«Se c’è una definizione cristiana dell’esistenza, è quella indicata dal termine “vocazione”. Questo termine può essere percepito, nel suo profondo significato, solo nell’ambito della tradizione religiosa ebraico-cristiana, cioè in una tradizione religiosa interamente dialettizzata dal rapporto vocale con Dio. Dio che si rivela investe totalmente la vita dell’uomo, dandogli l’esatto significato del rapporto con Lui, con gli altri e con se stesso»[1]. Giovanni Paolo II ha affermato che questa idea di vocazione come l’abbiamo definita (Dio che si rivela investe totalmente la vita dell’uomo, dandogli l’esatto significato del rapporto con Lui, con gli altri e con se stesso), «si manifesta per la prima volta nella storia dell’umanità con la vocazione di Abramo. La persona – continua Giovanni Paolo II – chiamata con il proprio nome, prende coscienza del suo rapporto con Dio, e può liberamente collaborare alla missione affidatale dal Creatore»[2]. La vocazione nostra, la vocazione della vita, non può non misurarsi, paragonarsi con la vocazione di Abramo, con il “come” Dio ha chiamato Abramo. Perché la modalità del nostro rapporto con Dio non la decidiamo noi, ma la decide Lui. A noi sta obbedire alla modalità che lui sceglie e che nel suo rapporto con Abramo diventa paradigma per ciascuno di noi. La storia della vocazione e di tutta la vicenda di Abramo inizia così: Il Signore disse… (Gn 12,1). Credo si possa istituire un interessante parallelo con il racconto della creazione. La Genesi ci informa che prima della parola creatrice di Dio, la terra era informe e vuota (Gn 1,2): essa inizia a prendere forma, a riempirsi di vita e di luce a partire da una parola di Dio: Il Signore disse…(Gn 1,3). Per Abramo è stato lo stesso: è un uomo qualsiasi, un beduino come tanti, sconosciuto, ma la parola di Dio lo trae dall’ombra e lo fa essere. Ed anche per noi è lo stesso: noi siamo stati creati dal nulla, abbiamo iniziato ad esistere in forza di una parola di Dio che ci ha strappato dal nulla e ci ha chiamato all’esistenza. Ma in quel nulla, esistenziale, noi rischiamo sempre di precipitare di nuovo, perché ci portiamo dentro la ferita di una sproporzione che ci fa essere distratti, dimentichi del rapporto costitutivo con il profondo radicale generativo di tutte le cose; ed è per questo che ogni mattina, ed anzi in ogni istante, come ha detto ancora Giovanni Paolo II nel suo Trittico Romano, il Signore, con la sua Parola «domina ogni cosa, traendo l’esistenza dal nulla, e non soltanto in principio, ma di continuo». La nostra vita, dunque, la sua possibilità di compimento, si gioca interamente nell’ascolto della Parola di Dio e nella nostra obbedienza ad essa. Se Abramo non avesse obbedito a quella parola, niente della storia che ha avuto inizio con lui e che si compie in Cristo, sarebbe accaduto. Ora, però, come dice Ugo di S. Vittore, tutta la Parola di Dio è un libro solo e quest’unico libro è Cristo; «infatti tutta la divina Scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento». Se tutta la divina Scrittura è un libro solo e quest’unico libro è Cristo, allora, mi sembra, la Parola di Dio non è innanzitutto un testo da capire, ma una Persona – la persona di Cristo – da seguire. C’è un episodio della vita di Francesco di Assisi che penso possa chiarire ciò che voglio dire: il testo dice così:
«Ma un giorno in cui in questa chiesa si leggeva il brano del Vangelo relativo al mandato affidato agli Apostoli di predicare, il Santo, che ne aveva intuito solo il senso generale, dopo la Messa, pregò il sacerdote di spiegargli il passo. Il sacerdote glielo commentò punto per punto, e Francesco, udendo che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro, né argento, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone per via, né avere calzari, né due tonache, ma soltanto predicare il Regno di Dio e la penitenza (Mt 10,7-10; Mc 6,8-9; Lc 9,1-6), subito, esultante di spirito Santo, esclamò: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!»[3]
Qui è evidente come non sia Francesco ad interpretare il Vangelo, ma è il Vangelo che interpreta Francesco, facendo l’esegesi del suo desiderio e mobilitandolo alla decisione.
Anche per noi, come per Abramo, come per Francesco, può essere così; l’unica cosa che ci viene domandata è avere a cuore il nostro cuore, obbedire a quel desiderio di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità…un desiderio che trova risposta in quella Parola che, unica, rimane in eterno.
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