Davanti ai tribunali degli uomini

domenica 22 giugno 2008 alle 11:27

Ger 20, 10ss


Io sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all'intorno! Denunciatelo e lo denunceremo». Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.

Mt 10, 26-33

‡ In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Non temete gli uomini poiché non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia.
Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!
Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.


La stragrande maggioranza di noi per fortuna, non è mai stata davanti a un tribunale, nè ha la minima voglia di andarci, per nessun motivo.
E fin qui tutto normale.

Ma poi vedo che questa innata paura del giudizio invade sempre più lo spazio del nostro vivere quotidiano. Il giudice, o il potenziale giudice, è sempre l'altro, chi mi può vedere, giudicare, pensare o dire male di me. E' il terrore puro a volte.
Certo mai dichiarato.
Ma che induce i livellamento del nostro cervello.

Oggi si pensa così? Bene, adeguiamoci immediatamente... che non succeda di apparire ed essere giudicato diverso!!!
Oggi ci si veste così? E giù veri percorsi di ascesi per raggiungere la taglia giusta, per far entrare quei jeans, per scovare i capi giusti, per mettere quelle scarpe, per scoprire quella nuova parte di pelle che finora aveva visto forse troppo poco sole... meditazioni di ore centrate sul look...
Oggi tutti fregano e rubano? E allora vedi che a quello il favore va fatto per forza... eppoi così anche lui lo deve fare a me...

L'importante è non fare nulla che possa sottopormi al giudizio (negativo) degli altri.
Siamo schiavi che pensano di essere liberi.
Ma i risultati si vedono nei nostri occhi. Tristi.

Se è vero che la fede si accresce donandola mi domando a che livelli sia la nostra, se nemmeno abbiamo il coraggio di dirci cristiani, di fare un segno della croce, di nominare Dio in pubblico, con amici e conoscenti. Certo, la carità prima di tutto. Ma è carità suprema indicare il volto di Colui che ci ama e ci manda per annunciarlo a chi non lo conosce.

Nel momento stesso in cui si prova a farlo, si va contro la "legge" che imponeva di tacere, di non parlare di cose "vecchie", di non pensare al senso della vita e quant'altro.

Persecuzione? non esageriamo. Ma basta un briciolo di disapprovazione affrontato per amore di Gesù a innescare la reazione a catena della gioia. Proviamoci! E vedremo se è vero o no!

Buona domenica nel Signore a tutti!

Solitudine e comunione

domenica 15 giugno 2008 alle 21:25

Bose, 3-4 novembre 2007

“Conosco due specie di solitudine: l’una che mi rende triste da morire e mi dà la sensazione di essere persa, senza direzione; l’altra, al contrario, mi rende forte e felice. La prima deriva dal fatto che ho l’impressione di non aver più contatto con i miei simili, di essere totalmente separata da ciascuno di loro e da me stessa, al punto da non capire più che senso può avere la vita, mi sembra che non abbia più coerenza e che io non vi trovi il mio posto. Ma l’esperienza di un’altra solitudine mi rende forte e sicura di me stessa, mi sento in comunione con tutti, con tutto e con Dio, mi sento inserita in un grande condividere anche con altri questa grande forza che è in me (Etty Hillesum).

Spesso vediamo solitudine e comunione come antagoniste e cerchiamo la seconda per scappare dalla prima mentre, in realtà, si tratta di accettare una dimensione di solitudine costitutiva del nostro essere umani per accedere alla vera comunione con gli altri: “Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione. Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione si guardi dallo stare solo.

Esclusivamente nella comunione riusciamo a essere soli ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione impariamo a essere soli nel modo giusto ed esclusivamente nella solitudine impariamo a essere nella comunione in modo giusto.

Non si ha la precedenza di una condizione sull’altra, ma esse si determinano contemporaneamente con la chiamata di Cristo (Dietrich Bonhoeffer). Si tratta di scoprire che si può essere in comunione nella più grande solitudine e nella più intensa comunione scoprire uno spazio di solitudine che custodisce noi e l’altro da ogni assorbimento e fusionalità, che ci fa essere con noi stessi.

fonte: Monastero di Bose

L'obbedienza al dialogo

venerdì 6 giugno 2008 alle 18:37

"Credo che la chiesa italiana debba dire cose che la gente capisce, non tanto come un comando ricevuto dall'alto, al quale bisogna obbedire perché si è comandati. Ma cose che si capiscono perché hanno una ragione, un senso. Prego molto per questo".

Raramente, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, 80 anni compiuti da poco, ha fatto un accenno così diretto, così esplicito, durante un'omelia pronunciata in chiesa, a temi che agitano anche il dibattito politico nazionale. Ma non lasciavano molti dubbi di interpretazione, le frasi pronunciate ieri sera, durante la messa celebrata nella basilica della Natività di Betlemme, davanti a 1300 pellegrini arrivati al seguito del suo successore, l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi.

Il cardinal Martini, parlando a braccio, fra gli applausi dei fedeli, ha sollecitato la chiesa italiana a credere nel dialogo "fra chi è religioso e chi è non religioso, fra credenti e non credenti" aggiungendo di pregare "perché si raggiunga quel livello di verità delle parole per cui tutti si sentano coinvolti".

[…]

Card. Carlo Maria Martini

Vietati gli applausi dopo la predica

domenica 1 giugno 2008 alle 13:46

« Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Re. Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli... Matteo 7, 21-27

E ci sono dei commentatori che ci rassicurano.

Il programma enunciato nel Discorso sul monte rappresenta una splendida utopia, destinata però a non trovare alcun « posto »dove realizzarsi. Stupende parole condannate, ahimé, a non passare mai nei fatti. Pagine di altissima poesia. Ma... la vita concreta è un'altra cosa.

Insomma, un messaggio che può al massimo strappare qualche « oh! » di meraviglia o suscitare qualche sospiro di rassegnata im­potenza. Quanto all'impegno di attuazione, neppure a pensarci. Sono cose fuori dalla portata dei comuni mortali.

Ed ecco allora Hermann garantirci che il Cristo si accontenta della nostra disposizione di spirito e non esige l'azione pratica.

Ecco Kittel che ci spiega come siamo di fronte a un'etica di conversione, per cui le frasi del Sermone hanno semplicemente lo scopo di far prendere all'uomo coscienza della propria miseria, del proprio peccato (al limite... della propria incapacità di ubbidire). Per cui le esigenze morali del Discorso non verranno mai soddi­sfatte. Devono condurci, semplicemente, a piegare le ginocchia in segno di penitenza e a percuoterci il petto in segno di colpa rico­nosciuta.

Faccio notare. Primo: riesce piuttosto difficile ammettere che Gesù si preoccupi di illustrare un programma ritenuto già in par­tenza irrealizzabile. Si presenti con tutta l'autorità del Maestro e Signore soltanto per impartirci una lezione puramente teorica allo scopo di convincere i discepoli circa la loro inguaribile incapacità o di accendere un vago desiderio verso orizzonti che sono loro pre­clusi e ideali non alla loro portata.

Vediamo di essere seri. E improbabile che la missione di Gesù consista nell'aggiungere una pagina di poesia sublime alle molte di cui è già fitta la letteratura.

Sarebbe davvero strano che il Cristo si accontenti di una rispo­sta da parte dell'uomo di questo tipo: « Come sarebbe bello se que­sti precetti si potessero osservare! »

Le prediche del Signore non vengono offerte all'ammirazione, ma all'impegno. Lui non parla perché noi commentiamo: « Che bello! », ma perché ci convinciamo che quel pane è fatto per i nostri denti e quelle parole devono trasformare la nostra condotta.

Secondo. Certo, il Sermone ha anche una funzione di allarme e di turbamento salutare delle coscienze. Tuttavia non è consentito rimanere in una situazione perpetua di rimorso. Fin quando ci si limita a riconoscere di non essere a posto, non siamo ancora... a posto. Conversione non significa soltanto ammettere di trovarsi su una strada sbagliata, bensì operare un mutamento di rotta e comin­ciare a percorrere la strada giusta (non contemplarla da lontano).

Terzo. Cristo si mostra estremamente esigente. Ma le Sue esi­genze sono anche dono, grazia offerta. La Sua Parola, accolta nella fede e in una disposizione fondamentale di obbedienza, contiene in sé una possibilità di attuazione, una potenzialità di realizzazione.

Ascoltando le parole del Signore, non ci ritroviamo unicamente a saperne di più, ma diventiamo più capaci. Perché quella Parola è viva, efficace, creatrice, e produce quello che annuncia, rende pos­sibile ciò che comanda, abilita a fare, potenzia le nostre capacità, dilata le nostre possibilità. In ogni comandamento del Signore è insita una forza di compimento.

Quarto. La conclusione del Sermone sul monte ci indirizza deci­samente sulla strada del fare.

« Non chiunque mi dice: Signore, Signore... ma colui che /a... ». Si direbbe che Gesù provi una specie di impazienza a vedere il suo programma « impossibile » tradotto nei fatti, nella vita. Tra­disca un evidente fastidio dinanzi a manifestazioni e professioni di pietà, dimostrazioni di venerazione, sfoggio di titoli, che non sfo­ciano nell’azione.

Luca registra una frase ancora più severa: « Perché mi chia­mate Signore Signore e poi non fate ciò che vi dico? » (Lc 6, 46).

Insomma, Gesù vuole che l'intenzione si trasformi in azione,

l'ammirazione per il panorama determini la partenza. Esige gli si ubbidisca veramente. Le parole e le preghiere non gli bastano.

E, a spazzar via definitivamente l'illusione che il Sermone rap­presenti un ideale altissimo e quindi... irraggiungibile, ecco la para­bola della casa costruita sulla roccia e di quella edificata sulla sabbia.

Il Signore vuole che i suoi discepoli costruiscano la loro vita precisamente con questi materiali, con queste parole, sulla base dei principi che sono stati indicati.

Il significato è trasparente: la casa fabbricata sulla roccia sono le parole ascoltate e messe in pratica.

L'edificio che poggia sulla sabbia sono le parole soltanto ascol­tate.

La tempesta simboleggia il tempo della prova nella vita dell'in­dividuo e della Chiesa. In quei momenti difficili, il segreto della sicurezza e della tenuta consisterà nell'aver realizzato il proprio essere sulla parola e sulla persona del Cristo.

Il successo o il fallimento di un'esistenza dipendono dunque dalla posizione che si assume nei confronti delle parole di Gesù.

E l'alternativa ne richiama un'altra, decisiva: entrare o non en­trare nel Regno dei cieli.

« In quel giorno... » E il giorno ultimo, quello del giudizio finale. Qui la posta in gioco è estremamente seria: la vita o la morte.

« Molti mi diranno in quel giorno: "Signore, Signore, non ab­biamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?" Io però dichiarerò loro:

Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità ».

Allora, dunque, non servirà a nulla poter documentare di aver profetizzato, esorcizzato e compiuto miracoli nel nome di Gesù. Il bilancio attivo delle « opere carismatiche » realizzate non sarà suf­ficiente a farsi riconoscere da Lui.

« Non vi ho mai conosciuti...

L'unico legame che il Cristo giudice riconosce sarà quello dei fatti, dell'obbedienza al suo programma, della pratica del suo inse­gnamento.

« Non vi ho mai conosciuti ». Possiamo tradurre: « Non voglio aver niente a che vedere con voi ».

Gesù « riconosce » unicamente quelle persone che dimostrano di aver avuto a che fare con le sue parole.

Il miracolo più grande che lo impressiona è quello di una vita impostata sui grandi orientamenti del Sermone.

La carriera del discepolo non è punteggiata di prodigi spettaco­lari. Ha una validità in vista della salvezza soltanto se caratteriz­zata dall'obbedienza al messaggio di Cristo.

Per noi. Mettiamoci bene in testa che Gesù non ha parlato, così, tanto per parlare. Ci ha presentato un ideale che non è destinato a rimanere nelle nuvole.

Il Maestro ci indica:

- lo stile di vita che deve « far riconoscere » i cristiani

- la funzione che dobbiamo esercitare nel mondo

- il culto gradito a Dio che dobbiamo praticare

- l'atteggiamento a riguardo dei beni che dobbiamo adottare

- il modo con cui dobbiamo trattare gli altri

- l'alternativa più radicale della nostra esistenza: solidità o rovina.

Ci ricorda che non gli interessano tanto i titoli con cui Lo invo­chiamo. « Non chi dice Signore Signore... ». Desidera Lo confes­siamo con le opere.

Ci informa che non si accontenta di una fede formale e di una religiosità « parolaia ».

Ci ammonisce che il discepolo « approvato » è quello capace di coniugare il verbo « fare ».

Ci fa presente che tutto comincia precisamente quando la pre­dica finisce.

Ci insegna che la strada più bella (anche se estremamente diffi­cile) è quella che reca i segni dei passi.

Ci suggerisce che le parole che contano sono quelle che met­tono in cammino.

Ci precisa che il suo Sermone aspetta non i nostri applausi, ma una nostra decisione.

Insiste nel farci presente che l'etica dei Discorso sul monte è un'etica impossibile ma necessaria.

di A. Pronzato


 













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