«La morte che genera vita»
Riflessioni di una cristiana turca
Da Antiochia
Era domenica 5 febbraio quando, a Trabzon – città turca sul mar Nero - al culmine di una giornata di proteste e di violenze nel mondo islamico per le caricature di Maometto apparse su alcuni giornali occidentali, dopo aver celebrato come consueto la Messa domenicale del pomeriggio, mentre stava pregando inginocchiato nelle ultime panche della chiesa, il sessantenne sacerdote romano Andrea Santoro venne freddato alle spalle con due colpi di proiettili.
Il presunto omicida è stato arrestato, i vertici politici e religiosi hanno condannato il gesto, la maggior parte dell’opinione pubblica si è dimostrata allibita di fronte ad un simile gesto, noi, sparuta comunità di cristiani, abbiamo pianto sgomenti un nostro amico, testimone e martire. Ora, però, tutto sembra essere tornato ad una tremenda normalità. Anche le guardie del corpo assegnate a diversi sacerdoti dell’Hatay e di Smirne sono state richiamate ad altri incarichi. Eppure noi cristiani turchi non vogliamo e non possiamo lasciare che questo martirio cada invano.
In quei giorni anch’io, come tutti, saltando da un canale all’altro, sfogliando le pagine dei più svariati giornali, in maniera spasmodica ho cercato di capire, di trovare una ragione, un movente, un senso a questa morte così improvvisa e violenta.
Tante sono le cose che si sono dette… ognuno ha espresso il suo parere, la sua rabbia, il suo sgomento, la sua disapprovazione, il suo stupore: mi sono sentita stordita e svuotata. Ora è arrivato il silenzio, che lascia risuonare in me i sentimenti più svariati che ribollono nel cuore e nella mente di una semplice cristiana che cerca di vivere in Turchia, Paese a maggioranza musulmana.
Ero un’adolescente quando tredici anni fa quest’uomo si fermò tra noi la prima volta.
Già allora silenzioso, meditativo, passava le ore nella nostra chiesetta in preghiera. Noi ragazzi – e io non ero neppure cristiana a quei tempi – chiedemmo stupiti al nostro parroco il perché di quelle sue lunghe soste davanti al tabernacolo. Ci rispose che stava chiedendo al Signore di illuminargli la strada. Una possibile venuta in Turchia. Gli facemmo festa il giorno del suo onomastico e lui commosso prima di ripartire per Roma ci salutò: “Insciallah (se Dio vuole), ci rivedremo”.
Ho saputo che andò a Urfa l’anno in cui sono stata battezzata. Ma non l’ho mai più rivisto se non ora, da morto, nelle tante foto riprodotte sui mass media.
Nel passato ci è capitato di sentire echi lontani di preti uccisi, ma si trattava sempre di Paesi lontani, mai avremmo sospettato che sarebbe successo anche qui, in terra di Turchia. Eppure la Turchia, nei tempi remoti è stata terra di grandi martiri. Ce lo ricordano continuamente i numerosi pellegrini che vengono apposta fin qua da tutto il mondo per ricordare le radici della propria fede cristiana. Questa terra è impregnata del sangue di sant’Ignazio di Antiochia, di san Crisostomo, san Babila e tanti altri. Tempo di persecuzioni e di odio verso i cristiani. Sono le loro icone in chiesa a parlarcene. È sul loro sangue e su quello di san Paolo, che tanto ha lavorato per il Vangelo, che è fondata e fecondata la nostra chiesa di Turchia.
Poi le comunità cristiane – quasi non fossero più stesse membra dell’unico corpo di Cristo - sono state dimenticate dall’Occidente, impegnato su altri fronti, e sono cadute nel silenzio. Nel 1846, sappiamo, la Chiesa cattolica di rito latino, che lungo i secoli non aveva mai perso di vista Antiochia, torna in questa nostra città con i frati cappuccini, dopo ben oltre sette secoli dalla partenza dei crociati. Il primo ad arrivarci fu l’italiano padre Basilio Galli. Instancabile, attivo, si conquistò la simpatia della gente; aprì una cappella e una piccola scuola. La lapide all’ingresso della nostra chiesa ci ricorda che pagò con la vita il suo zelo da pioniere: fu martirizzato il 12 maggio 1851. Sgozzato in chiesa da dietro le spalle da due assassini, subito dopo avere celebrato la Messa del mattino. Primo martire in Turchia dei tempi moderni. Dopo 155 anni, il secondo: stesso zelo, stessa dinamica, stessa passione.
Il sangue del martirio feconda
Il nostro parroco ci spiega che don Andrea è ricordato come una persona che si è data da fare per i poveri, per le prostitute, per i diseredati. In Italia era molto impegnato nel sociale e aveva fatto costruire varie strutture per i bisognosi. Sappiamo bene che qui si può fare ben poco. Si aiuta qualcuno quando si può e come si può, ma non credo che fosse questo a riempire di senso la giornata di don Andrea.
Guardando i nostri preti, le nostre suore che hanno lasciato tutto il loro mondo per venire da noi, - ma perché sono così pochi quelli che decidono e hanno la forza di stare quaggiù? - mi chiedo come possono restare. Qui si sperimenta l’aridità, l’inefficienza – rispetto a parametri occidentali – una vita povera, priva di successi immediati: è solo la fede che sostiene e giustifica una presenza così.
L’altra sera, al nostro settimanale incontro di preghiera ci è stato letto uno spezzone dell’ultima lettera di don Andrea rivolta ai suoi amici italiani: «Voi e la Turchia: chi mi avrebbe detto anni fa che avrei unito nel mio cuore amori così distanti? Voi e il Medio Oriente: chi mi avrebbe detto che avrei "portato in grembo", come si dice di Rebecca, due "figli" che "cozzano tra di loro" (Gen. 25,22), pur essendo fratelli nello stesso Abramo? Una madre sa che i suoi figli non si dividono in lei anche se sono divisi tra loro. Così accade anche a me. Avverto in me motivi per amare e gli uni e gli altri, motivi per tenerli serrati nello stesso "calice" e radunati ai piedi della stessa croce. Ma avverto anche delle lontananze tra loro, pur corrette, ma a volte solo camuffate, da dichiarazioni di amicizia, di rispetto e di collaborazione, a volte invece davvero lenite da sforzi sinceri fatti da più parti per capirsi, accettarsi, offrire ognuno il proprio patrimonio e scoprire quello dell'altro. Altre volte ho l'impressione che questi mondi non si parlino in profondità, ma facciano come quelle coppie che parlano solo di spesa, di bollette, di mobili da spostare e di salute dei figli e si illudono di comunicare e invece diventano sempre più estranei».
E lui ha voluto stare nel mezzo, essere con la sua vita elemento di riconciliazione: tutto ciò ci ha scosso profondamente. Qualcuno ha voluto dare la vita per noi, cristiani “inesistenti”, per molti. E poi più avanti scrisse: «Dopo una prima fase di residenza a Urfa-Harran, conclusasi qualche settimana fa con la chiusura della “casa di Abramo" e il trasloco definitivo a Trabzon e dopo la seconda fase conclusasi con il completamento dei lavori di restauro della chiesa di Trabzon, è iniziata una terza fase tutta avvolta ancora nell'oscurità, in attesa che Dio ci indichi le sue vie. Questa attesa è fatta di silenzio, di preghiera, di speranza, di intima disponibilità a quello che Dio vorrà, di umiltà nell'accettare la povertà di risorse, di persone, di strumenti, di capacità personali. In questa fase, rileggo il passato della missione, scruto il presente, rivado agli inizi della chiesa a Gerusalemme, ascoltiamo le Scritture, cerchiamo di capire meglio il mondo da cui veniamo e il mondo dove siamo arrivati, cerchiamo di renderci accoglienti quanto più possibile».
Cosa faceva dunque a Trabzon? Era in attesa.
Allora perché in Italia su alcune prime pagine dei giornali fu proclamato come un eroe??? Un eroe combatte, lotta con violenza, si ribella con le armi, vuole la giustizia a tutti i costi, si difende e vince ammazzando il nemico. A me pare che, secondo la logica umana, don Andrea sia proprio la figura dell’ anti-eroe.
Non era neppure un santo, ci dicono. Di quelli che spesso ci immaginiamo noi sulle immaginette: languidi, sdolcinati, sempre accondiscendenti e sorridenti. Aveva un carattere energico, deciso, a volte persino brusco, il volto risoluto, non ammetteva compromessi… pare di sentire riecheggiare quel “e indurì il suo volto deciso verso Gerusalemme” con cui Luca descrive Gesù.
Una suora amica ci ha rivelato che prima di rientrare in Turchia questo fine gennaio le aveva telefonato da Roma confidandogli: «Lo sai, prega per me, sento che sto dando fastidio a Satana…». Una settimana dopo è stato ammazzato, nel nome di Dio. Perché?
La sua morte ci ha risvegliato dal torpore delle nostre coscienze, ci sta ricordando cosa vuol dire morire per amore. Ci ha ricordato che il cristiano è un personaggio scomodo, che si vuole togliere di mezzo, eliminare. E se non è così, non può essere vero discepolo di Gesù.
Ma dopo la morte viene la Vita.
La Chiesa di Turchia, forse aveva bisogno di ciò.
Noi, forse, avevamo bisogno di ciò.
La sua morte ci ha sgomentato, ma ci dà una nuova forza, una nuova speranza, una nuova dritta. Ci insegna l’amore. Quell’Amore per cui io ho chiesto il battesimo, andando anche contro il parere della mia famiglia.
Da lassù abbiamo un nuovo protettore e intercessore.
Anche voi, per favore, non dimenticatevi di noi, non lasciateci soccombere dalla stupidità della gente. Non associatevi a coloro che, per gioco o per scherzo, in nome di un’ottusa libertà, mettono a repentaglio la vita dei fratelli lontani.
Lui ha scelto di stare dalla nostra parte. Con gli innocenti e gli indifesi. Senza ribellarsi. Fino in fondo. Per amore di Dio e dei fratelli. Questo è martirio. Questa è la morte che genera Vita.
Una cristiana turca
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