L'inferno è quaggiù

domenica 30 settembre 2007 alle 10:33
C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro giaceva alla sua porta coperto di piaghe... (Lc 16, 19‑31).


Commento di A. Pronzato

Una parabola pericolosa per le semplificazioni abusive cui può dare luogo.

Ad esempio. Tutto è rimandato all'al di là. Allora ci sarà il ro­vesciamento delle situazioni presenti. I ricchi all'inferno e i poveri in paradiso. Giustizia sarà fatta.

Per cui: i poveri devono solamente pazientare un poco. Giu­sto il tempo che i ricchi finiscano tranquillamente il loro banchetto e si abbiano una bella sepoltura... Poi, in paradiso, gli appartenenti alla categoria di Lazzaro si prenderanno la loro strepitosa rivincita.

Nessuna concezione è più opposta allo spirito della Bibbia di questa « rassegnazione », di questo rimandare all'al di là le solu­zioni delle ingiustizie presenti.

La fede, non dimentichiamolo, è anche principio di indignazio­ne, di lotta, non solo di rassegnazione.

Il giudizio di Dio va letto e proclamato anche nella storia pre­sente, non rimandato all'ultimo giorno.

Cerchiamo, quindi, di cogliere la parabola nel suo significato più genuino.

Il povero ha un nome piuttosto comune nell'ebraismo: Lazzaro (da Eleazaro, che significa « Dio, aiuta », «Yahweh viene in soc­corso»).

Il ricco non ha nome. Secondo la concezione semitica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la sua storia.

Ora, questo ricco non ha nome perché non ha storia. Ha costrui­to la sua esistenza sul vuoto. Ha perso il nome perché ha smarrito le vere ragioni del vivere (non si può vivere per banchettare tutti i giorni).

Non sono poche le persone che hanno smarrito il proprio nome, perché l'hanno sostituito con altri nomi: « denaro », « carriera », « potere », « successo », « lavoro », « barca »...

E poi, domandiamoci: è proprio vero che l'eternità costituisca il rovesciamento radicale della situazione presente?

Almeno nel caso del ricco, pare proprio di no.

La sua sorte nell'al di là non è altro che la fissazione definitiva di ciò che vive (o non vive) oggi, il prolungamento di ciò che è (o non è) sulla terra.

Lui è un isolato. Un separato. La ricchezza lo chiude nell'egoi­smo, lo stacca dagli altri. Impegnato a guardare nel piatto ricolmo, non vede il povero che sta alla sua porta. I cani vedono meglio di lui.

Ora, l'inferno non è altro che la « consacrazione » di questo sta­to di separazione, di lontananza. Separazione da Dio e dai suoi amici (Abramo, Lazzaro), perché quaggiù è vissuto lontano dagli altri, se­parato dai veri valori, attaccato unicamente all'avere, appiccicato al piacere egoistico, separato dal se stesso più autentico.

Dannazione vuol dire « privazione ». Ma il ricco in questione era già un « dannato » durante la sua esistenza terrena, scandita da regolari abbuffate. Perché imprigionato nel suo « privato ». Per­ché privato del senso della vita.

Si obietterà: ci sono anche i tormenti. Mentre sulla terra l'indi­viduo ha goduto, si è divertito, se l'è spassata. Almeno in questo, sembrerebbe, la situazione dell'al di là costituisce un capovolgi­mento.

Non sono d'accordo.

Proprio sicuri che il « banchettare » spensieratamente, indossa­re vestiti di gran lusso, accumulare denaro, sia sorgente di felicità?

Ritengo non ci sia tormento maggiore di una vita vuota, o riempite di cose inutili, che è lo stesso. Non ci sia tortura più lancinante dell’isolamento, della chiusura agli altri, del non vedere al di là del proprio uscio, del non saper usare le mani nel gesto del dono, del soffocare le esigenze dello spirito. Anche se questo tormento lanci­nante, questa angoscia, vengono soffocati con l'allegria e la spensie­ratezza, con il chiasso stordente, la dissipazione. Se cadessero le ma­schere, vedremmo spalancarsi ferite profonde, abissi di disperazio­ne. Un inferno, appunto. Già su questa terra. Un inferno dotato di tutti i confort.

La parabola evangelica, più che descriverci la geografia dell'al di là, più che informarci di ciò che avviene nell'altra vita, ci ammoni­sce severamente che la sorte dell'uomo si gioca oggi, quaggiù, in questo momento.

E’ il presente che viene « fissato » in eternità.

E’ l'al di qua che viene trasformato in al di là.

Il ricco pare accorgersi di aver bisogno degli altri (di Abramo, oppure di Lazzaro) quando ormai ha « passato l'abisso », quando non è più in tempo. E sembra occuparsi degli altri (dei suoi cinque fratelli) in ritardo. In realtà, ha mancato il presente.

Gli incontri avvengono quaggiù, i rapporti si intrecciano su que­sta terra, gli appuntamenti decisivi sono per l'oggi.

È soltanto oggi, qui, che si può essere liberati dal proprio pas­sato, e garantirsi quindi il futuro.

E anche noi abbiamo, per questo, « Mosè e i profeti », ossia la Parola di Dio. Non abbiamo bisogno di miracoli eccezionali, come quello di un morto che venga ad ammonirci (come vorrebbe il ricco per i suoi fratelli). La fede non nasce dai miracoli. Non è un morto risuscitato ma la Parola di Dio che risuona nel nostro cuore che può farci aprire gli occhi. E’ la Parola il vero miracolo, che può provo­care una risurrezione.

Nessuna conversione può essere fondata su un miracolo spetta­colare e la paura.

Certo la risurrezione del Cristo è un miracolo, il grande mira­colo. Tuttavia anche questo miracolo è trasformato, per noi, in Pa­rola efficace, in predicazione. E siamo beati perché, pur non avendo visto Gesù uscire dal sepolcro, ascoltando la Parola di Dio usciamo dal nostro sepolcro e usciamo alla scoperta dei fratelli.

« Gesù non cerca principalmente di spaventarci con un inferno futuro o di consolarci con un paradiso futuro. Piuttosto intende mostrarci come il cielo cammini là dove risuona la Parola di Dio che permette a un uomo di trovare il proprio fratello » (A. Maillot).

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