Chi sono?

martedì 30 ottobre 2007 alle 08:48


Chi sono?


Chi sono? Mi dicono spesso

che dalla mia cella esco

sciolto, allegro e sicuro

come un signore dal suo castello.


Chi sono? Mi dicono spesso

che coi miei sorveglianti parlo

libero, amichevole e chiaro

come fossi io a comandare.


Chi sono? Mi dicono anche

che i giorni della disgrazia sopporto

indifferente, sorridente e fiero

come uno abituato a vincere.


Sono veramente quello che gli altri dicono di me?

Oppure soltanto quello che io so di essere?

Inquieto, nostalgico, malato, come un uccello in gabbia,

lottando per un soffio di vita come se qualcuno mi serrasse la gola,

assetato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,

bramoso di parole buone, di calore umano,

tremante di rabbia dinanzi all’arbitrio e all’ingiuria più meschina,

roso dall’attesa di grandi cose,

anelando impotente amici infinitamente lontani,

stanco e vuoto per pregare, per pensare, per creare,

esausto e disposto a prender congedo da tutto?


Chi sono? Questo o quello?

Oggi son questo e domani un altro?

L’uno e l’altro contemporaneamente? Un ipocrita dinanzi agli uomini

e dinanzi a me stesso un disprezzabile, compassionevole rottame?

Oppure ciò che ancora c’è in me somiglia a un esercito sconfitto,

che si ritira in disordine davanti a una vittoria già conquistata?


Chi sono? L’interrogativo solitario si prende gioco di me.

Chiunque io sia, tu mi conosci, sono tuo, o Dio!


Dietrich Bonhoeffer


(Nato a Breslavia, 4 febbraio 1906 – ucciso per impiccagione nel campo di concentramento di Flossenbürg, Baviera, 9 aprile 1945; fu un pastore e teologo evangelico tedesco ed uno dei protagonisti della resistenza al Nazismo. Per conoscere la sua biografia essenziale cliccate qui)


Ruini: "Sorelle, fatevi un blog"

lunedì 29 ottobre 2007 alle 22:57

Per le suore l'ultimo invito del cardinale: «Andate a parlare su Internet»

Giacomo Galeazzi - Città del Vaticano
Santo Web. Il cardinale Camillo Ruini esorta le suore a «navigare su Internet e a scrivere sui blog». Una riabilitazione sorprendente della Rete nelle cui maglie telematiche sono rimasti intrappolati alcuni prelati «chattatori » come il capufficio della congregazione per il Clero, monsignor Tommaso Stenico e i frequentatori in talare del sito «venerabilis.tk». Il vicario di Benedetto XVI invita le religiose ad utilizzare di più gli strumenti che la tecnologia informatica mette a disposizione di tutti nel mondo della comunicazione. «Suore, navigate su Internet e scrivete sui blog», è il messaggio del cardinale Ruini all'Unione superiori maggiori (Usmi), che a Roma rappresenta 1.287 comunità e oltre 22 mila suore. La chat, quindi, come terreno di evangelizzazione del terzo millennio.

«Un sacerdote mi ha riferito che il tema "Gesù" è molto dibattuto sui blog dai ragazzi. Il loro approccio però è impostato da libri distruttivi oggi molto diffusi, e non dal testo di Benedetto XVI su "Gesù di Nazareth" - spiega il vicario papale alle religiose -. Quale sarà tra dieci anni l'idea di Cristo se queste idee dovessero avere la meglio? Io non mi intendo di Internet, ma specialmente le giovani suore dovrebbero entrare nei blog per correggere le opinioni dei ragazzi e mostrare loro il vero Gesù». Le suore, precisa il vicario del Papa, possono fare molto in questa «nuova forma di apostolato ».


L'obiettivo per il programma annuale dell'Usmi nella diocesi di Roma, d'altronde, è proclamare che «Gesù è il Signore, educare alla fede, alla sequela, alla testimonianza». Quindi, la web-predicazione è pienamente in linea con il mandato delle religiose. «L'emergenza educativa è al centro delle preoccupazioni di Benedetto XVI». Nessuna barriera verso il linguaggio dei blog, anzi più delle tecniche di educazione, per il porporato, conta la testimonianza dell'educatore e il suo contenuto.

Per questo, il cardinale Ruini fa appello alla «creatività » degli educatori di fede per trovare le occasioni di diffondere il libro di Benedetto XVI «Ci sono poi le scuole cattoliche, in cui le suore possono testimoniare Cristo in tutti gli insegnamenti, nelle scienze, nella storia e perfino nella letteratura italiana, in un inscindibile connubio di fede e cultura», ribadisce il vicario papale. Ma non bastano. «La vostra creatività deve trovare strade nuove per la sfida vocazionale, che deve evolversi di pari passo con la società».
fonte: La Stampa

Chi ha il cuore puro?

domenica 28 ottobre 2007 alle 10:32

Chi ha il cuore puro?

Colui che non contamina il proprio cuore né con il male che commette, né con il bene che fa.


(da D.Bonhoeffer, citato da F.Varillon, L'umiltà di Dio, Ed. Qiqajon, Bose, 1999, p.99)

I periodi di deserto

venerdì 19 ottobre 2007 alle 22:13


Ci risentiamo tra una settimana circa... vado a farmi un ritiro e un po' di deserto, un saluto a tutti!


I periodi di deserto (di René Voillaume)

I periodi di deserto sono essenziali per approfondire la nostra vita di preghiera. Deserto non è sinonimo di ritiro: non ogni luogo di ritiro è un deserto e ciò che normalmente si chiama esercizio di ritiro spirituale non è paragonabile a un periodo di deserto.

Ogni luogo porta in sé un significato spirituale nella misura in cui, attraverso i nostri sensi, contribuisce a imprimere un segno sul nostro spirito. San Giovanni della Croce aveva capito l'importanza dei luoghi come mezzo per disporre alla contemplazione. Il deserto non è solamente un luogo solitario e silenzioso, come se ne possono trovare molti nel mondo e persino nel cuore delle nostre città.

Il deserto è più di un luogo di ritiro, perché nella sua estensione e nel suo vuoto porta dei valori che gli sono propri. In quanto tale, il deserto non serve a nulla all'uomo e lo spazio occupato da queste solitudini aride sembra senza senso di fronte agli spazi più ristretti riservati alle regioni fertili e sovrappopolate. Come la preghiera di pura adorazione, di cui èl'immagine, il deserto non è apparentemente di alcuna utilità per l'uomo. Il deserto porta l'uomo al limite della sua debolezza e della sua impotenza e lo obbliga a cercare forza in Dio solo. Porta in sé il segno della povertà, dell'austerità, dell'estrema semplicità, della totale impotenza dell'uomo che scopre la sua debolezza, poiché l'uomo non è in grado di autosussistere di per se stesso di fronte al deserto.

D'altronde, è Dio che conduce al deserto, poiché lo spirito non può rimanervi senza essere nutrito direttamente da Dio. :È in questo, che un periodo di deserto differisce da un ritiro in cui è bene, al contrario, cercare tutti i mezzi esteriori possibili per rinnovare e raccogliere la fede: conferenze, partecipazione alla liturgia, preghiere in comune, colloqui con un direttore spirituale. Questi ritiri sono necessari e d'altronde possono richiedere, secondo la maturità spirituale di ciascuno, dei vari gradi di solitudine.

Il deserto, al contrario, è un tentativo di avanzare nudi, deboli, privi di ogni appoggio umano, nel digiuno del cibo terrestre e anche spirituale, verso l'incontro con Dio. E non potremmo andare lontano, se Dio stesso non ci mandasse il suo cibo come ha fatto per Israele, per Elia, coricato e spossato sotto il ginepro.

La nostra preghiera, anche quando è il risultato di una attività delle virtù teologali, comporta sempre una rispettosa- attesa del cibo divino. Il periodo di deserto è una prova, un test} come un tentativo pieno di fiducia per sollecitare Dio a venire verso di noi, nella nostra impotenza, per condurci a lui. Ciò che, dunque, è essenziale, in un periodo di deserto, èlo spogliamento totale e l'attesa serena e silenziosa di Dio in una certa inattività delle nostre capacità.

Questa attesa passiva, senza una risposta di Dio sarebbe nociva se si prolungasse molto, ma è piena di vantaggi se èbreve, come un grido di aiuto lanciato verso Dio e di cui noi abbiamo bisogno, di tanto in tanto, per sostenere la nostra preghiera.

Non bisogna intraprendere ritiri prolungati nel deserto sconsideratamente, senza direzione spirituale e, comunque, bisogna sapersi comportare in modo tale da essere pronti, seguendo la risposta di Dio, a mescolare all'attesa silenziosa e allo spogliamento il cibo spirituale necessario per non indebolirsi e non ridursi all'inerzia, con il pretesto di aver voluto raggiungere, con le nostre forze, la montagna sulla quale solo Dio può condurci.

Per andare nel deserto, bisogna dunque credere che Dio può venirci a trovare nella preghiera e, per ottenere la grazia di questa visita, bisogna desiderarla con fiducia e gioia. La giornata nel deserto viene a ricordarci regolarmente la necessità di questa attesa. Ci ricorda le condizioni di preparazione necessarie per ricevere questa grazia: l'umiltà del cuore, il non fare affidamento su se stessi, accettare l'assenza delle consolazioni sensibili e l'austerità di questo modo di incontrarci con Dio; perché, se lo Spirito Santo ci visita, ciò non accadrà se prima non ci saremo dimenticati di noi stessi.

Per diventare un cammino verso Dio, il deserto deve essere accettato con spirito di assoluta povertà. Senza spogliamento e silenzio interiore, il deserto non sarebbe che un ostacolo alla preghiera. È anche nella nudità del deserto che cadranno le illusioni di tutto ciò che ingombra il nostro cuore. Non si può sopportare di camminare a lungo, soli nel deserto, se non si ha il cuore semplice e povero e se dalla vita ci si aspetta ancora qualcos'altro che Dio solo.

È per questo che le tentazioni di renderci utili agli uomini, in modo diverso, dall'affermazione vitale della trascendenza divina o dell'amore divino, la tentazione di instaurare il regno di Dio con mezzi diversi da quelli usati da Gesù stesso, non saranno definitivamente vinte se non nel deserto, come fu per Gesù.

L'esperienza ci porta a costatare che noi siamo molto più tentati nel deserto, e saremmo inclini a concludere che è meglio evitare di andarvi. No, non siamo più deboli nel deserto che altrove: siamo posti nella condizione di fare una scelta più assoluta e radicale, scelta le cui alternative, durante la nostra vita abituale, vengono sbiadite dalla molteplicità delle attività quotidiane e da innumerevoli compromessi più o meno coscienti.

Quando andare a scuola costa fatica

martedì 16 ottobre 2007 alle 22:20

Approfitto di questo mio periodo di permanenza a Vohemar per metter giù qualche riga per la rubrica che ci viene gentilmente offerta su In Cammino. Qui, tra una visita e l’altra alle nostre scuole sparse nelle campagne, al dispensario che assiste i bambini a noi affidati, trovo un po’ di tempo in più. Sono sempre in ritardo con i contributi - il Direttore me lo rimprovera sempre - ma qui tutto scorre ad una velocità diversa e ci si abitua…

Ieri abbiamo visitato il villaggio d’Anjavibe, a 60 Km di pista da Vohemar. La strada è brutta, ma non impossibile visto che non piove da vari giorni. La stagione delle piogge e dei cicloni (quest’anno due particolarmente forti) si allontana ed alcune strade cominciano ad essere percorribili. Per la stagione secca occorre comunque aspettare Maggio.

Arriviamo sul posto dopo tre ore e più di jeep. Ci aspettano il catechista del villaggio ed alcuni cristiani. Il motivo del viaggio è un progetto di costruzione di una nuova scuola elementare.

Fin’ora i bambini dei villaggi nei dintorni devono recarsi per lo studio primario a Vohemar o Milanoa, due centri più grandi, ma distanti dai 50 ai 100 km. Non potendo ritornare a casa, i bambini vivono in piccoli gruppi di 5-6, in capanne ad affitto, tutti dai 7 ai 12 anni. Sono loro stessi a dover provvedere a tutto, cucinare, lavare i panni, disbrigarsi nelle varie faccende. Certo vi riescono bene, perché ogni bambina malgascia a 8 anni sa fare tutti i servizi di casa, spesso è lei ad occuparsi totalmente di un fratellino più piccolo se la mamma deve accudirne altri; ma vivere lontani dalla famiglia in tenera età, lasciati a se stessi, si rivela spesso dannoso e pericoloso. Qualche settimana fa una bambina di queste, di solo 8 anni, è morta di malaria per mancanza di medicine. Gli altri bambini che vivevano con lei non sapevano cosa fare. I genitori erano a 50 km. Le hanno saputo preparare solo qualche bevanda calda, ma occorrevano delle medicine. Ed è morta dopo tre giorni di febbre altissima.

Morire a otto anni per un farmaco: è una storia triste ma ricorrente qui. Che fa comunque pensare. A me personalmente pone degli interrogativi. Quanti farmaci si sprecano nei paesi ricchi! Dio potrà forse giudicare allo stesso modo questa bambina e noi che moriamo ingozzati di medicine inutili e di spreco? Ma tutti questi giudizi li lasciamo a lui.

Dicevo che andiamo lì per vedere il posto dove sorgerà la scuola. Alcuni cristiani ci hanno offerto un pezzo di terreno. Altri benefattori dall’Italia ci aiuteranno sicuramente per la costruzione della scuola. E così tanti bambini potranno studiare nel loro villaggio o almeno vicino, potranno essere più seguiti dai loro genitori, recarsi più frequentemente a casa. Potranno in fondo avere quello che gli spetta. Da noi si chiama diritto all’educazione. Non chiedono molto ma solo di studiare.

Tornando giù da Anjavibè gruppi di bambini affollano la pista. A gruppi, con qualche piccolo bagaglio ed un po’ di riso in delle saccocce, ritornano al luogo di studio dopo le vacanze pasquali. Vi faranno ritorno solo per le vacanze estive. Scherzano e ridono per strada, con la loro gioia, quella dei bambini. Non vanno al parco giochi o al cinema, ma solo a studiare a 60 Km, da soli, a piedi, come piccoli uomini e donne. Loro non sanno che avrebbero diritto ad altro. E lasciamoli così. Ma noi?

p. Lorenzo Gasparro, cssr

Memoria del cuore: cantare la vita e vivere il canto

domenica 14 ottobre 2007 alle 11:15

Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!» ( Lc 17, 11-19)

Il vangelo di oggi ha una lezione che non è facile per noi accettare fino alle estreme conseguenze. O meglio è un insegnamento in due tappe di cui è più facile capire la prima che vivere la seconda.

La prima è questa, mi pare: la memoria del cuore.

Imparare la riconoscenza. Quanto è difficile! E' difficile persino tra gli uomini, figuriamoci con Dio...
Tra di noi, come capita poco di offrire un vero ringraziamento per i favori o l'amore ricevuto! Sì, sì, per carità, a fare i convenevoli siamo buoni tutti, a dire "grazie" con le parole siamo bravi...
Ma avere veramente un atteggiamento di riconoscenza? Ossia essere consapevoli di quanto quotidianamente riceviamo dagli altri, fosse anche un saluto? Il guaio è che tutto ci sembra dovuto, meritato, guadagnato...

Lo stesso è con Dio: può essere facile ringraziarlo di fronte ad una grazia straordinaria... ma vivere di riconoscenza ogni giorno? Quanto raramente ci nasce in cuore il ringraziamento per tutti i doni "ordinari" ma immensi di cui Egli ci riveste! Ringraziare di avere ancora fede, di avere ancora vita e giorni per imparare ad amare! Tutto è dono e nulla ci è dovuto.

La seconda tappa è ancora più difficile: lasciare da parte il nostro muso davanti alle contraddizioni e alle difficoltà del nostro oggi, e celebrare la vita, aprirsi alla lode quando i tuoi occhi sono gonfi di lacrime.

Non avete mai pensato che la tristezza che tante volte ci portiamo dentro risuona come un'accusa e un rimprovero a Colui che invece che donatore di vita percepiamo come un ladro dei nostri tesori???

Sarebbe totalmente inutile ringraziarLo formalmente nella preghiera e poi vivere da musoni!

«La vera grazia produce la gratitudine; la vera grazia ci mette, non soltanto in stato di grazia, ma in azione di grazia» (L. Evely).


Il modo migliore per dire grazie è celebrare la vita con il canto della vita, il canto del cuore prima di tutto. Colpisce nel racconto evangelico vedere come proprio quelli che si credevano in diritto di essere aiutati da Dio, in quanto israeliti, non tornano a ringraziare, mentre il samaritano, considerato un rinnegato, torna e la sua vita diventa una festa. Solo a lui il Singore dice: la tua fede ti ha salvato, ossia ora che ringrazi manifesti vera fede, e questa ti salva! Gli altri invece hanno avuto una fede di serie B, una fede che li ha guariti, ma che non aprendosi a qualcosa di più profondo, sono rimasti semplicemente guariti nella carne, ma non salvati e rinnovati nella totalità della vita.

Certo, non bisogna disegnarsi addosso sorrisi che non esistono nel cuore... quello che conta è dentro, in profondità. Pur nel dolore che ci fa piangere e gridare, e contorcere - come Giobbe - proprio per la memoria dei doni ricevuti in passato, crediamo che anche quanto stiamo vivendo nel presente - per quanto doloroso possa essere - Dio lo può trasformare in tempo di "grazia"... e quindi, misteriosamente, in tempo di dono e di vita.

Per questa speranza e per questa certezza, anche oggi lo lodo, sapendo per esperienza che questa fede penetra le nubi e si fissa nel cuore di Dio...





La sofferenza (parte II)

martedì 9 ottobre 2007 alle 14:15

[...] Possiamo ritornare di nuovo alla prima domanda per spiegare la dimensione del dolore e della sofferenza presente nel mondo?


Credo che dobbiamo anzitutto rinunciare a spiegare l’inspiegabile. Il male è un enigma, la sofferenza è un enigma irriducibile che resiste alle nostre sapienze e tentativi di spiegazione e razionalizzazione. Di più. Non esiste l’astratta sofferenza o l’astratto dolore: esiste solo la sofferenza di una persona precisa; esiste il dolore che devasta il corpo e la mente di un uomo e di una donna. Esiste l’uomo sofferente che, nella sua unicità irripetibile, dà un volto tutto particolare alla sofferenza e al dolore. In quest’ottica possiamo dire che la sofferenza non ha un senso - prestabilito, già fissato, già determinato -, ma che un senso lo può ricevere dalla persona che la sta vivendo. Il senso della sofferenza è un evento, non un dato. E questo è vero da un punto di vista antropologico e psicologico come da un punto di vista spirituale e cristiano.

Sappiamo come le grandi sofferenze - un lutto, la nascita di un figlio portatore di handicap, l’insorgere di una grave malattia, un incidente che costringe all’immobilità -, mettano in atto un lungo percorso psicologico con cui la persona reagisce a ciò che sta capitando alla propria vita per giungere faticosamente a darvi un senso. Un cammino che conosce molte tappe - shock, negazione, collera, trattativa, depressione, accettazione, pace -, e nessuna sicurezza che esso sia compiuto per intero e senza ritorni indietro. Ma anche dal punto di vista cristiano la sofferenza mette in crisi l’immagine di Dio che si aveva prima e può scatenare una vera e propria crisi di fede.

Ma può anche essere l’occasione per spezzare immagini di Dio artefatte, consolatorie, rassicuranti, e ritrovare la verità e la nudità della propria fede. Il senso cristiano della sofferenza avviene nell’incontro tra lo Spirito di Dio e la particolare umanità del sofferente, e ovviamente dell’ambiente umano che lo circonda. È un evento pneumatico, cioè spirituale.

Su questo tema cosa occorre ricordare ad un giovane?
Poche ed essenziali cose: e anzitutto che la sofferenza fa parte della vita ed è inevitabile incontrarla. Volerla rimuovere, evitare, non risolve il problema. Occorre allora dire la propria sofferenza: trovare una persona a cui si possa confidare la sofferenza che ci turba e sconvolge. “Parlare la sofferenza” è il primo passo per elaborarla e non lasciarsene abbattere. Verbalizzare, mettere in parole il proprio dolore e trovare chi accolga questa sofferta espressione, queste difficili parole, può aiutare il sofferente stesso ad accogliere la propria sofferenza e ad accogliersi nella propria sofferenza: se un altro mi accoglie, anch’io posso accogliermi. Della sofferenza, infatti, non ci si deve vergognare.

I modelli esistenziali diffusi dalla pubblicità e dai rotocalchi sono menzogneri nel loro presentare persone sempre belle, vigorose, in salute, ed eternamente sorridenti. La realtà è infinitamente diversa…
Nella realtà il giovane si trova a vivere sofferenze che non sa come portare e crisi che non sa come gestire. Ogni crisi è un momento di passaggio che può avere un esito positivo o negativo. Ma la crisi è essenziale alla vita, la quale procede e avanza appunto attraverso crisi. Spesso le crisi, col peso di sofferenza che comportano, sono l’occasione di ritrovare verità, di spezzare le corazze delle sicurezze acquisite e in cui ci si stava cristallizzando, sono il faticoso prezzo da pagare per entrare sempre più pienamente nella vita.

Non si dimentichi che la prima sofferenza e la prima e radicale crisi è sempre alle nostre spalle ed è la nostra nascita. Avvenuta nel dolore della madre e culminata nella traumatica uscita alla luce del bambino che grida, essa è la dolorosa e necessaria sofferenza per entrare nella vita. Da allora ogni progresso nella vita, ogni scelta, ogni decisione, comporta un peso di fatica, dolore, sofferenza.

Non si abbia paura della fatica! Nulla è a basso prezzo nell’esistenza, nulla è dovuto. Anche l’amore è un lavoro, una fatica, che comporta sofferenza. Ha scritto il poeta Rainer Maria Rilke:

“Non c’è nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro a giornata. I giovani però non sono preparati a questa difficoltà dell’amore. Di questa relazione estrema e complessa le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così. L’amore è una cosa difficile… Prendere sul serio l’amore, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco, un divertimento. Ma chi ama deve cercare di comportarsi come se fosse di fronte a un grande compito: spesso restare solo, rientrare in se stesso, concentrarsi; deve lavorare; deve diventare qualcosa!”.


La sofferenza è come lo scalpello dello scultore che colpisce il masso di marmo per farne emergere la figura finita, la statua. I colpi della sofferenza, accettati e assunti, plasmano la nostra umanità nella saldezza e nella verità. (Carlo Silvano)

Lorenzo dal Madagascar...

domenica 7 ottobre 2007 alle 14:28
Ciao Salvatore,
grazie per il messaggio,
ritorniamo appena da un lungo viaggio al sud (1500 km) per visitare una diocesi molto povera. Il vescovo vorrebbe che mettessimo una nostra comunità in una zona grandissima di foresta senza sacerdoti. Abbiamo visitato qualche villaggio per renderci conto. C'è tanta povertà ed abbandono.
Ho cercato di lasciare un commento ma non so se ci sono riuscito: te lo invio e casomai lo metti tu stesso.
Un caro abbraccio a te e coraggio nel servizio alla Parola
p. Lorenzo




Ciao P. Salvatore,

sono p. Lorenzo e, sebbene con fatica, sono riuscito ad aprire il tuo blog. Grazie di aver pubblicato le mie righe. Grazie a Lorenzo per il commento, che però non merito. La Missione è un dono particolare di Dio di cui ogni giorno lo ringrazio. Mi sento fortunato di poter portare il Vangelo ai poveri. C'è tutto un tesoro di umanità nascosto tra gli ultimi, che non si immagina. Mi chiedo sempre se i veri poveri non siamo noi che ci crediamo ricchi...
Un caro saluto a tutti gli amici del Blog ed al caro fratello p. Salva.

P. Lorenzo dal Madagascar

Il Tau di S. Francesco

giovedì 4 ottobre 2007 alle 11:20
Tau dipinto da San Francesco

"Nutriva grande venerazione e affetto per il segno del TAU. Lo raccomandava spesso nel parlare e lo scriveva di propria mano sotto le lettere che inviava" (FF 1079)

Il TAU è l'ultima lettera dell'alfabeto ebraico. Esso venne adoperato con valore simbolico si dall'Antico Testamento; se ne parla già nel libro di Ezechiele: "Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un TAU sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono..."(Ez. 9,4). Esso è il segno che posto sulla fronte dei poveri di Israele, li salva dallo sterminio. Con questo stesso senso e valore se ne parla anche nell'Apocalisse (Apoc.7,2-3).

Il Tau è perciò segno di redenzione. E' segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interioramente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef 1,13).

Il TAU fu adottato prestissimo dai cristiani per un duplice motivo. Esso, come ultima lettera dell'alfabeto ebraico; era una profezia dell'ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega come appare dall'Apocalisse: "Io sono l'Alfa e l'Omega il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dalla fonte dell'acqua della vita....Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine" (Apoc.21,6; 22,13).

Ma soprattutto i cristiani adottarono il TAU, perchè la sua forma ricordava ad essi la croce, sulla quale Cristo si immolò per la salvezza del mondo.

San Francesco d'Assisi, per questi stessi motivi, faceva riferimento in tutto al Cristo, all'Ultimo; per la somiglianza che il TAU ha con la Croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che questo occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti. In lui il vecchio segno profetico si attualizza, si ricolora, riacquista la sua forza salvatrice ed esprime la beatitudine della povertà, elemento sostanziale della forma di vita francescana. Per questo, grande fu in Francesco l'amore e la fede in questo segno.

"Con tale sigillo, san Francesco si firmava ogni qualvolta o per necessità o per spirito di carità, inviava qualche sua lettera" (FF980); "Con esso dava inizio alle sua azioni" (FF1347).

Il TAU era quindi il segno più caro a Francesco, il suo sigillo, il segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda che solo nella Croce di Cristo è la salvezza di ogni uomo.

Oggi, moltissimi amici di san Francesco portano il Tau come segno distintivo di riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia o alla spiritualità francescana. Il TAU non è un feticcio, né tantomeno un ninnolo: esso, segno concreto di una devozione cristiana, è soprattutto un impegno di vita nella sequela del Cristo povero e crocifisso.

La sofferenza (parte I)

mercoledì 3 ottobre 2007 alle 11:16


“L’umanità di Gesù è divina! Ed è la via indicata ad ogni uomo che può così mettersi alla scuola di Gesù per imparare a vivere secondo la volontà di Dio. Il mistero dell’incarnazione ci dice che la vita di Gesù, nel suo quotidiano e umanissimo dipanarsi fatto di incontri e amicizia, di servizio e amore, di dedizione ai fratelli e obbedienza al Padre, ci insegna a vivere secondo Dio”. A parlare è padre Luciano Manicardi, monaco della comunità di Bose e apprezzato biblista. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul tema della sofferenza che, in varie forme e modi, caratterizza la nostra condizione umana.

Padre Manicardi, Dio non spiega il mistero della sofferenza, ma attraverso Gesù, uomo fra gli uomini, condivide il dolore umano. Secondo Lei, come si può spiegare ad un giovane la dimensione del dolore e la sofferenza nel mondo?
Sul problema del male e della sofferenza la Scrittura non offre soluzioni, non risponde al “perché?”, ma presenta la possibilità di una consolazione, presenta una possibilità di dotare di senso la sofferenza, di assumerla, di farne un’occasione per imparare a vivere e a seguire il Cristo crocifisso, di rendere vivibile e tollerabile ciò che rischia di essere assurdo e insopportabile. La nostra domanda angosciata “Dov’è Dio?” o “Dov’era Dio?” di fronte allo sterminio di persone innocenti, di fronte alla morte assurda del bambino, di fronte alla morte tragica dell’amico e del coetaneo, di fronte alla malattia che stronca una vita ancora giovane e nel pieno delle forze, di fronte insomma alle tragedie che devastano le esistenze personali e le storie dei popoli, sembra non trovare risposta…

E tuttavia il vangelo ci narra che Dio è proprio là, tra le vittime. Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, si trova anche lui tra i bambini al di sotto dei due anni che vengono condannati a morte dal re Erode…
Certo, e pertanto possiamo dire che di fronte al dolore e alla sofferenza, anche il cristiano scopre la propria inermità: anche il cristiano non conosce una strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada che, insieme con Dio, lo attraversi. Nella sofferenza, nell’enigma del dolore e del lutto, il cristiano sa di avere una Presenza a cui può sempre rivolgersi, a cui può gridare, che può anche contestare, con cui può protestare, e questa presa di parola di fronte alla sofferenza non elimina certo il dolore ma aiuta a darvi un senso, a elaborarlo. Aiuta a maturare umanamente e nella fede. Sarebbe veramente indegno del cristianesimo il pensare che la fede debba, e possa, esentare il cristiano dalla sofferenza e dal male che colpisce tanti e tanti uomini.

Come reagire?
Occorre accedere alla comprensione che la sofferenza è costituiva dell’esistenza. E dell’amore: la passione di amore, non è solo trasporto, estasi, beatitudine, ma anche sofferenza, angoscia, ansia. E questo perché l’amore esige un vivere con un altro. E sarebbe una concezione magica, astratta, che non tiene conto dell’incarnazione, il pensare il Dio cristiano, sulla scia delle rappresentazioni pagane e filosofiche, come essere asettico, impassibile e distaccato dalla realtà, che non scende dai cieli in cui abita: un Dio del settimo piano che non si interessa di ciò che avviene al piano terra.

Dunque, il Dio biblico è il Dio che prende sul serio la sofferenza umana e si presenta come Dio che si compromette con l’uomo sofferente, che si abbassa per condividere la sua situazione e per fare strada con lui?
È il Dio compassionevole. Questo annuncio che il cristiano vede rappresentato al meglio nella croce di Cristo, contiene in sé una grande speranza per l’uomo sofferente: non ci sono situazioni disperate, infernali, in cui l’uomo non possa sperimentare la vicinanza di Dio. Per quanto in basso cada l’uomo, l’ultimo e più basso posto è già stato occupato da Cristo. [...]

(di Carlo Silvano)

 













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