Io non so come

sabato 19 dicembre 2009 alle 01:01




Io non so come,
la notte è lunga
e il tempo un mostro,
ma so che verrà l’alba
e la vita degna sarà in ogni uomo,
e la terra non tremerà più
e la stella di Betlemme
ricorderà per sempre
che Cristo è veramente nato
per tutti gli uomini.

Io non so come,
la guerra è sulla terra
e il male sconvolge la creazione,
ma so che verrà l’alba
e ogni uomo avrà il suo pane
e ogni uomo sulla spiaggia
riconoscerà Cristo che mangia pesce
e parla con lui.

Io non so come,
anche quest’anno è stato orrendo
di massacri e di morti,
ma so che verrà l’alba eterna,
la luce che attende ogni creatura,
fatta a immagine di Dio, canto dell’universo.

Io non so come
la notte è lunga
e il tempo un mostro,
ma so che verrà l’alba.


(E. Fiore, Gli occhi dell’universo, Clean, Napoli 2005, p. 25)

Il Testamento di San Francesco

giovedì 19 novembre 2009 alle 11:46

Testamento (1226)

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare così a far penitenza: poiché, essendo io nei peccati,

mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.
E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d'animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.
E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come i miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue che essi ricevono ad essi soli amministrano agli altri.
E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.
E dovunque troverò manoscritti con i nomi santissimi e le parole di lui in luoghi indecenti, voglio raccoglierli, e prego che siano raccolti e collocati in luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine, così come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita. E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevano avere di più.
Noi chierici dicevamo l'ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater Noster; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto:"Il Signore ti dia la pace! ".
Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna (di privilegio) nella curia romana, nè personalmente nè per interposta persona, nè per una chiesa nè per altro luogo, nè per motivo della predicazione, nè per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio.
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l'obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore.
E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l'ufficio, così come è prescritto nella Regola.
E non dicano i frati: Questa è un'altra Regola, perché questa è un ricordo, un'ammonizione, un'esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, miei fratelli benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.
E il ministro generale e tutti gli altri ministri custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole.
E sempre tengano con se questo scritto assieme alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole.
E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: "Così si devono intendere" ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.
E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell'altissimo Padre, e in terra sia ricolmato della benedizione del suo Figlio diletto col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i Santi. Ed io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che io posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. (Amen).

Ritiri di Avvento di Villa Nazareth

mercoledì 28 ottobre 2009 alle 15:48

Riuscire a fare silenzio nel quotidiano e a lasciare spazio a Dio è già una forma di ritiro spirituale, ma molto spesso questo silenzio, pur se perseguito, è difficile da raggiungere e restiamo condizionati dai nostri pensieri, dalle nostre preoccupazioni, dai nostri modi di considerare le questioni. L'Avvento, preparazione alla celebrazione del mistero dell'irruzione di Dio nella storia dell'uomo, in Natale, è un tempo propizio per riprendere in mano la propria vita, con tutti i suoi nodi e le sue domande. E' tempo per rintracciare il senso della nostra storia, tempo per incrociare lo sguardo di un Volto che da sempre ci cerca e ci ama. Un volto che ancora non conosciamo.

Ecco due momenti forti per gli studenti di Villa Nazareth:

Avvento 2009

Ritiro breve

Roma 29 novembre

Guidato da don

Stefano Modica


E il Senso si fece carne

e venne ad abitare

in mezzo a noi....


Il tempo di Avvento è il tempo dei tempi, il tempo proprio della Chiesa, il tempo di ogni uomo che attende e ricerca la presenza di Dio, nei frangenti del proprio vivere. In questa ricerca dell'uomo, si comprende il mistero della Incarnazione del Senso di Dio, dell'u

omo-Dio, Gesù che per ogni uomo e con ogni uomo,

si è fatto pellegrino, compagno, fratello, redentore.


Allora, sorge spontanea una domanda!


Nella mia ricerca di senso, forse troppo umana, Dio cosa centra...?








Avvento 2009 – Ritiro lungo

Ad Ariccia, nella quiete dei boschi sul lago di Albano

dal 6/12 pomeriggio all’8 pomeriggio

guidato da p. Flavio Bottaro S.J.

Comprendere

se stessi qui e ora,

fare esperienza personale di Dio


Capisci chi sei

e cosa desideri?

Sai vivere te stesso come essere-in-relazione con l’altro e l’Altro?

Sai discernere tra i movimenti e i desideri del cuore?

Hai mai fatto vera esperienza di incontro con Dio in Cristo?

Accompagnati da un maestro di discernimento ed esperienza di Dio secondo la sapienza e il metodo di Ignazio di Loyola, ci sarà data la possibilità di sperimentare una via di spiritualità che ognuno potrà provare su se stesso e praticare in libertà nel proprio cammino umano.



Niente è più dolce dell'amore...

martedì 27 ottobre 2009 alle 12:50




Niente è più dolce dell'amore; niente è più forte, più alto o più grande: niente, né in cielo né in terra, è più colmo di gioia, più completo o più buono: perché l'amore nasce da Dio e soltanto in Dio, al di sopra di tutte le cose create, può trovare riposo. Chi ama vola, corre lietamente; è libero, e non trattenuto da nulla; dà ogni cosa per il tutto, e ha il tutto in ogni cosa, perché trova la sua pace in quell'uno supremo, dal quale discende e proviene tutto ciò che è buono; non guarda a ciò che gli viene donato, ma, al di là dei doni, guarda a colui che dona. Spesso l'amore non consce misura, in un fervore che oltrepassa ogni confine. L'amore non sente gravezza, non tiene conto della fatica, anela a più di quanto non possa raggiungere, non adduce a scusa la sua insufficienza, perché ritiene che ogni cosa gli sia possibile e facile. Colui che ama può fare ogni cosa, e molte cose compie e manda ad effetto; mentre colui che non ama viene meno e cade. L'amore vigila; anche nel sonno, non s'abbandona; affaticato, non è prostrato; legato, non si lascia costringere; atterrito, non si turba: erompe verso l'alto e procede sicuro, come fiamma viva, come fiaccola ardente.

Questo mio grido l'intende appieno colui che possiede amore. Un grande grido agli orecchi di Dio è lo slancio stesso ardente dell'anima, che esclama: Dio mio, mio amore, tu sei interamente mio ed io sono interamente tua. Accrescimi nell'amore, affinché io impari a gustare nell'intimo quanto l'amore è soave; impari a sciogliermi nell'amore e ad immergermi in esso. Che io sia tutto preso dall'amore, che mi elevi sopra me stesso, in estasi appassionata, che io canti il canto dell'amore e che mi innalzi con te, o mio diletto; venga meno, nel lodarti, l'anima mia, nella gioia dell'amore. Che io ti ami più che me stesso, e me stesso soltanto per te; che in te io ami tutti coloro che ti amano veramente, come comanda la legge dell'amore, luce che da te proviene.

L'amore è sollecito, sincero e devoto; lieto e sereno; forte e paziente; fedele e prudente; longanime; virile e sempre dimentico di sé: ché, se uno cerca se stesso, esce fuori dall'amore. L'amore è attento, umile e sicuro; non fiacco, non leggero, né intento a cose vuote; sobrio, casto, costante, quieto e vigilante nei sensi. L'amore è sottomesso, basso e disprezzato ai suoi propri occhi; devoto e grato a Dio. In Dio confida e spera sempre, anche quando non lo sente vicino, perché non si vive nell'amore senza dolore. Colui che non è pronto a soffrire ogni cosa e ad ubbidire al suo Diletto, non è degno di essere chiamato uomo d'amore; questi deve abbracciare con slancio tutte le avversità e le amarezze per il suo Diletto, senza da ciò deflettere, qualsiasi evidenza si frapponga.

dalla "Imitazione di Cristo" (XIII-XIV secolo)


Una immagine per due

mercoledì 14 ottobre 2009 alle 15:44



di p. Michele Lavra S.I.


Durante un campo di lavoro estivo Gianni e Luisa avevano conosciuto un prete slavo che compiva i suoi studi di specializzazione a Roma. Ne nacque una bella amicizia e un paio d’anni dopo fu proprio lui a benedire il loro matrimonio. L’omelia che tenne in quell’occasione è rimasta profondamente impressa sia in lei sia nel marito. Era un discorso non facile e forse molti degli invitati non hanno seguito i vari passaggi; ma per i due è stato il culmine di altre riflessioni sviluppate in preparazione al matrimonio. La pagina biblica scelta come prima lettura era Genesi 1; nel suo commento il sacerdote mise in evidenza che il testo parlava di una sola immagine per due.

Riascoltando la registrazione,

ecco alcuni passi più significativi

rimessi in un italiano più scorrevole.

La piena comunione dell’uno con l’altra è il sogno-desiderio di una vita a due; ma si tratta di una comunione dinamica, così come è dinamica ogni vocazione in quanto realtà da scoprire e realizzare progressivamente. Con il passare degli anni la fisionomia interiore di ciascuno è sempre più frutto della loro storia a due. Più imparano a tirare giù le maschere e ad aprire gli angoli riservati, più crescono in umanità e ciascuno può dire del partner: è l'altro che mi ha fatto me stesso. Una relazione profonda con l'altro risveglia contemporaneamente ambedue le intimità: più l’altro entra nella tua vita, più tu stesso entri nel santuario della tua intimità, perché l’intimità non è un rifugiarsi dentro ma un lasciarsi visitare dall'altro accettando la relazione. Con il crescere dell’amore-accoglienza dell’altro, scopri sempre meglio l’impronta originaria impressa da Dio nel fondo del tuo essere. Si tratta di una sola immagine per due, cioè di una pienezza di umanità sperimentata proprio nella comunione tra due esseri.

Nel linguaggio quotidiano, parliamo di due cuori e un’anima sola. Nel linguaggio della teologica trinitaria, possiamo dire che crescendo nella vera intimità ci si scopre sempre più uguali e insieme distinti. Uguali in umanità e creaturalità, in dignità e figliolanza adottiva; distinti e diversi invece nel vivere ed esprimere tutta questa ricchezza, perché un'impronta maschile o femminile segna il corpo l'anima e lo spirito. Aiutando l'altro ad essere se stesso si diventa sempre più se stessi. Né maschilisti né femministe, ma maschio-femmina insieme per creare l'umanità in senso pieno. Questo è un dono e una vocazione.

Genesi 1 invita a una intimità relazionale espansiva. La differenza sessuale nella corporeità è segno della differenza e complementarietà nell'anima e nello spirito. Questa differenza, sottolinea la pagina biblica, è apertura alla fecondità, desiderio di dare vita ad un altro essere come frutto dell’amore sovrabbondante dei due. Uno per due si fa così due per tre. Il dinamismo dell’amore rimarrebbe bloccato se non si espandesse così; comprimendone il movimento, si rischierebbe di rimanere in una mediocrità poco generosa, o peggio ancora in un egoismo a due ben calcolato. Aprendo invece questo circuito trinitario, si allarga continuamente l’orizzonte: ora il figlio dilata l’amore della coppia; domani sarà lo stesso figlio ad espandere l’amore ricevuto in amore offerto e disponibile per altri.

Genesi 1 parla inoltre di intimità feconda aperta sul mondo: "Siate fecondi, moltiplicatevi e dominate la terra". Alla coppia, non a uno di loro, è affidato il compito di governare il mondo. E' vero che Genesi 2 ci parla di Adamo che lavora solitario nel giardino; ma il testo dice che proprio questa solitudine fa problema, che si tratta di un impegno cui manca qualcosa di essenziale, la gioia di vivere che sgorgherà come un canto davanti alla donna "carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa". Nella creazione intera deve rifluire la ricchezza della vita di coppia. Quanto più si sentirà l'effetto di queste due presenze uguali in dignità, ma distinte e complementari, tanto più i vari spazi della nostra vita terrena - la famiglia, la società, la chiesa, la politica, l'economia... - acquisteranno in umanità e corrisponderanno alla vocazione originaria. E quanto più la coppia sarà impegnata concretamente nella storia in unità di intenti, tanto più l'intimità tra i due diventerà ricca e gioiosa, non sottoposta al logorio del tempo.

Alla parte centrale dell'omelia

segue ora una testimonianza diretta

di Gianni e Luisa.

Tante volte queste riflessioni sono state per noi oggetto di verifica nel corso degli anni! Sia Gianni sia io abbiamo anche passato dei momenti difficili nei primi tempi del matrimonio, durante i quali abbiamo avvertito la tentazione di delimitare ciascuno i propri spazi e di esigerne dall'altro il rispetto. A volte l’uscire dalla riserva ha richiesto tempi lunghi. Ricordo come ho dovuto modificare le mie pretese di cambiare mio marito su certi punti. Non mi piaceva ad esempio il suo modo di difendere a spada tratta la sua famiglia di origine tutte le volte che capitava di parlarne; d’altra parte vedevo che in questo gli era davvero difficile mettersi in discussione. Ma un giorno rimasi piuttosto colpita leggendo il seguente passo dell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso; se qualcuno mi apre...” Ho sentito dentro di me come una domanda: se il Signore, che potrebbe entrare quando vuole nella nostra vita, è così paziente e rispettoso, perché non impari da lui? Da allora ho cominciato a moderare le mie pretese, a essere meno impaziente e impulsiva; poi ho scoperto che in modo imprevisto ha cominciato a cambiare anche lui. Oggi su quel punto si può parlare finalmente con libertà e senza inalberamenti.

Abbiamo rimandato forse troppo a lungo la decisione di avere un figlio: dubbi vari, mancanza di generosità, soprattutto paura di scombussolare un equilibrio ormai raggiunto tra noi due. Ci ha sbloccati l’incontro con una coppia che aveva vissuto queste cose e che le aveva già superate. Ascoltando la loro testimonianza durante una giornata per coppie, ci siamo resi conto di quanto eravamo prigionieri di paure e di calcoli troppo umani. Nel periodo successivo a questo incontro abbiamo preso coscienza che il nostro amore non ci bastava più; che una prima fase del cammino a due era trascorsa e che occorreva immettersi in un'altra fase; che al tempo per affinarci nella conoscenza e nell'amore reciproco doveva ora subentrare il tempo di aprirci al terzo. E’ maturata così la decisione di mettere al mondo il primo figlio, un paio d’anni più tardi il secondo, poi un altro. Quando è venuto al mondo il primo, si è davvero inserito tra noi un altro essere: una presenza in genere silenziosa (era molto bravo), ma talvolta anche disturbante (soprattutto di notte!). Lui, un bel maschietto, ha modificato non solo i nostri orari ma anche i nostri schemi. E quando è nato il secondo, altro scombussolamento. E poi il terzo. E poi i compagni di asilo e di scuola. Mio marito ed io abbiamo appena superato i quarant’anni; ci accorgiamo di come la vita ci sta portando a dilatare sempre più la nostra capacità di amare: dall’intimità tra noi due all’accoglienza dei figli e poi degli altri, che stanno allargando sempre più le pareti di casa.

La vita ci sta insegnando a vivere meglio la vocazione ad essere una sola immagine in due, a sentirci sempre più un cuore solo e un’anima sola, con meno veli o maschere tra noi. Questo cammino di integrazione è stato lungo, faticoso, non senza sorprese, ma anche consolante. Alla collaborazione nelle cose comuni - ménage ordinario e manutenzione della casa e del giardino, problemi dei figli soprattutto nel settore scolastico, relazioni con i vicini e con gli amici.. .- si è aggiunta anche una buona comunicazione sui compiti affidati a ciascuno di noi in particolare: il lavoro di mio marito, la catechesi ed altri impegni in parrocchia per me... Abbiamo avuto sufficienti occasioni per riflettere che la consegna di impegnarci nella storia, quando davvero è affidata alla coppia e non solamente ad uno dei due, trova una risposta più ricca di umanità e più rispondente al progetto originario del Signore. L'aver pensato e spesso portato avanti insieme tante cose è proprio un grande dono. E di riflesso abbiamo sentito come tutto questo mondo di relazioni ha accresciuto il desiderio e la gioia dell'intimità tra noi.

"La Trinità" del pittore Andrej Rubliev è un’icona che ci è stata regalata per il matrimonio. Appesa nella stanza da letto, ci ricorda che il nostro amore viene sempre dal Primo Amore, che siamo fatti a immagine del Dio-Trinità, che la nostra famiglia deve modellarsi sui tre personaggi del dipinto: rivolti verso l’esterno, accoglienti e quasi invitanti a entrare nella loro cerchia familiare. "Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio". Se il Signore ha aperto la sua casa a noi, perché noi non dovremmo tenerla aperta agli altri che lui ci manda?

Fin qui le testimonianze dei nostri due amici.

Martin Buber, grande pensatore ebreo morto nel 1965, ha scritto: "Non l'uomo individuo, non l'uomo massa, ma l'uomo-con-l'uomo è persona". La frase sembra una buona sintesi dell'alternarsi e contrapporsi di individualismo e collettivismo nella concezione dell'uomo, che la storia dell'Occidente ha conosciuto; insieme è una indicazione della visione ebraico-cristiana, dove "la persona" ha un peso particolare. Ma occorre riscoprire e approfondire la pista biblica tracciata già da Genesi 1: l'uomo diventa persona aprendosi all'altro che lo fa se stesso, perché si tratta di una sola immagine in due esseri. L'uomo-persona si svela perciò come un essere-in-relazione, dove la relazione fa parte essenziale della sua identità.

PER LA RIFLESSIONE

1. Prova a rileggere il testo biblico di Genesi 1, dove si parla chiaramente di una sola immagine per due. Alla luce delle riflessioni del sacerdote e delle esperienze di Gianni e Luisa, che cosa significa questo testo per te e per la tua vita di coppia?

2. Le riflessioni sull'intimità ti dicono qualcosa? Sai distinguere la vera intimità dall'intimismo: nella preghiera, nella vita di coppia, nella vita di famiglia...?

3. Nella vita di coppia la comunione tra le persone è una realtà dinamica, che si costruisce giorno per giorno. In un terreno così importante hai la sensazione di essere sulla pista giusta, oppure hai rinunciato a camminare e hai bisogno di rimettere in acqua i remi della pazienza e della speranza?

RIPRESA... PREGANDO

Signore, solo tu conosci fino in fondo

quello che sono, quello che sento, quello che vivo...

Fa' che il mio rientrare in me stesso

di cui ogni tanto sento il bisogno,

non sia un rifugiarmi lontano da tutti e lontano da Te

per starmene solo e pensare ai fatti miei,

ma un incontrare più profondamente Te e gli altri.

Varie volte ho già fatto esperienza

che quando non mi lascio visitare dagli altri manca qualcosa:

la mia gioia, quando sono nella gioia, non è piena;

la mia fragilità, quando sono nella debolezza,

è coperta dalla paura o dall'ipocrisia.

Insegnami a lasciarmi guardare, a lasciarmi accogliere, a lasciarmi amare.

Così diventerò più umano, più me stesso:

nella crescente comunione con gli altri,

in una relazione personale che mi renda sempre più autentico.


L'omologazione dell'intimo

martedì 8 settembre 2009 alle 14:54


La pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo.

Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo, per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte intima, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come espressione di sincerità, perché in fondo: “Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Coloro che si comportano in questo modo danno un ottimo esempio di quell’omologazione dell’intimo a cui tendono tutte le società conformiste, che alla massima “a ognuno il suo”, sostituiscono quell’altra “a ognuno il mio”, per cui finisce con il sentirsi “proprietà comune” e si comporta come se appartenesse a tutti. E poiché sa che se non si comportasse così, se rifiutasse espressamente questo comportamento, verrebbe considerato “sconveniente” e diventerebbe “sospetto”, lo fa anche con un certo ardore, con somma gioia di chi deve governare la società, perché, una volta pubblicizzata, l’intimità viene dissolta come intimità, e gli altri, che dovrebbero stare al confine eterno dell’intimo, diventano letteralmente “inevitabili”, ogni volta che qualcuno di noi prova una sensazione, un’emozione, un sentimento.

Questi tracciati segreti dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volte immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura della pubblicità, non sono più propriamente miei, ma proprietà comune. E questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima che una faccenda di mutande che uno può cavarsi e infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che, una volta de-psicologizzata, perché si sono fatte cadere le pareti che difendono il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità, non esiste semplicemente più.
… Se la nostra vita è diventata proprietà comune allora perché non lasciarsi intervistare senza riserve e senza pudore? In fondo anche il nostro corpo è diventato una proprietà comune, e quel che un tempo era prerogativa di alcune dive –farsi misurare seni e sederi e pubblicare le misure sotto le fotografie- oggi è il gioco di qualsiasi ragazza che non voglia passare per inibita. Ma anche il sesso è diventato proprietà comune e, dalla stampa alla televisione, è un susseguirsi di articoli e servizi sui piaceri e sulle difficoltà, redatti sotto forma di consigli, in modo confidenziale, come se fossero rivolti solo a te, e non a un milione di orecchie avide di sapere quel che da sé non sanno più scoprire.

Questo significa “non avere nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”. Significa che le istanze del conformismo e della omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per togliere di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come tradimento, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà se non addirittura di salute psichica.

E tutto ciò, anche se non ci pensiamo, approda a un solo effetto: attuare l’omologazione totale della società fin nell’intimità dei singoli individui e portare a compimento il conformismo. In fondo non è un’operazione difficile. Basta “non avere nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”, che tradotto significa: ”Sono completamente esposto”, “non custodisco nulla di intimo”, “sono del tutto de-psicologizzato”, ma in compenso ho guadagnato appariscenza, conformità sociale e forse qualche apprezzamento per il mio coraggio e la mia sincerità.

Da tutto questo nasce la necessità di rivendicare i diritti del pudore: non solo per sottrarre la sessualità a quella genericità in cui si celebra il piacere nel misconoscimento dell’individuo, ma anche e soprattutto per sottrarre l’individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi rischia di perdere il proprio nome.

U. Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano 2007, 61-64

Lontano dalla folla

domenica 6 settembre 2009 alle 11:52


Mc 7, 31-37


In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

« Presolo in disparte, lontano dalla folla... » Basta così. Non è necessario ripetere i gesti successivi. La guarigione, per noi, può già avvenire a questo punto.

Gesù ci ha svelato il segreto di un miracolo che possiamo, dob­biamo ripetere anche noi piuttosto di frequente. Perché la nostra sordità e il nostro mutismo (o balbettamento) sono ricorrenti.

E’ sufficiente portarsi in disparte, lontano dalla folla.

Ritrovarsi a faccia a faccia col Maestro.

E riacquistiamo, immediatamente, la capacità di ascoltare e la possibilità (vorrei dire il diritto) di parlare.

Chiesa di Cristo, vai pure a cercare l'uomo in mezzo alla folla. Ma non illuderti di guarirlo restando li, sulla piazza.

Mescolati alla folla, lasciati assordare dal chiasso, non esitare a sporcarti in mezzo alle strade battute.

Ma non fermarti li. Non fare concorrenza al rumore, allo spet­tacolo, al circo.

Non esibirti sulla piazza.

Non lasciarti cullare dagli applausi.

Non lasciarti contaminare dal contagio della popolarità.

Se fai concorrenza alla piazza, se insisti nel « bagno di folla », non soltanto non guarisci l'uomo, ma finisci per diventare tu stessa sorda e muta.

Stando in mezzo alla folla, non hai più niente da dire, e non riesci neppure ad ascoltare, a capire la folla.

Soltanto « in disparte, lontano dalla folla... » riuscirai a ritro­vare te stessa e l'uomo.


« Ha fatto bene ogni cosa, fa udire i sordi e fa parlare i muti... »

Per fare bene ogni cosa, oggi, bisognerebbe che Gesù modificasse leggermente il miracolo e facesse parlare coloro che non sono sordi, e soltanto quelli.

Ho l'impressione, infatti, che ci siano troppo pochi muti in rap­porto ai troppi sordi.

Voglio dire: se parlassero solo coloro che sono capaci di ascol­tare, ne guadagnerebbe sia la parola che il silenzio.

Oso sperare che il particolare non sia casuale.

Un miracolo nel miracolo.

Al malato viene sciolto il nodo della lingua, ma sono gli altri che « proclamano » la guarigione.

Del beneficato non viene registrata neppure una parola.

Si tratta di una cosa stupenda. Una delle « azioni di grazie »più straordinarie.

L'uomo, adesso, ha la possibilità di parlare.

E lo dimostra tacendo.

Gli è stata restituita la parola.

E, appunto, comincia col silenzio.

(Per parlare bisogna avere qualcosa da dire. Ma, per fare silen­zio, occorre avere un mistero da adorare).

A. Pronzato

La preghiera

domenica 30 agosto 2009 alle 15:55



Pregare è saldare il silenzio delle stelle
con il frastuono dei giorni.
Svincolarsi dalle catene del rumore
e scoprire le nostre musiche sotterranee.
Pregare è aprire un passaggio,
come si apre una chiusa o una diga;
aprire, nella trama dei giorni,
delle finestre su Dio,
fino a rendere la nostra vita porosa
alla vita di Dio,
fino a creare una osmosi,
uno scambio, un travaso di vita.
Pregare è indovinare la presenza
dell'eterno Assente,
e sapersene meravigliare,
e saperla respirare.

Ermes Ronchi

Il lavoro

venerdì 17 luglio 2009 alle 23:49


Per san Benedetto un criterio essenziale per definire una spiritualità sana è vedere se uno si lascia stimolare dal lavoro e se il suo lavoro gli riesce bene. Se qualcuno lavora solo con molta lentezza o con fastidio, fa pensare che abbia un’anima complicata. Questa persona impiega troppa energia per se stessa e non dispone più di energia per il lavoro. L’impegnarsi nel lavoro è un segno di libertà interiore. Alcuni utilizzano Dio per sottrarsi al lavoro. Preferiscono rifugiarsi in sentimenti devoti piuttosto che dedicarsi a un lavoro oggettivo. Per Benedetto, però, colui che sfugge al lavoro rifiuta alla fine anche Dio. Non si lascia stimolare da Dio. Abusa di Dio per se stesso. Scambia la contemplazione con l’avere tempo per sé. In questo tempo ruota attorno a se stesso invece che abbandonarsi a Dio.

Ho conosciuto parecchie persone che vanno in estasi per le loro esperienze di Dio. Quando però chiedo loro com’è la loro vita quotidiana, quando si alzano, come svolgono il lavoro, appare chiaramente che la loro vita è un caos. Sfuggono al caos rifugiandosi nella spiritualità. Ma questa non è una spiritualità matura.

Una spiritualità matura si esprime in fecondità, anche nel lavoro. Chi si è aperto a Dio, è aperto anche per gli impegni di ogni giorno. Ci sono i “religiosi modello”, ma questi non servono nel lavoro. Non ammettono scadenze. Ritengono che nessuno debba loro fare fretta, pensano di dover lavora­re col loro ritmo. Alla fine, però, sono incapaci di collabora­re in maniera costruttiva con gli altri. E così nel loro modo di lavorare appare chiaro che mettono in azione il loro bisogno di potere e che in loro c’è molta aggressività. Alla fine, nella loro religiosità, si chiudono nei confronti di Dio e nei con­fronti di coloro con cui dovrebbero lavorare.

La connessione esistente tra lavoro e spiritualità è già spiegata nel vangelo di Luca. Luca ha composto il suo vange­lo con il pensiero rivolto al ceto medio greco e perciò nelle parole di Gesù riprende soprattutto il rapporto con la pro­prietà e con il lavoro.

Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è diso­nesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella iniqua ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? (Le 16,10-12).

La mia spiritualità si manifesta nel modo in cui mi com­porto con le faccende di ogni giorno, con i beni del mondo e con il mio lavoro. Non raggiungerò i beni spirituali (la vita divina) e la vera ricchezza (quella dell'anima) se non ese­guo con scrupolo quello che mi è stato affidato nel lavoro quotidiano. Molti cristiani hanno trascurato queste parole di Gesù. Pensano che Dio provvederà a tutto. E questa fede li porta a comportamenti irresponsabili con le loro finanze e con il loro lavoro. Non si accorgono assolutamente del peso che provocano agli altri con questo modo di fare. Gli altri poi devono pagare per quello che loro hanno dissipato.

Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è sta­to ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Le 17,10).

Anche queste parole di Gesù, che troviamo nel vangelo di Luca, si riferiscono a una spiritualità che si esprime nella realizzazione degli impegni quotidiani. A Gesù interessa che facciamo ciò di cui siamo debitori a noi stessi, alla vita, al mo­mento presente, alle esigenze della vita quotidiana. Per Gesù la religiosità autentica sta nel fare semplicemente quello che ci tocca fare. Qui non posso più rifugiarmi in sentimenti pii. È necessario, piuttosto, che risponda alle esigenze della vita quotidiana. È una spiritualità oggettiva e sobria quella che ci chiede qui Gesù. Essa però corrisponde alle massime di sa­pienza di molte religioni. I cinesi dicono: il 'Tao' è il consue­to. La spiritualità genuina dipende dalla capacità di eseguire con cura le solite cose della vita quotidiana, dal fare con sem­plicità ciò che devo a questo momento con le sue richiest

A. Grün



Corpus Domini: Come un fermo-immagine

domenica 14 giugno 2009 alle 15:35




L’eucaristia non è fatta per essere portata in processione, né per farci liturgie di adorazione con incensi vari. Credo sia bene ridircelo con chiarezza. Il Signore è esplicito in proposito: non ha detto: prendete e mettetemi in un tabernacolo o in un ostensorio, ma: prendete e mangiate. L’eucaristia è fatta perché noi ce ne nutriamo.

Però in tutti i sensi.

La Chiesa ha maturato un po’ alla volta la consapevolezza del tesoro che le veniva offerto, e ha sentito la necessità di fermarsi un momento, prima di portare alla bocca quel pane e quel vino. Per nutrirsi meglio. In timore e tremore, come quando un innamorato ha tra le mani una lettera dell’amata di cui, ancora prima di leggerla, nota ogni particolare anche esterno, allo stesso modo la Chiesa Cattolica di rito latino ha precorso i tempi ricorrendo ad un geniale e azzeccatissimo «fermo immagine», dilatando cioè in diverse forme liturgiche (come l’elevazione durante la Messa, l’adorazione o le processioni eucaristiche) un frammento di tempo decisivo.

Avete capito quale?

Immettiamoci di nuovo nel rapido flusso di immagini che i vangeli e Paolo ci consegnano: Gesù prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza, lo porge ai suoi discepoli, dice questo è il mio corpo che è dato per voi, e… stop! Troppo veloce. Proprio qui la sensibilità ecclesiale ha deciso il fermo-immagine. Troppa ricchezza, troppa densità di senso rischiava di andarsene via così, senza essere gustata a fondo! Ed ecco che, sospendendo il tempo, quasi privato della sua forza dispersiva, lo sguardo si concentra lì, su quelle mani che porgono quel Pane e sulle parole che accompagnando il gesto ne fissano anche per sempre la verità: «questo è il mio corpo che è dato per voi».

Il fermo-immagine non isola il gesto ma, al contrario, imprimendolo nei nostri occhi congiunge i due estremi di cui costituisce il centro equidistante: l’Origine e il Fine. L’Origine sta tutta in queste parole: «pronunciata la benedizione» (che richiamano l’espressione «alzati gli occhi a cielo» della moltiplicazione dei pani in Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16 inserita proprio nel racconto istituzionale dal canone romano). Il Fine è invece in queste altre: «per voi», cioè perché voi siate in Me, che sono il Fine e il termine ultimo di tutta la crazione. In mezzo rimane quel Corpo che non finiremmo mai di adorare, ma lo contempliamo tra la preparazione del dono e la sua ricezione, per capire un po’ meglio origine e fine di un gesto tanto sublime quanto disarmante nella sua immediatezza e semplicità. Per renderci conto un po’ meglio dell’immensa portata del dono che ci viene offerto, per poterlo ricevere e gustare al massimo.

L’adorazione e ogni forma di culto eucaristico la intendo così, come la contemplazione penetrante di un flusso di vita che vuole raggiungerci, e che la liturgia mette in evidenza quasi sospendendo per un attimo il tempo. Fissare l’ostia innalzata dalle mani del sacerdote o sospesa in un ostensorio non è dunque un fatto statico, ma la pausa, necessaria per il nostro limite umano, di un processo dinamico che si sta attuando tra Lui e noi. Ma non è poi così strano se ci pensate: di fatto quando qualcuno ci offre un dono o anche una cena speciale, non è che ci gettiamo come belve fameliche sulla preda (spero), senza fissare negli occhi il donatore o un minimo atto di contemplazione di ciò che ci viene offerto, che renda ragione della particolarità della comunicazione che si attua nel gesto del dono.

Tra le parole: fessure, spazi, e… l’infinito

E allora anche la rilettura del testo dell’istituzione eucaristica grazie a questo fermo-immagine non scorre più via come niente fosse. Tra una parola e l’altra è come se si aprissero delle crepe, che ci fanno entrare in spazi di cui non riusciamo più a misurare limiti, ampiezza e profondità: Gesù è a tavola, con te, e già questo ci parla di condivisione profonda, perché esprime la partecipazione alla stessa vita. Un rapporto paritetico con Dio che nessun uomo avrebbe mai potuto immaginare (cf. Ap 3,20).

Egli prende quel pane tra le sue mani, mani che già avevano distribuito nel pane moltiplicato il tocco amoroso di Dio al suo popolo, il suo profumo soave per la Sposa. Alza gli occhi al cielo, al Padre, l’Origine dell’amore trinitario, in uno sguardo d’intesa che concentra in un solo attimo l’eternità di un disegno di misericordia infinita. Lo ringrazia e pronuncia una benedizione che fa salire la lode di tutta la creazione per la vita continuamente ricevuta da Lui, per tutti i suoi doni e per tutto ciò che si sta per compiere per noi.

Poi ci guarda e fissa quel pane, e lo spezza.

Gesto di vita e di morte, la sua. Per darci la vita, per dare a tutti la vita, si deve dividere, spezzare, morire. E pronuncia quelle parole che si incideranno per sempre nella storia, a fondo, e molto più in profondità delle dieci parole fissate nella dura pietra sotto gli occhi di Mosè. Questo pane spezzato.

Questo pane spezzato è (non significa, ma è veramente nel mistero) il mio corpo. Dato, consegnato, tradito, flagellato e crocifisso, per voi. Per voi… due parole che dicono il senso di tutto. Finalmente. Tutto il disegno di Dio, le meraviglie della creazione, la fedeltà di Dio nelle tempeste della storia, l’incarnazione, la passione, la resurrezione, i cieli nuovi e la terra nuova, l’abito nuziale della sposa, l’unione eterna e beatificante… per voi! Sigillo posto su ogni atto di Dio, su ogni pagina della Scrittura e della vita, anche la più oscura e incomprensibile. Per voi.

[…]

Da “Il Gesù di Paolo e il Paolo di Gesù”, pp. 159-161.



Relazioni,comunità, maturità umana e spirituale

venerdì 5 giugno 2009 alle 17:03





La maturità di una persona si manifesta nella sua capacità di relazione. Se uno non ha amici è sempre un segnale critico. Dipende anche dalla predisposizione di una persona il fatto che questa abbia capacità di relazione. Non possiamo fare nulla per migliorare questa predisposizione. Spesso, però, la mancanza di relazione dipende anche dal fatto che non abbiamo un buon rapporto con noi stessi. E su questo possiamo lavorare. Solamente se siamo in relazione con noi stessi riusciamo a costruire buone relazioni con uomini e donne.

Ho assistito una signora che si lamentava di non avere un rapporto soddisfacente con gli altri. Dopo alcuni colloqui apparve chiaro da che cosa dipendeva. Questa donna aveva sempre esaltato la sua infanzia. Solo quando ebbe il coraggio di guardare anche gli aspetti oscuri e offensivi della sua infanzia divenne capace di relazioni genuine. Dovette prima entrare in rapporto con se stessa e con la sua storia per riuscire a incontrare veramente gli altri ponendosi per quello che era. In precedenza aveva portato nell'incontro solamente una parte di sé e si meravigliava che l'incontro non riuscisse.

Se siamo in rapporto con noi stessi, non porremo aspettative e richieste esagerate ai nostri amici e alle nostre amiche. Diventeremo oggetto di doni e colmeremo di doni gli altri. È un bel dare e ricevere. Non saremo più oppressi dall'urgenza di dover dare prova di noi stessi. Potremo semplicemente essere quello che siamo e riusciremo a lasciare che gli altri siano quello che sono. Godremo dell'amicizia senza aggrapparci a essa.

C'è il pericolo di accentuare in senso religioso la propria capacità di relazione. Se uno pensa di aver bisogno solamente di Dio e non degli uomini per il suo cammino, rimuove il suo bisogno di relazioni vere. Alcune persone vanno così in estasi per le loro esperienze religiose e mistiche che saltano di pari passo i loro rapporti umani. Non vogliono ammettere di non riuscire ad allacciare relazioni. Decantano l'unione con Dio che soddisfa tutti i loro desideri. In realtà, se sono unito a Dio, per un istante sono pienamente soddisfatto. In quest'istante si realizza la parola di Teresa d'Avila: «Dio solo basta». Ma non riesco a mantenere a lungo questo essere una cosa sola con Dio. Nell'istante successivo sono nuovamente lacerato interiormente e allora, malgrado tutte le esperienze della vicinanza salvifica di Dio, ho bisogno anche di esseri umani con cui potermi confrontare.

La relazione con Dio non è un sostituto della relazione con una persona. Un buon rapporto con Dio e con gli uomini normalmente si completano. È pericoloso se vado in estasi per la mia unione con Dio e non mi accorgo che con questa mia esaltazione non faccio che coprire la mia incapacità ad avere un rapporto autentico con gli altri. Appena l’estasi cessa, mi sento solo e dispero di me stesso.

Se sono radicato in Dio, non divento dipendente dagli al­tri. Ma proprio questa libertà dalla dipendenza mi fa anche godere l'amicizia. Esiste quindi un altro pericolo, quello per cui gli uomini esaltano in senso religioso certi rapporti e si rendono dipendenti da padri o maestri spirituali. In questo caso non sviluppano veramente i loro bisogni di amicizia, ma si sentono realizzati sotto il mantello protettivo della guida spirituale e dell'aiuto dato dal maestro. Allora, però, nascono delle dipendenze che non fanno bene. Queste persone sono entusiaste della loro guida spirituale e non riescono più a vivere senza di lei. Proiettano su di lei tutti i loro ardenti desideri. Questo non fa bene né alla guida né al discepolo. Quest'ultimo si ferma alla relazione con la guida nel suo cammino interiore. Pensando di fare importanti esperienze spirituali solo standogli vicino, si rifiuta di percorrere la strada che Dio gli ha destinato. Ci si ferma a una dipendenza infantile dal maestro e si ha continuamente bisogno della sua vicinanza per inebriarsi della sua saggezza e del suo amore.

Per la chiesa delle origini la nuova comunanza di ebrei e greci, di uomini e donne, di poveri e ricchi fu un segno della venuta del regno di Dio. La spiritualità benedettina è sempre stata praticata nella comunità. I giusti e buoni rapporti nella comunità sono sempre stati un'importante conferma della relazione matura con Dio.

È un impegno faticoso compiere ogni giorno il proprio cammino spirituale dentro una comunità. Qui non ci si può differenziare. Qui ci si deve confrontare con conflitti quotidiani. Qui il problema è tollerare le debolezze dei confratelli e delle consorelle. E c'è continuamente bisogno di cercare dei compromessi onesti. La comunità ingentilisce tutte le stravaganze. Ci mette continuamente di fronte alle nostre zone d’ombra. Non si può dare a intendere nulla ai confratelli. Tutto ciò che vorremmo occultare sotto un pietoso mantello viene alla luce. Ma proprio in questo modo la comunità conduce all'umiltà.

È una spiritualità molto sobria quella annunciata da Benedetto. Egli fa i conti con le quotidiane «spine dei dispetti» che nascono nello stare insieme. Ed esige dall'abate che si opponga a questi dispetti e si preoccupi continuamente della pace nella comunità. Ma è un compito del singolo far sì che lo stare insieme riesca. C'è bisogno di rispetto e di comprensione degli altri, è necessario rinunciare a giudicare e a voler dirigere gli altri.

Alle persone che praticano una spiritualità molto ideologica riesce sempre molto difficile affidarsi a una comunità. Spesso spaccano la parrocchia o la comunità dei fedeli che fondano o alla quale si uniscono. Per un certo tempo può anche andare bene una comunità composta da persone ideologicizzate, soprattutto finché essa ha un avversario comune. Ma dopo un po' di tempo si spaccherà. Infatti, i suoi membri non hanno imparato a cimentarsi con i conflitti quotidiani. Preferiscono rifugiarsi in un'ideologia, nella prepotenza e in una lotta fanatica per la giusta dottrina. Ma tutto quello che è stato rimosso sotto la superficie dell'ideologia prima o poi riaffiorerà e si esprimerà in aggressività o in intrighi nei confronti degli altri.

Questo pericolo esiste anche in nuovi movimenti spirituali, nei quali all'inizio la comunità è viva e attraente perché tutti sono entusiasti. Ma se l'entusiasmo non si trasforma in una spiritualità matura che si confronta positivamente con le contrapposizioni quotidiane ed è quindi disposta ai compromessi, in poco tempo la comunità si sfalderà. Oppure verrà tenuta insieme da un'autorità forte che spegne sul nascere ogni conflitto. Appena, però, verrà a mancare l'autorità, la comunità si spezzerà.

Nella comunità si vede anche se i singoli individui sono una benedizione per lo stare insieme o se creano spaccature attorno a sé. Chi è scisso dentro di sé, spaccherà anche la comunità. Nella comunità ci sono membri che tengono insieme gli altri. Sono come la colla della comunità. E ci sono membri che utilizzano la comunità solamente per se stessi e non fanno niente per essa. Avanzano sempre e solo delle richieste alla comunità, senza essere disposti a impegnarsi per essa. Se qualcosa non va secondo le loro idee, criticano la comunità, dicendo che non è abbastanza spirituale, che è superficiale e che ognuno cerca solo il suo tornaconto. Il grado di maturità di una persona si coglie dal modo con cui si inserisce nella comunità. La persona matura è sempre anche una benedizione per gli altri. Attorno a lei si può formare una comunità. Essa non lega gli altri a sé, ma li collega tra loro.

 

Anselm Grün, monaco benedettino


 













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