Con un Pastore così non mi vergogno di appartenere al gregge

domenica 3 maggio 2009 alle 10:41



... «IO sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me ... ; e offro la vita per le pecore.  E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore ... » Giovanni 10, 11-18 

Così, dobbiamo fare i conti col «buon pastore». Non è agevole.

Direi, quasi, fuori moda.  Anche perché, oggi, è più facile immaginare i tratti del mercenario che quelli del buon pastore. Per l'immagine di quest'ultimo, dobbiamo ricorrere ai santini, un po' sbiaditi.  Invece, l'identikit del mercenario e le sue imprese ci vengono fornite, con abbondanza di particolari, ogni giorno.  Ed è una documentazione sempre aperta a tutti gli aggiornamenti e alle sorprese più sgradevoli.

 Eppure dobbiamo fissare i lineamenti del buon pastore.  Che non sono quelli, dolciastri, dei santini.

Davide, parlando della propria esperienza di gioventù, ci offre un ritratto di pastore in cui predominano i lineamenti duri, aspri, i toni forti.  Ecco la descrizione che fa a Saul del mestiere: « Il tuo servo custodiva il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora del gregge.  Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la preda dalla sua bocca.  Se si rivoltava contro di me, l'afferravo per le mascelle, l'abbattevo e lo uccidevo.  Il tuo servo ha abbattuto il leone e l'orso... » (1 Sam 17, 34-36).

Io stesso, nel Sahara, ho avvicinato ragazzini di tredici-quattordici anni che tenevano a bada mandrie inquiete di cammelli o greggi imponenti di pecore e capre.  Rotti a tutte le astuzie del mestiere, capaci di cavarsela nelle circostanze più difficili, con una prontezza di spirito eccezionale di fronte all'imprevisto, in grado di orientarsi con tranquilla sicurezza in quelle solitudini sconfinate.  Sapevano un mucchio di cose.  Conoscevano tutti i segreti di quella natura impervia.  Spirito di adattamento.  Coraggio.  Un'esperienza in stridente contrasto con l'età.

Ricordo perfettamente quando, a uno di questi sbarbatelli, in saccato in un'incredibile, pesante palandrana bianca, il volto bruciato dal sole, scarponi che affondavano nella sabbia rossa, ho offerto caramelle e cioccolato.  Ha fatto una smorfia quasi di disgusto.  Forse si sentiva offeso.  Mi ha domandato, con serietà:

Tabac? 

 La parabola evangelica ci presenta un gregge che non è mai al sicuro.  Continuamente minacciato.  Ed è di fronte al pericolo incombente che si precisa la linea di discriminazione tra il vero pastore e il mercenario.

 il pastore affronta il rischio, per la difesa del gregge.

 Il mercenario non ha altra preoccupazione che la fuga, per mettere in salvo la propria vita.

 Il pastore concepisce il proprio compito in chiave di responsabilità, di sollecitudine, di attenzione.

L'altro è indifferente. « Non gli importa delle pecore ».

Da una parte, abbiamo una concezione della vita intesa come servizio.

 Sul versante opposto, siamo di fronte a una mentalità in cui al primo posto sta l'interesse personale, il profitto, il successo, la propria incolumità.

Il buon pastore è « per » le pecore.

Nell'ottica del mercenario, le pecore sono « per » il suo portafoglio, i suoi affari, le sue comodità.

 NE sia consentita una malignità.  Penso che, se oggi il Cristo dovesse riproporre la parabola in chiave di attualità, insisterebbe non tanto sul « lupo » che viene da fuori, ma sul pericolo rappresentato dal mercenario, ossia dal cattivo pastore.

 Non c'è dubbio, infatti, che la più grave minaccia per le pecore consista nell’essere strumentalizzate, dominate, sfruttate.  Essere l'occasione di un « servizio » che si traduce in posizioni di prestigio, carriere, onori, soldi.

Il lupo più pericoloso è il « pastore » calcolatore. Ossia colui che vede gli altri in funzione del proprio piedistallo, dei propri conti, del proprio nome, della propria faccia, del proprio vantaggio.

Il pastore è tutt'altro che disinteressato. Anzi, è molto, direi inguaribilmente interessato. Soltanto che il suo interesse non è rivolto alla propria persona ma alla vita delle pecore, alla loro salvezza.

«Il buon pastore offre la vita per le pecore». E il Cristo tiene a precisare che questo avviene, non per un incidente banale, per un infortunio sul lavoro, ma per un atto di amore e in una dimensione di suprema libertà. «Io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.  Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso...»  

Per capire queste immagini, però, è necessario riferirsi a un quadro negativo.  Ci viene presentato da Ezechíele: «Come è vero che io vivo - parla il Signore Dio - poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d'ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge - hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge - udite, quindi, pastori, la parola del Signore: Dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto.  Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura... Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.  Oracolo del Signore Dio.  Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata...» (Ez 34, 8-16).

Con Cristo si realizza questa promessa.  Arriva la risposta di Dio all'attesa di un pastore diverso dagli altri.

Ma il buon pastore, quando si presenta, non è certamente nella linea delle immagini e dei desideri degli scribi.

 E’ uno come tutti.  Povero, semplice, spoglio, privo di segni esteriori di grandezza, allergico agli onori.  L'opposto del dominatore e dello sfruttatore.  Si preoccupa di scendere, più che di salire.

 Conosce i pericoli che minacciano il gregge dei suoi.  E lotta contro tutte le forze del male.

E’ un nomade instancabile, che va alla ricerca della pecora smarrita, si spinge lontano e non si stanca di chiamare i dispersi, gli sbandati, gli emarginati, i rifiutati.  Accorre dove c'è un uomo che non ce la fa più, che è schiacciato sotto il peso della solitudine, della sofferenza, della stanchezza, del disprezzo da parte dei benpensanti.

Può dire con tranquillità: Ecco, il pastore che aspettavate sono io.

E rivendica un titolo fondamentale.  Lui è uno che sa, che conosce. « Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre ».

Si tratta di quella conoscenza che non ha niente da fare con la semplice intelligenza e la psicologia, ma è questione di amore.

Allora, con un pastore di questo genere, mi sta bene anche l'immagine del gregge.  Non mi vergogno di appartenere al gregge.

 infatti appartenere alla Chiesa, al gregge di Cristo, non significa essere intruppati e camminare a testa bassa e rinunciare al proprio cervello e ai propri occhi.

No. Quel pastore è a servizio della mia libertà e della mia dignità.  Non pensa al posto mio, e neppure decide per me.  Dio mi tratta da adulto responsabile.  E vuole che i pastori, suoi rappresentanti, facciano altrettanto.

Io, dunque, sono « interessante » per Lui.

Ho un valore unico ai suoi occhi.

Dio mi prende sul serio.

Ho a che fare con un pastore che è attento a ciascuna delle sue pecore.

E quando mi sento chiamare, non penso per prima cosa a un rimprovero o a un castigo.

Penso, piuttosto, con sorpresa, che Dio mi conosce per nome.

A. Pronzato

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