Il prossimo è sempre lontano

domenica 15 luglio 2007 alle 14:59
«... Ma quegli, volendosi giustificare, disse a Gesù: « E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,25‑37)

In fondo, dobbiamo essere grati al «dottore della Legge» che ha posto sul tappeto la questione più impegnativa.
Non domanda, come ci saremmo aspettati: «Chi è Dio? »

Evidentemente, nel mondo dell'invisibile, lui si sente perfet­tamente a suo agio, si ritiene già al sicuro. Dio lo «possiede» (Tempio, funzioni, preghiere, pagamento delle decime, pratiche, osservanza scrupolosa della Legge). Dio non fa problema per lui. E’ in ottimi rapporti col cielo.

Il prossimo, invece, quello sì fa problema.

Proprio il prossimo che si vede, si sente, si tocca, si incontra, puzza, ci pianta i gomiti nello stomaco, è più difficile da amare che non Dio che pure è invisibile.

Più difficile «trovare» il prossimo che non Dio.

È la grossa questione che impegna da secoli la teologia di Israe­le, dilacerata tra:

‑ un universalismo astratto (amare tutti)
‑ e un particolarismo esclusivista, selettivo, discriminatorio (ama i tuoi correligionari, i buoni, i giusti, quelli della tua razza, della tua fede, delle tue idee, del tuo partito ... ).

Si intuisce che «amare tutti» può portare a non amare vera­mente nessuno.

E amare una categoria, un gruppo, escludendo aprioristica­mente gli altri, significa non amare affatto.
Ma fissiamo le due posizioni. Quella del legalista e quella del Cristo.

Lo scriba:

- Pretende una definizione di «prossimo»: sicura, precisa, definitiva, in modo da sentirsi a posto in coscienza.

‑ Pone una domanda circa l'oggetto dell'amore (chi devo trat­tare come prossimo?).

Pensa primariamente a sé: devo garantirmi la «vita eterna». Possibilmente con il minimo sforzo e il massimo di certezza. Per cui: fin dove devo arrivare? Fin dove sono obbligato? Dove e quando finisce il mio dovere?


Gesù:

‑ Evita di fornire una definizione di prossimo. Perché la defi­nizione lascia sempre fuori qualcosa o qualcuno. Mentre il Cristo intende lasciare aperta la porta. E, soprattutto, più che mettere a posto la coscienza, Gesù tende a tenerla in allarme, a introdurvi costantemente la spina dell'inquietudine, dell'insoddisfazione.

‑ Fa capire che il prossimo non è un oggetto, ma l'incontro tra due soggetti. Non si tratta di trovare il prossimo già bell’ e fatto, e scaricarci sopra un po' di pietà o elemosina, ma di «farci prossimo», ossia avvicinare. Perché il prossimo è sempre lontano. Lontano dalla strada dei nostri interessi, simpatie, gusti, idee, pro­grammi.

Il prossimo è distante: scostante. antipatico, cattivo, prepo­tente, indiscreto, immeritevole.

Il prossimo non ci viene incontro. Non favorisce il contatto. Non si rende amabile. Anzi, sembra fare di tutto per renderci estremamente arduo il comandamento dell'amore.

Il prossimo è lontano. Difficile da vedere, da accettare, da sop­portare.
Il prossimo diventa prossimo, ossia vicino, quando ci avvici­niamo noi.
Prossimo è colui che «rendo vicino» io, non stando al mio posto.
È lui allora che ci sente «prossimi», «vicini ».

In altre parole: non siamo noi che scegliamo il prossimo. Ma è il prossimo che ci sceglie, ci provoca.
Il prossimo va oltre i nostri libri, le definizioni, le classifica­zioni, i nostri gusti, le nostre simpatie.

C'è una resistenza terribile da vincere, per accostarsi al pros­simo.

Amare vuol dire, precisamente, abolire le distanze. E sono distanze interiori, più che espresse in chilometri.

Per avvicinarsi, occorre uscir fuori da se stessi. Spaccare il guscio del proprio egoismo, andare contro al nostro benessere pri­vato, venir fuori dai nostri progetti, dai nostri schemi, dal tepore di una religiosità confortevole e gratificante.

Soltanto così è possibile incontrare l'altro.

E l'incontro ‑ attraverso l'esempio che offre il Samaritano ‑ av­viene tra due uomini. Non c'è più samaritano e giudeo, ortodosso ed eretico, ma due uomini che l'incontro casuale ha spogliato delle loro maschere, del loro ruolo, della loro razza. Soltanto due uomini.

Il Samaritano non domanda chi è l'altro, di che religione, di che partito. Davanti a lui c'è semplicemente un povero che si trova in stato di necessità. L'avvicinamento è determinato da questo sem­plice connotato: un uomo. Senza aggettivi, senza titoli. Meglio, l'unico titolo è il bisogno.

Gesù dice allo scriba: è il tuo punto di partenza che è sba­gliato. Tu parti da te stesso. Invece devi partire dall'altro.

Non pensare a te, alle tue esigenze. Pensa a chi è nel bisogno. Mettiti al suo posto. Collocati nella sua prospettiva.

Chiediti: che cosa esige da me, che cosa si aspetta, che cosa vorrebbe avere uno che si trova in quella situazione?

Allora ti renderai conto che il precetto dell'amore non tollera limiti restrittivi e securizzanti.
Non dire: «Fin dove sono obbligato?» Ma: «Che cosa si aspetta da me quel poveraccio?»
Se ti metti dal tuo punto di vista, ti creerai delle barriere dì protezione.

Se ti metti dal punto di vista dell'altro, ti si spalancherà da­vanti un orizzonte senza limiti.

Si tratta, a pensarci bene, di una vera « rivoluzione coperni­cana » nel campo della carità.

Infatti, la lezione centrale della parabola consiste nell'inse­gnarci la prospettiva giusta.

Una prospettiva che in base al racconto «provocatorio» del Cristo, rappresenta un autentico capovolgimento delle posizioni.

«Chi è il mio prossimo? »

«Chi è stato il prossimo di colui che è incappato nei bri­ganti?»

Non è una sottile questione linguistica.
Ma un rovesciamento radicale di prospettiva.
Cristo invita a guardare, a giudicare, a definire, partendo da «colui che è incappato nei briganti».

Il dottore della Legge parte da sé, dalla propria coscienza, dalla propria esigenza di salvezza («che cosa devo fare per eredi­tare la vita eterna?»).

Gesù lo scaraventa brutalmente in disparte. Il suo problema non è quello principale. Il problema principale è quello del ferito. Risolvendo quello, viene risolto anche il problema dello scriba.

Il centro non è l'intellettuale che pone la domanda. Il centro é quel «sacco» abbandonato ai margini della strada. Di lì bisogna partire se non si vuole strumentalizzare la carità, ossia trasfor­mare l'amore (che è il fine della vita cristiana) in mezzo.


«... Va' e anche tu fa' lo stesso».

Trattandosi di amore, é significativo che Cristo usi due verbi che indicano rispettivamente movimento («va'») e azione («fa'»).

Lo scriba, che interroga Gesù, all'inizio dimostra soltanto di voler «sapere ».

Alla fine, si ritrova con qualcosa da fare.

Ossia, il Cristo esige da lui, da noi, un sapere «diverso».

Un sapere per amare.

(A. Pronzato)


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