Inno alla vita (e... saluti)

venerdì 25 luglio 2008 alle 23:25

... mi prendo un po' di vacanza "meditativa" e in attesa di risentirci vi lascio queste bellissime parole di Madre Teresa di Calcutta, un inno alla vita... che è un programma di vita!

A presto! (verso metà Agosto o i primi di settembre...)



INNO ALLA VITA

La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne una realtà.
La vita è una sfida, affrontale.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, conservala.
La vita è una ricchezza, conservala.
La vita è amore, godine.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La vita è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, vivila.
La vita è una gioia, gustala.
La vita è una croce, abbracciala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è pace, costruiscila.
La vita è felicità, meritala.

La vita è vita, difendila.

Alla scuola dei poveri

venerdì 18 luglio 2008 alle 18:18


Oggi mi piace condividere con voi queste righe che mi sono appena arrivate dal carissimo p. Lorenzo, missionario in Madagascar. Buona riflessione!
.
"Come altre volte, approfitto di una tournée di visita alle scuole delle missioni del nord per mettere giù qualche riga per la nostra rubrica. È da tempo che non lo faccio.

Il tema di questa piccola condivisione vuole essere quello di sempre: la povertà. Può sembrare ripetitivo, ma è una riflessione che non riesco mai a chiudere, un capitolo a cui non riesco mai a mettere il punto finale. Ogni giorno si arricchisce di nuove pagine. Ed in ogni periodo c’è qualche pensiero in particolare che ti assilla. Qualche nuovo spunto nato da una piccola situazione, da un semplice incontro, da una scena di vita che ti passa sotto gli occhi.

Tra le grazie più grandi della missione c’è questo continuo stimolo a riflettere e meditare, non a partire da idee, ma normalmente da una situazione umana, per lo più triste.
Questo invito alla riflessione, che il più delle volte è la conseguenza di un’impotenza pratica ad agire, ha una densità umana incredibile. Leviga pian piano il cuore, dall’esigenza di capire allo sforzo di accettare, dalla reazione alla compassione.

La compassione, può sembrare l’ultima spiaggia dell’impotenza o il nascondiglio della codarderia. La pensavo così anch’io prima. Ma poi si manifesta come la più rivoluzionaria delle risposte. Perché è vero che la compassione non cambia il dolore, non dà da mangiare, non guarisce il malato, ma la compassione cambia te, e per sempre.

È questa la più umana e feconda risposta al dolore. Questo l’ho appreso dall’incontro con i poveri, ma poi mi sono accorto che era già là, nel vangelo: di fronte alla massa di poveri affamati che lo segue la prima reazione di Gesù è la compassione: “vedendo la folla ne ebbe compassione”(Mt 14,14)! E più volte i vangeli ci tengono a sottolineare questo stato d’animo di Gesù. La compassione non dà da mangiare, è vero, ma rende autentico tutto ciò che verrà dopo. Lo carica del peso specifico della carità cristiana. Senza questa compassione qualsiasi moltiplicazione di pani resta gioco di prestigio o pura ideologia.

A ben guardare è tutto già là, nel vangelo. Ma paradossalmente sono i poveri a ricordartelo, insegnandoti come essere realmente vicino a loro.
E questo è tanto più vero per quello che facciamo noi missionari. Senza questa base di compassione, che è vicinanza reale da uomo ad uomo, da cuore a cuore, costruire la scuola o il dispensario può essere semplice coreografia o addirittura ostentazione.


Non è semplice all’inizio, perché si sbarca qui con tutta la buona volontà di “fare” e molto. Presi da questa ansia di realizzare ci si dimentica di “sentire”. Solo col tempo e nell’incontro quotidiano capisci poi che senza questo “con-patire” tutto, anche i progetti e gli sforzi più coraggiosi, rischia di essere terribilmente vuoto e senza cuore.


Questo “con-patire” è un apprendimento quotidiano con cui ogni uomo deve confrontarsi, in qualsiasi parte del mondo. Ma ci sono delle situazioni, come la povertà generalizzata dei paesi africani, che non ti invitano soltanto, ma ti costringono. Davanti al dolore innocente “quotidiano” non si hanno che due scelte: o si smette di credere in Dio o si passa ad una nuova visione di Lui, quella del Dio che com-patisce, che soffre-insieme, e che pone come risposta al male ed al dolore la vita del suo Figlio ed anche la nostra compassione. Non è semplice accettarlo. Come la nostra compassione può essere la risposta di Dio al dolore. Non so assolutamente spiegarlo, ma sento che è così".

p. Lorenzo Gasparro CSSR

Eluana: "è anche parte della nostra famiglia"

martedì 15 luglio 2008 alle 21:25


«È parte anche della nostra famiglia» Suor Albina Corti, responsabile della clinica “Monsignor Luigi Talamoni”, racconta i 14 anni di assistenza prestata quotidianamente a Eluana Englaro: «Non è abbandonata»


10/07/2008di Paolo RAPPELLINO


La accudiscono «quasi come una figlia». Da 14 anni le Suore Misericordine vegliano Eluana Englaro nella Casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” di Lecco.


«In tutto questo tempo non le abbiamo mai prestato nessuna particolare cura medica - spiega la responsabile della clinica suor Albina Corti -. Per noi è una persona e viene trattata come tale. È alimentata con il sondino naso-gastrico durante la notte ed è in buone condizioni di salute. Fisiologicamente ha tutte le funzioni sane. È una ragazza bellissima».La casa di Eluana da allora è una stanza singola nel reparto di riabilitazione da 14 posti letto della clinica, vicino alla basilica di San Nicolò a Lecco. Un ospedale privato, convenzionato con il sistema sanitario. Alle pareti le foto della vita prima dell’incidente di quel maledetto 18 gennaio 1992.


A farle da angelo custode suor Rosangela: «Lei - racconta quasi con pudore la consorella - oramai intuisce subito se ha mal di pancia o mal d’orecchio». Tutte le mattine la paziente viene alzata dal letto, lavata, messa in poltrona.


Quotidianamente la portano in palestra, dove c’è un fisioterapista che le pratica la riabilitazione passiva; in stanza c’è spesso la radio accesa con la musica.«Qualche volta muove gli occhi, soprattutto se le parla suor Rosangela - confida suor Albina -, non si riesce a capire se comprende, ma io penso di sì, anche se clinicamente dicono di no. Però non è in grado di compiere nessun movimento.


In tutti questi anni non ha mai dato nessun segno».«È arrivata da noi nel 1994 - ricorda la religiosa misericordina -. Erano stati i genitori a cercarci, perché era nata qui e il padre diceva: “Desidero che chiuda gli occhi dove è venuta alla luce”. Quando ci fu chiesto di ricoverarla, nutrivamo delle riserve. Sapendo che la ragazza era in coma, pensavamo di non essere attrezzate sufficientemente per poterla accudire. Ma quando la nostra suora infermiera e un nostro medico sono andati a visitarla nel precedente ricovero, hanno capito subito che non necessitava di null’altro rispetto all’alimentazione con il sondino».


Eluana, seppure in stato vegetativo, non è stata mai lasciata sola, è inserita in una rete di relazioni: le fanno visita i famigliari, vengono anche alcuni conoscenti. «C’è una rete di relazioni intorno a lei, non è abbandonata. Spesso ad accompagnarla in giardino sulla carrozzina sono i genitori. Regolarmente vengono due amiche della ragazza», racconta suor Albina.


Ora le religiose della clinica “Talamoni” rimangono in attesa: «Per ora non ci hanno ancora comunicato nulla. Ovviamente noi non lasciamo entrare nessuno. Non sospenderemo mai l’alimentazione. Nel caso, venga il padre a prenderla: fino ad allora la ragazza starà qui. Anche se vorremmo dire al signor Englaro che se davvero la considera morta di lasciarla qui da noi. Eluana è parte anche della nostra famiglia».


Autenticità

sabato 12 luglio 2008 alle 10:49



Dobbiamo uscire dal gioco del perfezionismo, che ha fatto tanti danni a tutti, sia a noi religiosi/e, sia ai più lontani dalla Chiesa. Noi non siamo dèi. Esiste solo una perfezione: imparare a vivere insieme, cioè a vivere nell'autenticità. Il problema etico non è esse­re perfetti, ma essere autentici.

La rabbia che hanno le persone giovani davanti a certe istituzioni o a certe esigenze delle istituzioni (Chiesa, famiglia...) si deve al fatto che non ne perce­piscono l'autenticità. Questo è il problema etico più grande in questo momento, in questa società che ha bisogno di riconoscersi adulta e capace di iniziative.

Non siamo cattivi, ma la post-modernità vorrebbe essere maestra di se stessa. Senza avere paura, dob­biamo riconoscere le domande etiche di autenticità, cioè di trasparenza. Quando siamo persone traspa­renti si vedono anche i difetti. La cosa più difficile è vivere con persone e con istituzioni che pensano di non avere difetti: è impossibile e noiosissimo. Vivere la fede è camminare in un processo di nudità profon­da, per arrivare all'essenzialità.

La Scrittura, le Sapienze che vengono da altri mon­di ci accompagnano all'essenzialità: per vivere la fede non c'è bisogno di niente, come dicevano i primi padri e le prime madri del deserto. Pensate di quante cose abbiamo bisogno per giustificare la nostra fede. Invece quel messaggio dice che non c'è bisogno di molte cose, ma solo di stare dentro e di toccare inten­samente la vita.

I testi che abbiamo letto con un certo sospetto o mettendone in luce la prospettiva dualista, vi invito a ripensarli cercando in essi il gioco armonico della vita. Ci sono momenti in cui la vita dà più frutti, più opere e ci sono altri momenti in cui non si vede nien­te. Possiamo imparare a vivere in questa precarietà, nella fedeltà ai nostri limiti, ma anche alla nostra gio­ia.

Abbiamo il diritto di sentire la vita. E' un diritto che ha tutto il mondo, che hanno tutte le culture. Pos­siamo essere i protagonisti/e di questo Mistero e so­spettare di quelli che ci fanno credere che è impossi­bile. Non è solo il mercato o il processo di globalizza­zione che ci trascina tutti al consumismo. Ci sono anche altri soggetti che ambiguamente ci fanno cre­dere che avere fede significa obbedire e così ci tolgo­no il gusto del Mistero e dello stupore.



Antonietta Potente,
teologa domenicana

La strada come cura della stanchezza

domenica 6 luglio 2008 alle 11:06


« Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti e' dolce e il mio carico leggero » Matteo 11, 25-30



Siamo tutti malati.

Una malattia piuttosto strana, almeno nelle sue cause, anche se molto diffusa: la stanchezza.

C'è il peso della strada già percorsa che si fa sentire.

Il peso degli incidenti di viaggio.

Il peso delle delusioni, delle incomprensioni.

Il peso degli insuccessi.

Il peso delle persone.

Il peso di un ambiente meschino.

Il peso dell'ingiustizia.

Il peso della falsità.

Il peso della sfiducia.

Tutto ciò - e altro ancora - si accumula, si aggruma e, più che schiacciarti, ti intorpidisce, ti appanna la vista, ti svuota della tua sostanza, ti asciuga le energie.

La strada, allora, perde ogni interesse. L'unico interesse che può presentare è ormai quello di rintracciare un posticino dove adagia­re la propria stanchezza.

Si è come spenti.

Non si ha più voglia di nulla, salvo la voglia di « lasciarsi andare »

Basta così.

Non vale la pena.

Non è il caso di insistere. Per quello che si ricava...

C'è ancora un senso in tutto ciò?

Che cosa si ottiene a disturbare la quiete pubblica?

Che cosa si guadagna ad essere sinceri?

Paga ancora l'onestà, il senso del dovere?

Non è il caso di insistere.

Non vale la pena di lottare per queste cose.

Meglio mettersi tranquilli.

Ne ho abbastanza.

Un'esperienza del genere è stata vissuta, molti secoli fa, dai profeta Elia. Il racconto che troviamo nell'Antico Testamento ha valore di simbolo anche per noi.

« ... Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire disse:

- Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri.

Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco, un an­gelo lo toccò e gli disse:

- Alzati e mangia!

Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse:

- Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, cam­minò per quaranta giorni e quaranta notti... » (1 Re 19, 4-8).

« Ora basta, Signore...

Poco oltre dirà: « Sono rimasto solo ».

Si è scavato il vuoto attorno a me.

E si sta scavando il vuoto dentro di me.

Ciascuno di noi ha a disposizione un ginepro sotto cui disten­dere la propria sfinitezza e addormentarsi.

Il ginepro della rassegnazione, delle abdicazioni, della medio­crità, della facilità, dell'indifferenza...

Qual è la risposta che il Signore dà alla stanchezza di Ella?

Non è una risposta consolatoria, nonostante le apparenze.

C'è, sì, un intervento che rivela la paterna preoccupazione di Dio per il suo profeta, il quale si ritrova a portata di mano una focaccia e una brocca d'acqua.

Ma c'è anche una proposta che suona provocatoria: devi per­correre tanta strada (anzi « troppa »).

E, soprattutto, il profeta che casca dal sonno, non può dormire in pace.

«~Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino ».

Dio ci libera dalla malattia della stanchezza adottando una cura decisamente insolita.

Prima di tutto, ci rivela le cause della nostra stanchezza. Ed è una scoperta per lo meno singolare.

Ci dice. Non sei stanco per ciò che hai fatto, ma per il troppo che non hai fatto.

Non sei stanco per la strada percorsa, ma per la troppa strada che ti resta da percorrere.

La tua è una stanchezza da non-affaticamento, stanchezza da ec­cessivo riposo, da sedentarietà assoluta.

Sei sfinito a forza di non muoverti. Spossato a furia di rimanere fermo.

La tua stanchezza è provocata non dal peso del lavoro, ma da quello del non-lavoro.

La stanchezza non ce l'hai dietro, ma... davanti.

Non è dovuta al passato, ma all'avvenire che rifiuti.

Sei stanco di ciò che non hai fatto, che non intendi fare.

Sei stanco di ciò che non intendi essere.

Sei stanco perché non hai il coraggio dei tuoi sogni.

Sei stanco perché non cammini.

E poi, sì, dopo questa sbalorditiva, scandalosa diagnosi del male, Cristo ci offre anche un ristoro:

« Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò».

Finalmente!

« ... Prendete il mio giogo sopra di voi... »Bel modo di curare la stanchezza...

Invece di alleggerirci il carico, invece di offrirci le sue carezze, il Signore ci regala il suo giogo. E anche se è « dolce », pur sem­pre di giogo si tratta.

Non ce la facciamo più. E Lui ci appioppa un carico supple­mentare, sia pure « leggero ».

E il pane?

Il pane che ti fortifica, dovresti averlo capito, è la strada.

« Io sono il pane vivo, disceso dal cielo » (Gv 6, 51), assicura Gesù.

Lui, dunque, è il pane.

Ma Lui, non dimentichiamolo, è anche la strada. « Io sono la via » (Gv 14, 6).

Dunque, mangiando Lui, noi ci nutriamo della nostra strada.

La strada diventa il nostro alimento. La strada diventa il rime­dio della nostra stanchezza.

« Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino ».

(Questo Dio che non ti lascia dormire, che non ti permette di cullare in pace la tua stanchezza...).

Cammina, dunque. Più sarà lunga e impegnativa la strada che intendi percorrere, e più avrai tempo a disposizione per lasciarti dietro la stanchezza...


di Alessandro Pronzato

 













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