«Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo [ti ho (ri)conosciuto] , prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni». Risposi: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane». Ma il Signore mi disse: «Non dire: Sono giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti». Oracolo del Signore. Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e il Signore mi disse: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca. Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare.
Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro.
Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti». (Ger 1, 4-10. 17-19)
La liturgia di domani inizia con alcuni stralci dal bellissimo cap. I del libro di Geremia (io per la verità ho riportato qualche versetto in più perchè mi sembra davvero un peccato prendere solo qualche frammento di testo un pò' di qua e un po' di là...).
La parola di Dio che raggiunge l'uomo Geremia (e noi) nel suo oggi ("nei giorni del re Giosia...") è da vertigine.
Prima che tu fossi plasmato, prima che tu vedessi la luce di questo mondo, prima di ogni principio, io ti ho riconosciuto come mio figlio. Riconosciuto come figlio (non solo "conosciuto" come purtroppo quasi sempre si traduce in questo contesto il verbo ebraico). Appartieni a tuo padre e tuo padre appartiene a te. Sei consacrato, ogni fibra del tuo essere è abitata da questa volontà amorosa di Dio. Dice il salmo 27,10: "mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto".
E in Geremia si esplicita ciò che vale per tutti. La consapevolezza di questa paternità originaria che ci costituisce essenzialmente nella relazione di figli amati, voluti, desiderati, riconosciuti, abilitati a parlare la parola stessa di Dio che ci è stata rivolta.
"L'uomo è definito dalla sua vita visibile, quella che va dalla sua nascita alla sua morte; ma questo tempo è in rapporto con un altro tempo, più breve, quello della sua vita invisibile, della vita noscosta nel grembo materno. Vi è il tempo della (relativa) autonomia dell'uomo, della sua storia personale; ma questa è da rapportarsi con il tempo delle origini, quando si realizza una particolare presenza di Colui che "fa" in colui che "è fatto". Per capire veramente un uomo bisogna tenere presente l'articolazione tra questi due momenti, perchè ciò che è "originario" e invisibile rappresenta il senso che si svela poi nella storia" (P. Bovati).
In Geremia si rivela un amore particolare che "elegge", sceglie tra tanti per una missione in favore di tanti (addirittura "le nazioni"). In favore, a vantaggio, a servizio, per il bene di molti. Questa volontà amorosa di Dio si riversa su un uomo concreto (e su uomini e donne concrete anche oggi) e si fa desiderio di incarnazione e di manifestazione al mondo della Sua alterità che cerca l'amore dell'uomo.
La piccolezza umana di Geremia trema di fronte a questa missione di "parola". Percepisce quasi un senso di espropriazione oltre che di radicale inadeguatezza. Egli dice di essere un na'ar, un ragazzo. Ma non tanto nel senso della timidezza, quanto in quello della mancanza di autorità di parola e nella incapacità di dire la verità. La sua sarà una parola di ragazzo rivolta a re, autorità, a tutto un popolo, a delle nazioni! Come potrà essere ascoltato, obbedito? Che senso ha questa scelta di Dio? "Non so parlare"!
Eppure è proprio in questo paradossosale incontro tra debolezza (umana) e potenza (di Dio) che si attua il mistero della parola profetica. Essa suscita sempre come accadde a Nazareth per Gesù, la domanda: "ma come, non è il figlio di Giseppe?"; "ma da dove viene tanta sapienza?" (cfr. Mt 13,54.56; 21,23; Gv 7,15).
"Non dire: sono giovane, sono un na'ar". Non si diventa veramente uomini per accumulo di competenze, ma per un sì detto a Dio. E l'essere del profeta è radicalmente assenso, accoglienza di questo mistero. Così la sua bocca farà udire la Parola, e la Parola si inciderà nel suo stesso corpo, nella sua stessa vita, nel suo celibato, nel suo non indietreggiare di fronte alla morte e nel suo miracoloso scampare alla morte. Buttato in una cisterna a morire e dà laggiù ritirato su (cap. 38) figura di Colui - Cristo Signore - che è il Primogenito [di coloro che risalgono] dai morti (Col 1,18).
Quante cose ci sarebbero da dire! Ma voglio andare subito a ciò che mi ha colpito rileggendo anche il Vangelo di domani.
Tu sei debole, inadatto. Ma io oggi faccio di te una fortezza, un muro di bronzo. Contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ma come! Non era una missione "per"? Perchè allora si dice che egli dovrà essere "contro"?
Il corpo del profeta viene investito dalla forza di Dio. Che è il suo stesso essere: essere Amore.
Un Amore che l'uomo non conosce perchè ha preferito i suoi "amori", altre relazioni, altri luoghi dove attingere la vita, dimenticando l'Origine, il Padre. Voglio essere io a fare me stesso. Non voglio un padre, non voglio una origine che non sia la mia stessa decisione di essere e fare ciò che voglio. "Ti faranno guerra".
La libertà data da Dio (per amore) all'uomo prevede questa possibilità: che il Padre venga rifiutato, ucciso. Ma l'Amore non muore. L'Amore non desiste. Non cede di fronte al rifiuto di chi in fondo ha deciso di suicidarsi rifiutandoLo. Una fortezza. Un Amore che per amore non si piega e continua a parlarti, a cercarti. Un Amore che trasfigura il corpo e la vita di altri uomini in fortezze, che non devono cedere di fronte al non-amore. E a noi invece basta una foglia a spaventarci, a metterci in fuga come conigli, di fronte ad una sola parola dettaci con freddezza, di fronte ad non-saluto, di fronte alla paura di fare figuracce perchè semplicemente ci facciamo un segno della croce... altro che fortezze...
E allora ripenso al Signore.
Il vangelo di domani (IVa del T.O.; Lc 4, 21-30) riprende esattamente da dove era terminato quello di domenica scorsa: Gesù si rivela, nell'ordinarietà del rito del sabato, come Colui in cui si adempie tutta la parola profetica della Scrittura. Parla ai suoi concittadini di Nazareth, dove era cresciuto, a gente che lo conosceva, o pensava di conoscerlo. E gli fanno guerra. Non accolgono e non accettano, ritengono assurdo che Dio possa così rivelarsi, mentre cammini per la città, quando un tuo amico ti dice una cosa, mentre studi o lavori, quando parla il tale prelato o insomma "la Chiesa" come si dice, è assurdo che Dio si possa rivelare così, in mezzo a tanta povera umanità!
"Nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio".
Un rifiuto che accompagnerà la missione del Figlio di Dio fino alla fine.
Un rifiuto che si scontra con una fortezza inespugnabile: L'Amore. Desiderio di comunione e di vita. Amore che non si piega sotto i flagelli, non recede di fronte agli insulti, non si pente di averci dato fiducia e libertà. Amore che tace per non accusare; si fa silenzio per parlare e rivelarsi come Amore. Essere abitati dall'Amore significa sentire questa irriducibile forza crescere dentro. E' quello che chiediamo entrando nella preghiera in questo riposo domenicale.
Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro.
Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti». (Ger 1, 4-10. 17-19)
La liturgia di domani inizia con alcuni stralci dal bellissimo cap. I del libro di Geremia (io per la verità ho riportato qualche versetto in più perchè mi sembra davvero un peccato prendere solo qualche frammento di testo un pò' di qua e un po' di là...).
La parola di Dio che raggiunge l'uomo Geremia (e noi) nel suo oggi ("nei giorni del re Giosia...") è da vertigine.
Prima che tu fossi plasmato, prima che tu vedessi la luce di questo mondo, prima di ogni principio, io ti ho riconosciuto come mio figlio. Riconosciuto come figlio (non solo "conosciuto" come purtroppo quasi sempre si traduce in questo contesto il verbo ebraico). Appartieni a tuo padre e tuo padre appartiene a te. Sei consacrato, ogni fibra del tuo essere è abitata da questa volontà amorosa di Dio. Dice il salmo 27,10: "mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto".
E in Geremia si esplicita ciò che vale per tutti. La consapevolezza di questa paternità originaria che ci costituisce essenzialmente nella relazione di figli amati, voluti, desiderati, riconosciuti, abilitati a parlare la parola stessa di Dio che ci è stata rivolta.
"L'uomo è definito dalla sua vita visibile, quella che va dalla sua nascita alla sua morte; ma questo tempo è in rapporto con un altro tempo, più breve, quello della sua vita invisibile, della vita noscosta nel grembo materno. Vi è il tempo della (relativa) autonomia dell'uomo, della sua storia personale; ma questa è da rapportarsi con il tempo delle origini, quando si realizza una particolare presenza di Colui che "fa" in colui che "è fatto". Per capire veramente un uomo bisogna tenere presente l'articolazione tra questi due momenti, perchè ciò che è "originario" e invisibile rappresenta il senso che si svela poi nella storia" (P. Bovati).
In Geremia si rivela un amore particolare che "elegge", sceglie tra tanti per una missione in favore di tanti (addirittura "le nazioni"). In favore, a vantaggio, a servizio, per il bene di molti. Questa volontà amorosa di Dio si riversa su un uomo concreto (e su uomini e donne concrete anche oggi) e si fa desiderio di incarnazione e di manifestazione al mondo della Sua alterità che cerca l'amore dell'uomo.
La piccolezza umana di Geremia trema di fronte a questa missione di "parola". Percepisce quasi un senso di espropriazione oltre che di radicale inadeguatezza. Egli dice di essere un na'ar, un ragazzo. Ma non tanto nel senso della timidezza, quanto in quello della mancanza di autorità di parola e nella incapacità di dire la verità. La sua sarà una parola di ragazzo rivolta a re, autorità, a tutto un popolo, a delle nazioni! Come potrà essere ascoltato, obbedito? Che senso ha questa scelta di Dio? "Non so parlare"!
Eppure è proprio in questo paradossosale incontro tra debolezza (umana) e potenza (di Dio) che si attua il mistero della parola profetica. Essa suscita sempre come accadde a Nazareth per Gesù, la domanda: "ma come, non è il figlio di Giseppe?"; "ma da dove viene tanta sapienza?" (cfr. Mt 13,54.56; 21,23; Gv 7,15).
"Non dire: sono giovane, sono un na'ar". Non si diventa veramente uomini per accumulo di competenze, ma per un sì detto a Dio. E l'essere del profeta è radicalmente assenso, accoglienza di questo mistero. Così la sua bocca farà udire la Parola, e la Parola si inciderà nel suo stesso corpo, nella sua stessa vita, nel suo celibato, nel suo non indietreggiare di fronte alla morte e nel suo miracoloso scampare alla morte. Buttato in una cisterna a morire e dà laggiù ritirato su (cap. 38) figura di Colui - Cristo Signore - che è il Primogenito [di coloro che risalgono] dai morti (Col 1,18).
Quante cose ci sarebbero da dire! Ma voglio andare subito a ciò che mi ha colpito rileggendo anche il Vangelo di domani.
Tu sei debole, inadatto. Ma io oggi faccio di te una fortezza, un muro di bronzo. Contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ma come! Non era una missione "per"? Perchè allora si dice che egli dovrà essere "contro"?
Il corpo del profeta viene investito dalla forza di Dio. Che è il suo stesso essere: essere Amore.
Un Amore che l'uomo non conosce perchè ha preferito i suoi "amori", altre relazioni, altri luoghi dove attingere la vita, dimenticando l'Origine, il Padre. Voglio essere io a fare me stesso. Non voglio un padre, non voglio una origine che non sia la mia stessa decisione di essere e fare ciò che voglio. "Ti faranno guerra".
La libertà data da Dio (per amore) all'uomo prevede questa possibilità: che il Padre venga rifiutato, ucciso. Ma l'Amore non muore. L'Amore non desiste. Non cede di fronte al rifiuto di chi in fondo ha deciso di suicidarsi rifiutandoLo. Una fortezza. Un Amore che per amore non si piega e continua a parlarti, a cercarti. Un Amore che trasfigura il corpo e la vita di altri uomini in fortezze, che non devono cedere di fronte al non-amore. E a noi invece basta una foglia a spaventarci, a metterci in fuga come conigli, di fronte ad una sola parola dettaci con freddezza, di fronte ad non-saluto, di fronte alla paura di fare figuracce perchè semplicemente ci facciamo un segno della croce... altro che fortezze...
E allora ripenso al Signore.
Il vangelo di domani (IVa del T.O.; Lc 4, 21-30) riprende esattamente da dove era terminato quello di domenica scorsa: Gesù si rivela, nell'ordinarietà del rito del sabato, come Colui in cui si adempie tutta la parola profetica della Scrittura. Parla ai suoi concittadini di Nazareth, dove era cresciuto, a gente che lo conosceva, o pensava di conoscerlo. E gli fanno guerra. Non accolgono e non accettano, ritengono assurdo che Dio possa così rivelarsi, mentre cammini per la città, quando un tuo amico ti dice una cosa, mentre studi o lavori, quando parla il tale prelato o insomma "la Chiesa" come si dice, è assurdo che Dio si possa rivelare così, in mezzo a tanta povera umanità!
"Nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio".
Un rifiuto che accompagnerà la missione del Figlio di Dio fino alla fine.
Un rifiuto che si scontra con una fortezza inespugnabile: L'Amore. Desiderio di comunione e di vita. Amore che non si piega sotto i flagelli, non recede di fronte agli insulti, non si pente di averci dato fiducia e libertà. Amore che tace per non accusare; si fa silenzio per parlare e rivelarsi come Amore. Essere abitati dall'Amore significa sentire questa irriducibile forza crescere dentro. E' quello che chiediamo entrando nella preghiera in questo riposo domenicale.
Stamattina mi è capitato di sbirciare il sito, con alcuni pensieri che mi portavo dalla Liturgia di domenica. Sai Padre Salvatore, è difficile a volte non inciampare nelle nostre debolezze , non inginocchiarsi davanti a quella Croce, al suono della Sua Parola e faticare nella ricerca della Sua fortezza. L’inadeguatezza la si sperimenta non tanto nell’esperienza umana, tempo in cui si accumulano troppo spesso solo conoscenze e competenze, quanto nell’esperienza di Dio…che è differente e sorprendentemente specifica per ognuno di noi; questa sublime esperienza per quanto la si percepisca preziosa e quindi la si custodisca, può rivelarsi in certi momenti indefinita, e quindi fragile. Almeno questo è quello che capita a me. Può essere spaventata anche dall’esterno, dalla disattenzione, dalla non-umiltà, dal non-amore, dalla tentazione.
Eppure Lui, Amore che non desiste, parla con perseveranza, e consola; ricolma di uno slancio, segno della sua Grazia, che rende necessario camminare fuori e rischiare di nuovo… perché è vero che Dio lo si incontra tra gli uomini e perché proprio fuori sconfina l’Amore che si scopre di desiderare nel silenzio del cuore, nell’accoglienza e soprattutto nell’obbedienza.
Ti volevo fare i complimenti per il sito... grazie.
Daniela
Cara Daniela,
Grazie per le tue parole.
Credo che inciampare nelle nostre debolezze sia inevitabile e direi quasi necessario, perchè sono proprio le "debolezze" e tutti i limiti personali con cui ci scontriamo che sono il luogo dove meglio si manifesta la nostra verità. La verità del nostro essere come desiderio di infinito e contemporaneamente come esperienza della propria piccolezza.
E questo vale anche per il nostro rapporto con Lui, fragile perchè è un tesoro è affidato a "vasi di creta" (2Cor 4,7). Un tesoro e vasi di creta. Dio e la nostra libertà. Due realtà la cui compenetrazione costituisce tutto lo stupore e la grandezza dell'esperienza cristiana. Ma non guardiamo tanto al "vaso di creta", bloccandoci nell'esperienza del nostro limite; esultiamo piuttosto nella lode per questo tesoro immenso che ha scelto di abitare in noi! Dice il Signore: "rimanete in me e io in voi! rimanete nel mio amore!" (Gv 15,4.9.