Le lacrime del profeta, l'esperienza dell'esilio

sabato 10 novembre 2007 alle 16:58


Oggi vorrei condividere questa profonda riflessione di Pietro Bovati sul senso delle lacrime e del dolore del profeta Geremia di fronte all'indurimento del cuore del suo popolo, amato immensamente da Dio e lui stesso...


Il peccato di Giuda è totale: non solo perché nessuno ne è esente, ma soprattutto perché esso non è percepito come peccato. Il cuore indurito non capisce di volere il male; non capisce perché venga minacciata una sanzione, e deride tale prospettiva; non capisce infine quando la collera divina col­pisce con la punizione (2,19; 44,15-19).

Quando il male si rivela così profondamente, quando l'insipienza dell'uomo raggiunge il suo culmine, la parola del profeta si muta in pianto:


«Chi farà del mio capo una

fonte d'acqua, dei miei

occhi una sorgente

di lacrime, perchè pianga

giorno e notte

gli uccisi della figlia

del mio popolo?» (8,23).


«Se voi non ascolterete,

io piangerò in segreto

dinanzi alla vostra superbia;

il mio occhio si scioglierà in lacrime,

perché sarà deportato il gregge del Signore» (13,17).

«I miei occhi grondano lacrime

notte e giorno, senza cessare» (14,17).


Queste lacrime sono in primo luogo segno di compas­sione per il popolo che il profeta ama perché è il «suo» popolo. Come il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41), il pianto di Geremia non è solo lo sfogo per un'amara delu­sione, ma è piuttosto un'ultima muta parola che invita il pec­catore a convertirsi, e che intercede presso Dio.

Le lacrime sono inoltre un gesto profetico che anticipa ciò che faranno gli abitanti di Gerusalemme, una volta deportati in terra straniera o condannati alla miseria nel loro paese devastato. Basti pensare alle Lamentazioni:


«Ah, come sta solitaria

la città un tempo ricca di popolo...

Essa piange amaramente nella notte,

le sue lacrime scendono sulle guance» (Lam 1,1-2).


Ad alcuni cattivi interpreti della storia biblica questa situazione può sembrare la fine. A causa del peccato radi­cale di Israele, si dice, viene inflitta una punizione radicale; non si capisce che si tratta invece del principio. Il compiersi della parola di Dio, con il suo destino di sofferenza per il peccatore, non è il segno del fallimento dì Dio nella storia; al contrario, il tempo delle lacrime è il tempo della fecon­dità.

Dicevamo che il cuore di Israele si era chiuso nell'osti­nazione del peccato; nessuna intelligenza, nessuna verità sembrava più possibile. Ora Dìo, nel suo misterioso dise­gno di sapienza, porta l'uomo nell'abisso della sofferenza e della umiliazione, così che il suo cuore venga spezzato; nel­l'insopportabile esperienza del dolore, nelle lacrime dell'e­silio, il peccatore rientra in se stesso, e si apre al riconosci­mento del suo peccato e all'ascolto della parola di Dio (Dt 30,1-2).


Geremia visse e predicò nel regno di Giuda tra il 622 e oltre il 587 a.C., nell’epoca convulsa che vide consumarsi la tragedia della città santa, del tempio e delle istituzioni che reggevano il popolo di Dio Perseguitato, incarcerato e percosso come traditore e disfattista a motivo del suo messaggio che non incontrava i progetti dei governanti, egli resta fedele alla sua missione: denuciare il peccato del suo popolo, proclamare la minaccia dell'esilio ma anche la speranza di una nuova Alleanza e una nuova relazione con Dio, fatta di amore e fedeltà incisa nel profondo del cuore e non solo su talvole di pietra.


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