Bose, 3-4 novembre 2007
“Conosco due specie di solitudine: l’una che mi rende triste da morire e mi dà la sensazione di essere persa, senza direzione; l’altra, al contrario, mi rende forte e felice. La prima deriva dal fatto che ho l’impressione di non aver più contatto con i miei simili, di essere totalmente separata da ciascuno di loro e da me stessa, al punto da non capire più che senso può avere la vita, mi sembra che non abbia più coerenza e che io non vi trovi il mio posto. Ma l’esperienza di un’altra solitudine mi rende forte e sicura di me stessa, mi sento in comunione con tutti, con tutto e con Dio, mi sento inserita in un grande condividere anche con altri questa grande forza che è in me (Etty Hillesum).
Spesso vediamo solitudine e comunione come antagoniste e cerchiamo la seconda per scappare dalla prima mentre, in realtà, si tratta di accettare una dimensione di solitudine costitutiva del nostro essere umani per accedere alla vera comunione con gli altri: “Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione. Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione si guardi dallo stare solo.
Esclusivamente nella comunione riusciamo a essere soli ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione impariamo a essere soli nel modo giusto ed esclusivamente nella solitudine impariamo a essere nella comunione in modo giusto.
Non si ha la precedenza di una condizione sull’altra, ma esse si determinano contemporaneamente con la chiamata di Cristo (Dietrich Bonhoeffer). Si tratta di scoprire che si può essere in comunione nella più grande solitudine e nella più intensa comunione scoprire uno spazio di solitudine che custodisce noi e l’altro da ogni assorbimento e fusionalità, che ci fa essere con noi stessi.
fonte: Monastero di Bose
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