Corpus Domini: Come un fermo-immagine

domenica 14 giugno 2009 alle 15:35




L’eucaristia non è fatta per essere portata in processione, né per farci liturgie di adorazione con incensi vari. Credo sia bene ridircelo con chiarezza. Il Signore è esplicito in proposito: non ha detto: prendete e mettetemi in un tabernacolo o in un ostensorio, ma: prendete e mangiate. L’eucaristia è fatta perché noi ce ne nutriamo.

Però in tutti i sensi.

La Chiesa ha maturato un po’ alla volta la consapevolezza del tesoro che le veniva offerto, e ha sentito la necessità di fermarsi un momento, prima di portare alla bocca quel pane e quel vino. Per nutrirsi meglio. In timore e tremore, come quando un innamorato ha tra le mani una lettera dell’amata di cui, ancora prima di leggerla, nota ogni particolare anche esterno, allo stesso modo la Chiesa Cattolica di rito latino ha precorso i tempi ricorrendo ad un geniale e azzeccatissimo «fermo immagine», dilatando cioè in diverse forme liturgiche (come l’elevazione durante la Messa, l’adorazione o le processioni eucaristiche) un frammento di tempo decisivo.

Avete capito quale?

Immettiamoci di nuovo nel rapido flusso di immagini che i vangeli e Paolo ci consegnano: Gesù prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza, lo porge ai suoi discepoli, dice questo è il mio corpo che è dato per voi, e… stop! Troppo veloce. Proprio qui la sensibilità ecclesiale ha deciso il fermo-immagine. Troppa ricchezza, troppa densità di senso rischiava di andarsene via così, senza essere gustata a fondo! Ed ecco che, sospendendo il tempo, quasi privato della sua forza dispersiva, lo sguardo si concentra lì, su quelle mani che porgono quel Pane e sulle parole che accompagnando il gesto ne fissano anche per sempre la verità: «questo è il mio corpo che è dato per voi».

Il fermo-immagine non isola il gesto ma, al contrario, imprimendolo nei nostri occhi congiunge i due estremi di cui costituisce il centro equidistante: l’Origine e il Fine. L’Origine sta tutta in queste parole: «pronunciata la benedizione» (che richiamano l’espressione «alzati gli occhi a cielo» della moltiplicazione dei pani in Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16 inserita proprio nel racconto istituzionale dal canone romano). Il Fine è invece in queste altre: «per voi», cioè perché voi siate in Me, che sono il Fine e il termine ultimo di tutta la crazione. In mezzo rimane quel Corpo che non finiremmo mai di adorare, ma lo contempliamo tra la preparazione del dono e la sua ricezione, per capire un po’ meglio origine e fine di un gesto tanto sublime quanto disarmante nella sua immediatezza e semplicità. Per renderci conto un po’ meglio dell’immensa portata del dono che ci viene offerto, per poterlo ricevere e gustare al massimo.

L’adorazione e ogni forma di culto eucaristico la intendo così, come la contemplazione penetrante di un flusso di vita che vuole raggiungerci, e che la liturgia mette in evidenza quasi sospendendo per un attimo il tempo. Fissare l’ostia innalzata dalle mani del sacerdote o sospesa in un ostensorio non è dunque un fatto statico, ma la pausa, necessaria per il nostro limite umano, di un processo dinamico che si sta attuando tra Lui e noi. Ma non è poi così strano se ci pensate: di fatto quando qualcuno ci offre un dono o anche una cena speciale, non è che ci gettiamo come belve fameliche sulla preda (spero), senza fissare negli occhi il donatore o un minimo atto di contemplazione di ciò che ci viene offerto, che renda ragione della particolarità della comunicazione che si attua nel gesto del dono.

Tra le parole: fessure, spazi, e… l’infinito

E allora anche la rilettura del testo dell’istituzione eucaristica grazie a questo fermo-immagine non scorre più via come niente fosse. Tra una parola e l’altra è come se si aprissero delle crepe, che ci fanno entrare in spazi di cui non riusciamo più a misurare limiti, ampiezza e profondità: Gesù è a tavola, con te, e già questo ci parla di condivisione profonda, perché esprime la partecipazione alla stessa vita. Un rapporto paritetico con Dio che nessun uomo avrebbe mai potuto immaginare (cf. Ap 3,20).

Egli prende quel pane tra le sue mani, mani che già avevano distribuito nel pane moltiplicato il tocco amoroso di Dio al suo popolo, il suo profumo soave per la Sposa. Alza gli occhi al cielo, al Padre, l’Origine dell’amore trinitario, in uno sguardo d’intesa che concentra in un solo attimo l’eternità di un disegno di misericordia infinita. Lo ringrazia e pronuncia una benedizione che fa salire la lode di tutta la creazione per la vita continuamente ricevuta da Lui, per tutti i suoi doni e per tutto ciò che si sta per compiere per noi.

Poi ci guarda e fissa quel pane, e lo spezza.

Gesto di vita e di morte, la sua. Per darci la vita, per dare a tutti la vita, si deve dividere, spezzare, morire. E pronuncia quelle parole che si incideranno per sempre nella storia, a fondo, e molto più in profondità delle dieci parole fissate nella dura pietra sotto gli occhi di Mosè. Questo pane spezzato.

Questo pane spezzato è (non significa, ma è veramente nel mistero) il mio corpo. Dato, consegnato, tradito, flagellato e crocifisso, per voi. Per voi… due parole che dicono il senso di tutto. Finalmente. Tutto il disegno di Dio, le meraviglie della creazione, la fedeltà di Dio nelle tempeste della storia, l’incarnazione, la passione, la resurrezione, i cieli nuovi e la terra nuova, l’abito nuziale della sposa, l’unione eterna e beatificante… per voi! Sigillo posto su ogni atto di Dio, su ogni pagina della Scrittura e della vita, anche la più oscura e incomprensibile. Per voi.

[…]

Da “Il Gesù di Paolo e il Paolo di Gesù”, pp. 159-161.



Relazioni,comunità, maturità umana e spirituale

venerdì 5 giugno 2009 alle 17:03





La maturità di una persona si manifesta nella sua capacità di relazione. Se uno non ha amici è sempre un segnale critico. Dipende anche dalla predisposizione di una persona il fatto che questa abbia capacità di relazione. Non possiamo fare nulla per migliorare questa predisposizione. Spesso, però, la mancanza di relazione dipende anche dal fatto che non abbiamo un buon rapporto con noi stessi. E su questo possiamo lavorare. Solamente se siamo in relazione con noi stessi riusciamo a costruire buone relazioni con uomini e donne.

Ho assistito una signora che si lamentava di non avere un rapporto soddisfacente con gli altri. Dopo alcuni colloqui apparve chiaro da che cosa dipendeva. Questa donna aveva sempre esaltato la sua infanzia. Solo quando ebbe il coraggio di guardare anche gli aspetti oscuri e offensivi della sua infanzia divenne capace di relazioni genuine. Dovette prima entrare in rapporto con se stessa e con la sua storia per riuscire a incontrare veramente gli altri ponendosi per quello che era. In precedenza aveva portato nell'incontro solamente una parte di sé e si meravigliava che l'incontro non riuscisse.

Se siamo in rapporto con noi stessi, non porremo aspettative e richieste esagerate ai nostri amici e alle nostre amiche. Diventeremo oggetto di doni e colmeremo di doni gli altri. È un bel dare e ricevere. Non saremo più oppressi dall'urgenza di dover dare prova di noi stessi. Potremo semplicemente essere quello che siamo e riusciremo a lasciare che gli altri siano quello che sono. Godremo dell'amicizia senza aggrapparci a essa.

C'è il pericolo di accentuare in senso religioso la propria capacità di relazione. Se uno pensa di aver bisogno solamente di Dio e non degli uomini per il suo cammino, rimuove il suo bisogno di relazioni vere. Alcune persone vanno così in estasi per le loro esperienze religiose e mistiche che saltano di pari passo i loro rapporti umani. Non vogliono ammettere di non riuscire ad allacciare relazioni. Decantano l'unione con Dio che soddisfa tutti i loro desideri. In realtà, se sono unito a Dio, per un istante sono pienamente soddisfatto. In quest'istante si realizza la parola di Teresa d'Avila: «Dio solo basta». Ma non riesco a mantenere a lungo questo essere una cosa sola con Dio. Nell'istante successivo sono nuovamente lacerato interiormente e allora, malgrado tutte le esperienze della vicinanza salvifica di Dio, ho bisogno anche di esseri umani con cui potermi confrontare.

La relazione con Dio non è un sostituto della relazione con una persona. Un buon rapporto con Dio e con gli uomini normalmente si completano. È pericoloso se vado in estasi per la mia unione con Dio e non mi accorgo che con questa mia esaltazione non faccio che coprire la mia incapacità ad avere un rapporto autentico con gli altri. Appena l’estasi cessa, mi sento solo e dispero di me stesso.

Se sono radicato in Dio, non divento dipendente dagli al­tri. Ma proprio questa libertà dalla dipendenza mi fa anche godere l'amicizia. Esiste quindi un altro pericolo, quello per cui gli uomini esaltano in senso religioso certi rapporti e si rendono dipendenti da padri o maestri spirituali. In questo caso non sviluppano veramente i loro bisogni di amicizia, ma si sentono realizzati sotto il mantello protettivo della guida spirituale e dell'aiuto dato dal maestro. Allora, però, nascono delle dipendenze che non fanno bene. Queste persone sono entusiaste della loro guida spirituale e non riescono più a vivere senza di lei. Proiettano su di lei tutti i loro ardenti desideri. Questo non fa bene né alla guida né al discepolo. Quest'ultimo si ferma alla relazione con la guida nel suo cammino interiore. Pensando di fare importanti esperienze spirituali solo standogli vicino, si rifiuta di percorrere la strada che Dio gli ha destinato. Ci si ferma a una dipendenza infantile dal maestro e si ha continuamente bisogno della sua vicinanza per inebriarsi della sua saggezza e del suo amore.

Per la chiesa delle origini la nuova comunanza di ebrei e greci, di uomini e donne, di poveri e ricchi fu un segno della venuta del regno di Dio. La spiritualità benedettina è sempre stata praticata nella comunità. I giusti e buoni rapporti nella comunità sono sempre stati un'importante conferma della relazione matura con Dio.

È un impegno faticoso compiere ogni giorno il proprio cammino spirituale dentro una comunità. Qui non ci si può differenziare. Qui ci si deve confrontare con conflitti quotidiani. Qui il problema è tollerare le debolezze dei confratelli e delle consorelle. E c'è continuamente bisogno di cercare dei compromessi onesti. La comunità ingentilisce tutte le stravaganze. Ci mette continuamente di fronte alle nostre zone d’ombra. Non si può dare a intendere nulla ai confratelli. Tutto ciò che vorremmo occultare sotto un pietoso mantello viene alla luce. Ma proprio in questo modo la comunità conduce all'umiltà.

È una spiritualità molto sobria quella annunciata da Benedetto. Egli fa i conti con le quotidiane «spine dei dispetti» che nascono nello stare insieme. Ed esige dall'abate che si opponga a questi dispetti e si preoccupi continuamente della pace nella comunità. Ma è un compito del singolo far sì che lo stare insieme riesca. C'è bisogno di rispetto e di comprensione degli altri, è necessario rinunciare a giudicare e a voler dirigere gli altri.

Alle persone che praticano una spiritualità molto ideologica riesce sempre molto difficile affidarsi a una comunità. Spesso spaccano la parrocchia o la comunità dei fedeli che fondano o alla quale si uniscono. Per un certo tempo può anche andare bene una comunità composta da persone ideologicizzate, soprattutto finché essa ha un avversario comune. Ma dopo un po' di tempo si spaccherà. Infatti, i suoi membri non hanno imparato a cimentarsi con i conflitti quotidiani. Preferiscono rifugiarsi in un'ideologia, nella prepotenza e in una lotta fanatica per la giusta dottrina. Ma tutto quello che è stato rimosso sotto la superficie dell'ideologia prima o poi riaffiorerà e si esprimerà in aggressività o in intrighi nei confronti degli altri.

Questo pericolo esiste anche in nuovi movimenti spirituali, nei quali all'inizio la comunità è viva e attraente perché tutti sono entusiasti. Ma se l'entusiasmo non si trasforma in una spiritualità matura che si confronta positivamente con le contrapposizioni quotidiane ed è quindi disposta ai compromessi, in poco tempo la comunità si sfalderà. Oppure verrà tenuta insieme da un'autorità forte che spegne sul nascere ogni conflitto. Appena, però, verrà a mancare l'autorità, la comunità si spezzerà.

Nella comunità si vede anche se i singoli individui sono una benedizione per lo stare insieme o se creano spaccature attorno a sé. Chi è scisso dentro di sé, spaccherà anche la comunità. Nella comunità ci sono membri che tengono insieme gli altri. Sono come la colla della comunità. E ci sono membri che utilizzano la comunità solamente per se stessi e non fanno niente per essa. Avanzano sempre e solo delle richieste alla comunità, senza essere disposti a impegnarsi per essa. Se qualcosa non va secondo le loro idee, criticano la comunità, dicendo che non è abbastanza spirituale, che è superficiale e che ognuno cerca solo il suo tornaconto. Il grado di maturità di una persona si coglie dal modo con cui si inserisce nella comunità. La persona matura è sempre anche una benedizione per gli altri. Attorno a lei si può formare una comunità. Essa non lega gli altri a sé, ma li collega tra loro.

 

Anselm Grün, monaco benedettino


 













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