese, constata che ci sono più interrogativi che risposte adeguate. Ma questo non spegne il suo ricercare; il suo questionamento si affina anzi di fronte al mistero, si purifica forse, e, crescendo negli anni, può trasformarsi in ricerca pura del senso ultimo della vita, può diventare ricerca di Dio.

E allora le domande assumono una tonalità diversa, più umile, più attenta: l’uomo sa infatti che non può ottenere risposta se l’oggetto, o meglio se il soggetto che è ricercato non decide lui stesso di venire benignamente incontro, parlando, a chi desidera conoscerlo. La Bibbia attesta di questo evento, narrandone la storia. Dice che Dio parla, e lo fa anzi prima ancora che l’uomo sia in grado di ascoltare e di chiedere. Dio parla infatti per suscitare la ricerca, parla per insegnare all’uomo le sue parole, parla dunque perché l’uomo entri in un dialogo di desiderio, di fiducia, di rivelazione. Dio parla perché l’uomo nasca alla vita di figlio.

I profeti sono la meravigliata testimonianza che l’uomo può cercare e ascoltare Dio, essi sono il segno storico che la creatura non è solo capace di domandare, fermandosi alle soglie del mistero, ma è in grado anche di penetrare nell’abisso della verità, senza perdersi, perché, per amorosa condiscendenza, l’Origine insondabile del tutto si fa conoscere, in parole umane, in discorsi che ognuno può accogliere.

Qualche timido barlume di questa sublime conoscenza è stato intravisto in tutte le culture, fin dai primordi della civiltà. Ma è in Israele, in un lembo minimo della terra abitata, in un piccolo popolo, praticamente ignorato dalla storiografia antica, che questa consapevolezza e questa grazia si sono pienamente manifestate. È in Israele che la profezia si afferma, si trasmette, si fa letteratura, per il bene di tutti.

Noi siamo «i figli dei profeti» (At 3,25); ciò che conosciamo di Dio, quel prodigio inimmaginabile di grazia che l’occhio non può vedere (1Cor 2,9) ci è stato rivelato in parole umane, ed è giunto a noi, generazione dopo generazione, come una magnifica eredità di cui vivere. La divina rivelazione è condensata nelle parole profetiche, pronunciate nello Spirito, per degli esseri spirituali: parole sacre e vitali, che ci dicono la verità e ci chiamano all’essere. Così parla il Signore, e parlando nello Spirito ci comunica il medesimo Spirito.

L’uomo desideroso di verità ricerca nelle più alte forme della letteratura, della filosofia e della teologia quelle aperture di luce che sono la traccia del senso, la traccia di Dio. Molte esitazioni, molti dubbi, molte delusioni si producono però nella coscienza di fronte alla variegata e disparata gamma di voci che pretendono assenso. L’incertezza può frenare il desiderio, può far abbandonare l’impegno per la verità.

A chi vive questa dolorosa esperienza di oscurità, a chi non riesce a trovare in se stesso le risorse per un deciso orientamento di vita, viene in aiuto la parola dei profeti, accolta dalla tradizione credente, riconosciuta nella comunità come vera parola di Dio. A questa parola ognuno «fa bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro» (2Pt 1,19), perché lo sguardo viene affinato dalla contemplazione rispettosa di tale testimonianza, perché il cuore diventa progressivamente capace di discernimento, così che, guidato dolcemente dalla parola di un fratello (Es 7,1; Dt 18,15.18), sappia riconoscere nella sua storia concreta la presenza di Dio. Istruiti dai profeti, i credenti vedono la luce, e la stella del mattino si leva nei loro cuori (2Pt 1,19), appare loro la beata manifestazione della vita vera, che si è consegnata nell’evento del Signore Gesù, vertice sublime della divina rivelazione, il Verbo nel quale Dio ha condensato ogni sua parola.

Eredi di un così prezioso tesoro, noi diventiamo a nostra volta capaci di profezia. Le nostre parole si trasformano nell’assimilazione graduale della Parola, il nostro cuore e la nostra vita si dilatano e si nobilitano a motivo dell’obbedienza alla voce di Colui che rinnova ogni giorno la sua creazione per mezzo dello Spirito (Sal 104,30). «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore», sospirava Mosè, testimone di un dono di profezia fatto a pochi (Nm 11,29); «tutti profetizzeranno» dal più piccolo al più grande, uomini e donne, giovani e vecchi, annunciava Gioele (Gl 3,1-2); e questa profezia si compie nella Pentecoste, quando il credente diventa luogo dello Spirito e principio di parola profetica (At 2,4.17-19).

Un tale progetto divino, corrispondente alle più segrete e quasi inconfessate aspirazioni dell’uomo, un tale disegno, proporzionato al bisogno più radicale della persona di vivere in verità, tale mistero di grazia, concesso largamente a tutti, dovrebbe risultare facile da riconoscere, come aprire gli occhi al fulgore della luce. Eppure «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5), eppure il Verbo «venne fra i suoi, ma non fu riconosciuto» (Gv 1,11); Dio manda i suoi servi, i profeti, con paziente fedeltà, con instancabile premura (Ger 7,25), ma gli uomini rifiutano di ascoltare, respingono il dono (Mt 22,5). E questo perché la voce di Dio scuote le foreste (Sal 29,5), penetra nel cuore rivelandone il male nascosto e perverso (Lc 2,35; Eb 4,12), impone scelte coraggiose, e persino il sacrificio della vita. E l’uomo ha paura di morire, l’uomo di fronte a questa luminosità teme di essere accecato, teme di dipenderne, teme di soccombere.

E allora assistiamo al paradosso di una storia che mostra il sistematico rifiuto del rivelarsi di Dio. Proprio ciò che si desidera nel più intimo della coscienza, proprio questo viene respinto, perché difficile, perché incredibile, perché sovrumano. [...] continua...

Stanchezza

sabato 18 ottobre 2008 alle 17:34

"Verrà un giorno in cui


gli uomini saranno così stanchi degli uomini,


che basterà loro parlar di Dio per vederli piangere".




Lèon Bloy

Tutto è pronto! (ma è' una festa non un funerale...)

domenica 12 ottobre 2008 alle 13:39

Il Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchet­to di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chia­mare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire... Matteo 22, 1-14

Diciamo la verità.
E una parabola impossibile.
Riesce difficile, infatti, ammettere che degli uomini possano ri­fiutare un invito a nozze. Tanto più che si tratta di un re, non di un individuo qualunque.
E poi non c'è proprio nulla da perdere. « Tutto è pronto ». L'invito è all'insegna della più assoluta gratuità. Viene richiesta unicamente la presenza. Anche a mani vuote.
E riesce ancora più arduo comprendere, dopo il rifiuto dei pri­mi destinatari, quell'invito indifferenziato: « Andate ai crocicchi delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze ».

Notiamo quel « tutti », senza distinzione.
Di fatto, « usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali ».

Che banchetto regale è mai questo, in cui vengono abolite le differenze, azzerati i ranghi, annullati i meriti, e addirittura i buoni si ritrovano a fianco con delle persone « indegne »?
Non c'è gusto. Via, un minimo di selezione, di classe. Non è bello ritrovarsi intruppati in una combriccola così scalcagnata. Il rango, le benemerenze acquisite, il buon nome, dovrebbero pur va­lere qualcosa.

Se il re premia così anche i cattivi, non vale proprio la pena comportarsi onestamente.
Infine, il terzo elemento « impossibile » della parabola: l'uomo sorpreso senza abito di nozze. Sembra strano che soltanto questo disgraziato sia stato ritenuto «indegno ». Eppure il reclutamento è stato fatto senza guardare troppo per il sottile. Naturale che gen­te presa alla sprovvista, agli angoli delle strade, non potesse pre­sentarsi abbigliata con decoro.
Già. Una parabola « impossibile ».

Perché sono non solo strani, ma addirittura «impossibili » i comportamenti degli uomini nei confronti di Dio. Impossibili ma reali, abituali.
Se Dio convocasse per una puntigliosa resa di conti, oppure per una discussione su alcuni problemi urgenti, non c'è dubbio che lasceremmo da parte ogni cosa, interromperemmo qualsiasi at­tività, ci presenteremmo puntualmente, compresi della gravità del­la cosa.
Oserei dire che se Dio ci chiamasse, come un Padrone esigente, a portare i frutti del nostro lavoro, a pagare ciò che Gli è dovuto, a regolare le nostre pendenze, faremmo la fila alla Sua porta, pa­zientemente. E i servi dovrebbero intervenire per disciplinare l'af­flusso.
Dio, invece, ci sorprende con l'invito a un banchetto nuziale. Che seccatura!
L'ideale cristiano non è una morale opprimente, ma una beati­tudine. Il credente non è uno schiavo curvo sotto il giogo di un codice, ma una persona liberata. L'esistenza cristiana non è una condanna, ma una festa.

E ciò ci sorprende, ci coglie alla sprovvista. Ci irrita.

La giustizia, la severità, la costrizione sono normali, logiche. La gratuita', quella dà scandalo.
Il dono imprevedibile, immeritato, quello non riusciamo pro­prio ad ammetterlo.
E allora non prendiamo neppure in considerazione l'invito. Non lo discutiamo.
Semplicemente, lo ignoriamo.
Ci comportiamo come se quella convocazione alla gioia non fosse mai risuonata alle nostre orecchie.

« Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari ».
La vita continua affogata nelle solite meschinità, dispersa nelle solite cose insignificanti. Importante è correre, affannarsi, anche se non sappiamo dove si va e perché. Ci teniamo tanto alle nostre schiavitù quotidiane. Meno esigenti, dopo tutto, che non la libertà.
Qualcuno adotta perfino un comportamento villano e criminale
nei confronti dei messaggeri: « Presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero »
Fossero state guardie armate, incaricate di recapitare un man­dato di comparizione, le avrebbero seguite rispettosamente.

Quelli, invece, erano disarmati e recavano un invito. Un'offesa intollerabile.
L'uomo riscopre tutta la sua carica di violenza e di aggressività dinanzi a Chi non impone nulla, offre senza chiedere nulla in cambio.
L'uomo è disposto a pagare.
La gratuità gli è intollerabile.
L'uomo, ahimé, non sa usare le mani vuote per ricevere.

Ma fermiamoci sull'inquietante individuo sorpreso senza abito nuziale.
I commenti si sprecano. E non sempre convincono.
Qualcuno parla di opere buone, di virtù.
Evidentemente ci si dimentica che là dentro sono stipati « buoni e cattivi ». Il re, ovviamente, non ha richiesto il certificato di buo­na condotta. Sarebbe assurdo lo pretendesse a pranzo iniziato.
Mi pare, invece, assai interessante l'intuizione di un commen­tatore contemporaneo, A. Maillot, il quale spiega: quell'individuo ha frainteso sul significato dell'invito. Ha creduto di dover parte­cipare a un funerale, non a un pranzo di nozze.
E il simbolo di quei cristiani che non arrivano a credere che il Regno è un banchetto nuziale. E si vestono, e adottano una faccia come per una sepoltura.
E l'immagine del « credente, ma rivestito di severità, austerità, tristezza, silenzio, mentre invece bisognerebbe indossare l'abito del­la gioia e della speranza. Un uomo che si fa l'idea che occorra por­tare la tristezza del mondo, invece di recare al mondo il sorriso di Dio».
Proviamo a domandarci: il clima delle nostre assemblee litur­giche rivela che siamo seduti intorno alla mensa per festeggiare le nozze del Figlio, oppure che compiamo una mesta, pesante, noiosa cerimonia?

Il nostro volto esprime la gioia dei risuscitati, degli invitati a celebrare la vittoria dei Cristo sulla morte, oppure tradisce la cu­pezza, la sofferenza, la sfiducia, o, peggio, la noia?
Oh, lo so. Qualcuno tirerà in ballo la fame nel mondo, la vio­lenza, la minaccia nucleare, i regimi oppressivi.

Ma questo qualcuno non comprende che la gioia non è evasione. La gioia è una forza. E una sfida. E qualcosa che afferra il cristiano quando celebra l'Eucarestia e lo costringe ad andare a re­carla in un mondo senza pace e senza gioia.
La gioia il cristiano non la tiene per sé. Né la rinchiude all'in­terno della chiesa.
In questa prospettiva, indossare l'abito di nozze significa met­tersi addosso il vestito da lavoro...

A. Pronzato

Il cardinale Martini: sento la morte come imminente

domenica 5 ottobre 2008 alle 23:43



MILANO — «Io, vedete, mi trovo a riflettere nel contesto di una morte imminente. Ormai sono già arrivato nell'ultima sala d'aspetto, o la penultima…». Il cardinale Carlo Maria Martini parla con un filo di voce ma sorride, «è stato un atto di audacia e anche di temerarietà chiamare a parlare una persona anziana che non sa se potrà esprimere bene le cose o tenersi in piedi», nell'auditorium dei gesuiti di San Fedele non vola una mosca, la gente ha gli occhi lucidi e l'arcivescovo emerito di Milano prosegue sereno, è arrivato appoggiandosi a un bastone ma lo sguardo e il pensiero non vacillano.

La sala è piena, si presenta il libro Paolo VI «uomo spirituale» (ed. Istituto Paolo VI-Studium), una raccolta di scritti martiniani su Montini curata dal teologo Marco Vergottini. E tanti sono rimasti fuori, l'attesa è grande quanto la commozione per il «ritorno» del cardinale biblista a Milano, anche se da qualche mese «padre Carlo» è tornato da Gerusalemme e risiede nella casa dei gesuiti a Gallarate. «Con i vostri tanti gesti di bontà, di amore, di ascolto, mi avete costruito come persona e quindi, arrivando alla fine della mia vita, sento che a voi devo moltissimo», sorride ancora ai fedeli, quasi fosse un congedo. Gli ottantun anni, il Parkinson. E il tema della morte, quello che nel libro Martini chiama con espressione dantesca «il duro calle». Quando l'attore Ugo Pagliai legge il «pensiero alla morte » di Paolo VI, « …mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce… », il cardinale ascolta col volto affondato nelle mani aperte. «Se dovessi non lo scriverei così. È troppo bello, è meraviglioso, lirico», spiega Martini. «Come ho osservato nel libro, ritengo che il testo di Montini sia stato scritto anni prima, quando sentiva la morte incombente ma non imminente».

Della sua morte, invece, il cardinale parla come «imminente». Ed è qui che ha accenti wittgensteiniani, il pensiero sul limite della vita diventa un'interrogazione sui limiti del linguaggio, «chi si trova in questa situazione, dovrebbe piuttosto sentirsi scarnificato nelle parole, e questo è per me un problema irrisolto: come descrivere una realtà tutta negativa con parole razionali che tuttavia, in quanto razionali, devono esprimere una esperienza positiva».
«Dire» la morte. È una riflessione che nel cardinale si è fatta via via più urgente negli ultimi anni. L'anno scorso, nella basilica dei Getsemani a Gerusalemme, aveva salutato i pellegrini ambrosiani con una lectio vertiginosa sulla Passone e l'«angoscia » di Gesù, «il greco il termine è agonia e significa lotta, conflitto, tensione profonda». Martini non ama i discorsi facilmente consolatori, come sempre trova il modo di parlare «al credente e al non credente che è in ciascuno di noi» e guarda in faccia «il duro calle». Davanti all'«affidamento totale a Dio» di Montini, scrive nel libro, «mi sento assai carente. Io, per esempio, mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito».

E invece «Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell'oscurità che fa sempre un po' paura». Ma qui sta l'essenziale: «Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle "uscite di sicurezza". Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio». È l'insegnamento di Montini, «per me fu un po' come un padre». Perché ciò che ci attende dopo la morte «è un mistero » che richiede «un affidamento totale»: «Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani».


Il "relativismo" di Francesco d'Assisi

sabato 4 ottobre 2008 alle 11:13

Dalla “Lettera ai fedeli” di San Francesco d’Assisi"
A tutti i cristiani, religiosi, chierici e laici, maschi e femmine, a tutti coloro che abitano nel mondo intero, frate Francesco, loro umile servo, ossequio rispettoso, pace vera dal cielo e sincera carità nel Signore.

Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare a tutti le fragranti parole del mio Signore. Per cui, considerando che non posso visitare i singoli a causa della malattia e debolezza del mio corpo, ho proposto con la presente lettera e con questo messaggio, di riferire a voi le parole del Signore nostro Gesù Cristo, che è il Verbo del Padre, e le parole dello Spirito Santo, che sono spirito e vita (Gv 6,63).

L’altissimo Padre annunciò che questo suo Verbo, così degno, così santo e così glorioso sarebbe venuto dal cielo, l’annunciò per mezzo del suo arcangelo Gabriele alla santa e gloriosa Vergine Maria, dalla quale ricevette la carne della nostra fragile umanità (Cfr. Lc 1,31). Egli, essendo ricco (2Cor 8,9) più di ogni altra cosa, volle tuttavia scegliere insieme alla sua madre beatissima la povertà. E prossimo alla sua passione, celebrò la Pasqua con i suoi discepoli, e prendendo il pane rese grazie, lo benedisse e lo spezzò dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. E prendendo il calice disse: Questo è il mio sangue del nuovo testamento, che per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati (Mt 26,26-28; Lc 22,19-20; 1Cor 11,24-25).
Poi, rivolto al Padre pregò dicendo: Padre, se è possibile, passi da me questo calice. E il suo sudore divenne simile a gocce di sangue che scorre per terra (Mt 26,39; Lc 22,44). Depose tuttavia la sua volontà nella volontà del Padre dicendo: Padre, sia fatta la tua volontà, non come voglio io, ma come vuol tu (Mt 26, 39).
E la volontà del Padre fu tale che il suo figlio benedetto e glorioso, dato e nato per noi, offrisse se stesso cruentemente come sacrificio e come vittima sull’altare della croce, non per sé, per il quale tutte le cose sono state create (Gv 1,3), ma per i nostri peccati, lasciando a noi l’esempio perché ne seguiamo le orme (1Pt 2,21).
E vuole che tutti siamo salvi per Lui, e che lo si riceva con cuore puro e corpo casto. Ma pochi sono coloro che lo vogliono ricevere e vogliono essere salvati da Lui, sebbene il suo giogo sia soave e il suo peso leggero (Mt 11,30)."

Preghiera dell'Equinozio d'Autunno

giovedì 2 ottobre 2008 alle 18:24


Signore, non sono necessarie
le penne degli angeli
e i languidi cori celesti:
ci bastano le penne del passero
e il canto stridulo del merlo
tra le foglie del platano.


Strade d'autunno fasciate di nebbia
e case che s'accendono
e fanno lume nella notte.
Signore, non c'è bisogno
di grandi stelle comete:
bastano queste luci
e queste case,
se vieni a cenare con noi
(e, se vieni,ti prego,
non entrare a porte chiuse:
è così dolce
la chiave che canta nella toppa,
quando si attende l'amato!).


Io non attendo altre strade,
io non ti chiedo altre case
o altre sere
o altri mondi;
ma questo,
questo dolcissimo mondo
abitato da te.


E ceneremo insieme,
nelle sere d'inverno;
e correremo insieme, a primavera,
e sosteremo insieme, nell'estate,
sotto l'ombra dei frassini;
e l'usignolo canterà l'amore.
E noi saremo un nodo inestricabile
come l'edera e il tronco,come la vite e l'uva".

 













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